Lo scoraggiamento nei confronti dell'Africa

 

L'opinione dei paesi sviluppati si orienta sempre più chiaramente in questo senso. Nel gennaio 1.965 Raymond Cartier ha esposto sulle colonne di "Paris Match" un atto di accusa contro l'Africa nel quale chiedeva a de Gaulle di non dare all'Africa neanche un centesimo e invitava i bianchi a venirne via prima di esserne inghiottiti dal primo all'ultimo. Cartier ripeteva la famosa domanda di Domenach: "I tropici, per loro natura, sono condannati a un'eterna maledizione?". Da quel momento il "cartierismo" ha preso forza nell'Europa occidentale, ma non solo lì.

Nel corso degli ultimi dieci anni il mondo ha accumulato ' molte amare esperienze in materia di questioni africane. La conoscenza dell'Africa è aumentata, ma con essa sono aumentate anche le perplessità.

La domanda è: che cosa si può fare in Africa?

Per costruire il capitalismo occorre una borghesia desiderosa di accumulare; per costruire il socialismo occorrono uno Stato forte e un partito. Ma lì non ci sono né borghesie accumulatrici né Stati forti. Qualcuno comincia ad avanzare l'ipotesi che in Africa potrebbe sorgere una forma socioeconomica completamente nuova, una forma ignorata da Marx in cui il capitalismo e, magari, qualche relitto del feudalesimo mescolati ai migliori elementi del socialismo dessero al mondo un nuovo prodotto, storicamente sconosciuto ma perfettamente confacente a quella realtà. Ma anche .nel caso che questo avvenisse, si tratterebbe di un processo che si protrarrebbe per decenni e per varie generazioni.

Rimandare la questione africana al prossimo secolo è una soluzione di comodo, ma forse anche necessaria. Forse bisogna davvero aspettare.

Niente, qui in Africa, è come in Europa. Né il capitalismo, né il socialismo. Trapiantati su questo terreno i regimi, i sistemi e le ideologie si snaturano, si decompongono, si disfano.

L'Africa ignora il rigore, la solerzia, la concentrazione che accompagnano l'Europa nelle sue azioni: non ce la fa a essere così seria, è più easy-going, meno puntuale. È affamata di benessere, ma di un benessere ottenuto in un modo più semplice, che un giorno spera di scoprire.

Ecco perché le esperienze altrui in Africa fanno cilecca. Con il passare degli anni la cosa appare sempre più evidente. È un suolo che non accoglie il seme, che non restituisce frutti. Non c'è una sola formula che abbia funzionato. Tutto si impantana a metà strada, spesso addirittura all'inizio del cammino.

La manifestazione più grave di questo scoraggiamento nei confronti dell'Africa è il progressivo calo degli aiuti stranieri ai paesi del continente nero. Per molti dei nuovi Stati africani questi aiuti sono la condizione sine qua non della loro esistenza: alcuni di loro non resisterebbero un solo mese senza gli stanziamenti stranieri e, se questa tendenza dovesse continuare, le conseguenze delle restrizioni saranno drammatiche.; Il concetto stesso di aiuto in Africa viene inteso in senso lato. Non si tratta soltanto delle somme che affluiscono al tesoro dello Stato sotto forma di stanziamenti e di prestiti esteri: in questa voce rientrano anche i prezzi vantaggiosi per i prodotti dell'agricoltura tropicale sui mercati mondiali. La questione dell'aiuto è diventata oggetto di numerose teorie politiche. Il Terzo Mondo ha dato vita a una nuova branca del sapere, ossia la filosofia dell'aiuto. Nella sua scala attuale la questione degli aiuti è un nuovo fenomeno della politica mondiale, un importante elemento della lotta per il futuro volto del mondo e perfino uno strumento sui generis della guerra fredda.

Gli aiuti occidentali si configurano quasi sempre come la restituzione di una parte dei guadagni che l'Occidente ricava dall'Africa. In un articolo sul mensile "Insight" Barbara Ward riconosce che dei quattro miliardi e mezzo di sterline che l'Occidente ha fornito come aiuti ai paesi del Terzo Mondo, all'incirca solo un miliardo e mezzo può essere considerato un aiuto nel vero senso del termine.

Il 19 dicembre 1961 l'ONU annunciava il cosiddetto Decennio per lo sviluppo (1961-1971). Due gli scopi prefissi: 1. I paesi sviluppati avrebbero destinato ogni anno almeno 1'1% del reddito nazionale all'aiuto dei paesi sottosviluppati.

2. I paesi sottosviluppati avrebbero dovuto raggiungere un ritmo di crescita del reddito nazionale del 5% annuo.

Entrambi i punti erano considerati il minimo indispensabile.

Basta un'occhiata ai numeri per accorgersi dell'incredibile abisso che separa il mondo industrializzato da quello sottosviluppato, nonché il dramma che il futuro porterà con sé in questo campo. Si ritiene che nel mondo sviluppato viva il 25% della popolazione e in quello sottosviluppato (o "Terzo") il. 75%. Si calcola anche che questo 25% di popolazioni sviluppate possieda e utilizzi l'80% delle ricchezze mondiali ("Jeune Afrique", 6 febbraio 1966). Questo per quanto riguarda l'oggi: molti segnali fanno presagire che domani le cose andranno anche peggio. Se si manterranno le attuali sproporzioni tra il ritmo di crescita dei paesi sviluppati e sot tosviluppati e se si manterranno le attuali tendenze demografiche, già nel 1980 il quadro del mondo apparirà come segue: sviluppati 10% della popolazione mondiale; sottosviluppati 90% della popolazione mondiale, tenendo presente che: gli sviluppati possiederanno il 90% delle ricchezze mondiali; i sottosviluppati il 10%.

Il Decennio per lo sviluppo avrebbe dovuto produrre un'attenuazione di queste sproporzioni e, se non migliorare íl tenore di vita degli abitanti del Terzo Mondo, almeno mantenerlo al livello attuale.

Ma, come ha recentemente affermato U Thant, la prospettiva di un miglioramento della situazione del Terzo Mondo "appare oggi altrettanto inconsistente di ieri". Il londinese "The Economist" scrive: "In tutto il mondo l'azione di aiuto registra un'inversione di tendenza. Ovunque è in atto una revisione critica del problema. La parte ricca del mondo ha forse perso la voglia di sollevare a un livello superiore quella più povera? La portata degli aiuti prestati ogni anno dall'Occidente ai paesi sottosviluppatisi mantiene al livello del 1961, benché da allora l'Occidente abbia notevolmente aumentato le proprie ricchezze e il potere di acquisto del denaro sia sensibilmente calato". Secondo il settimanale, il Terzo Mondo è stato vittima del progressivo miglioramento dei rapporti tra Oriente e Occidente (in effetti esiste una diretta dipendenza tra la crescita degli aiuti e la crescita della tensione internazionale, nonché tra il calo degli aiuti e il calo della tensione nei rapporti tra Oriente e Occidente. In questo senso si può dire che nel Terzo Mondo esistano forze interessate a mantenere alta la tensione che incrementa le probabilità di ottenere aiuti).

A prendere per buone le valutazioni dell'uNCTAD (Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo), negli anni 1961-1964 la cifra globale degli aiuti dell'Occidente al Terzo Mondo sarebbe scesa da 8,9 a 7,9 miliardi di dollari.

Nello stesso tempo aumenta l'indebitamento degli Stati del Terzo Mondo con i paesi sviluppati. Si calcola che attualmente esso cresca del 15% l'anno. I dati rilevati su trentasette paesi sottosviluppati dicono che tra il 1950 e il 1962 la loro dipendenza dai paesi sviluppati è aumentata del 66%.

Un altro problema dell'economia del Terzo Mondo è il continuo calo di prezzo dei prodotti tropicali, sempre più discriminati sui mercati mondiali. Oggi, per una pari quantità di merci, i paesi del Terzo Mondo ricevono molto meno di qualche anno fa. Questo ribasso dei prezzi assorbe tutto ciò che potrebbe incrementare la produzione in quei paesi e in molti casi nemmeno un considerevole aumento della produzione permette di ottenere gli stessi redditi che si sarebbero ricavati dall'esportazione cinque o dieci anni fa. Per i singoli paesi le perdite in questo campo sono enormi e raggiungono il 30-40% del valore globale delle loro esportazioni.

Così stando le cose, si può dire che il Terzo Mondo (tra cui anche l'Africa) non stia più combattendo per un sostanziale progresso o per innalzarsi a un livello superiore, ma semplicemente per mantenersi a quello attuale.

In Africa il miraggio degli aiuti è sempre stato fonte di illusioni e di miti di ogni genere. In tutte le società arretrate si riscontra la caratteristica di confidare nell'arrivo di un Babbo Natale che porti ai bambini sacchi di regali. In Africa questa fede è talmente forte da assurgere ovunque al rango di dottrina statale e da essere diventata uno dei canoni basilari della pianificazione economica. Prendiamo per esempio i piani economici di tre Stati africani e vediamo in che modo i loro governi prevedano di finanziarli. durata del piano costo totale spesa aiuti esteri in milioni di £ personale in in milioni di milioni di £

Nigeria esaennale (1962-1968)

Ghana settennale (1963-1970)

Tanzania quinquennale (1964-1969)

In tutti questi casi gli aiuti dovrebbero coprire quasi il 50%, e anche oltre, dei costi totali del piano. Si tratta comunque di una cifra puramente fittizia e immaginaria, dato che a questi paesi nessuno ha mai promesso niente. Piani del genere non rappresentano uno strumento d'azione, ma l'espressione dei pii desideri dell'élite, un documento testimoniante la forza dell'illusione generata dalla speranza di un aiuto. Alla fine tutto resta sulla carta. Nel caso della Tanzania gli aiuti reali ammontano solo al 10% della somma pianificata.

D'altra parte questi governi vanno anche capiti. Sono ambiziosi, ma privi di mezzi. Se presentassero un piano rispondente alle loro effettive possibilità ne verrebbe fuori un misero e striminzito progetto di fronte al quale tutti scuoterebbero il capo. Il piano dev'essere vasto e promettere molto.

Tanto si sa già che non verrà realizzato.

 

Nel suo libro Modelli di cultura, Ruth Benedict scrive: "Nella nostra epoca molte civiltà sono venute in stretto contatto tra loro, e per il momento la risposta fondamentale a questa situazione è il nazionalismo o lo snobismo razziale".'`

Che forza potente è il legame di razza! Chi trascorre la vita in un ambiente omogeneo dal punto di vista razziale non si rende conto del diabolico, asfissiante potere del legame di razza. Si manifesta con maggiore forza quanto più estrema è la situazione, e le situazioni più estreme si trovano in Africa.

Prendiamo due bianchi, ognuno dei quali trascorra per conto proprio un certo tempo tra i neri. Due bianchi completamente dissimili e che in Europa sarebbero stati divisi dall'insormontabile abisso della diversità di posizione sociale, di lingua, di mentalità e di punti di vista: l'unica cosa che li accomuna è il fatto di essere bianchi. Si incontrano nella macchia R. Benedict, Modelli di cultura, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 16. [N.d.T.] e cadono l'uno nelle braccia dell'altro, impazziscono dalla gioia, non vogliono più separarsi.

"La barriera razziale," scrive Gibran Majdalany, "somiglia alla barriera del suono. Invisibile e inavvertibile finché non ci si avvicina; appena la si oltrepassa ecco lo scoppio, il conflitto, la catastrofe." La gerarchia dei colori: l'ambiente dei mulatti in cui la posizione, il posto in società sono determinati dalla sfumatura della pelle, dalla saturazione di pigmento. Più chiara è la pelle, più è alto il gradino sulla scala sociale. Ad Haiti i mulatti si dividono in nove classi a seconda della sfumatura della pelle. Lo stesso succede in tutta l'Africa, dove regna il terrore del colore.

Lo scoraggiamento nei confronti dell'Africa ha anche una motivazione psicologica. L'Europa si è abituata a considerare l'Africa come un oggetto. Un oggetto da scoprire, poi da conquistare, poi da dividere e infine da sfruttare. L'Africa era il territorio dove il bianco andava a caccia, viveva avventure, riportava impressioni, ma sempre e solo un territorio, un'arena, un fondale scenografico per il bianco. L'europeo, senza rendersene conto, non è capace di vedere l'Africa come un qualcosa di a sé stante, come un fenomeno in sé con una propria vita, i propri problemi e i propri personali sogni, forze, ambizioni.

Che cosa chiede soprattutto la gente quando il discorso verte sull'Africa? Si informa sulle influenze americane, sulle influenze cinesi, sulla politica francese, sul commercio britannico.

Mai, o quasi mai, chiede che cosa stia succedendo tra gli africani, quali processi sociali vi si svolgano o quali forze politiche vi nascano.

E tuttavia, malgrado le dipendenze, le cadute, le sconfitte e gli insuccessi, l'Africa vuole essere indipendente. E questo è motivo di frequenti delusioni visto che tutti pretendono di esercitarvi la propria influenza, di dominarla e sottometterla.

È un atteggiamento che ha le sue fonti storiche e contemporanee e che manterrà a lungo la propria vitalità.

 

Il processo di liberazione dell'Africa, condizione sine qua non per uscire dal suo stato di arretratezza e di degrado, ha offerto al continente la possibilità di emanciparsi. Ma il passaggio di questa possibilità dalla teoria alla pratica si scontra con una serie di ostacoli tra i quali, con il passare del tempo, emerge soprattutto la balcanizzazione dell'Africa. L'Africa è il continente più balcanizzato del mondo. Con i suoi trecento milioni scarsi di abitanti si divide in oltre cinquanta Stati e territori. In altre parole, l'Africa rappresenta 1'8% della popolazione mondiale, ma circa il 30% degli Stati e dei territori del mondo attuale. La sproporzione diventa ancora più schiacciante se si considerano la povertà e l'artificialità della maggior parte degli Stati del continente nero.

La balcanizzazione è stata l'arma fondamentale usata dall'imperialismo contro l'ondata di liberazione africana. Ovunque si profilasse la possibile nascita di vasti Stati federali l'Occidente ricorreva a tutti i mezzi in suo possesso per impedirla.

L'Africa è un immenso continente con una superficie di trenta milioni di chilometri quadrati. Soltanto l'Eurasia è più grande. Due sono le principali caratteristiche del territorio africano: la scarsità della popolazione e gli spazi non coltivati. E l'impressione che salta agli occhi fin dal primo incontro con l'Africa. Si può viaggiare in macchina per decine, centinaia di chilometri senza incontrare una traccia di vita, oppure trovando qua e là piccoli centri isolati senza contatti tra loro.

Lo spopolamento del territorio costituisce un enorme ostacolo allo sviluppo. Gli economisti hanno fissato come indice di convenienza di sviluppo il rapporto 20/100, vale a dire che conviene investire in una zona solo se il suo tasso di popolazione ammonta almeno a venti abitanti per cento chilometri quadrati. La maggior parte del territorio africano si trova invece al di sotto di questo tasso minimo.

Tutta la parte centrale del continente, tutto l'interno dell'Africa, ossia il 90% della sua superficie, invece di unificare, di costituire un piano di contatto, un terreno di scambio e di cooperazione, costituisce una zona di separazione, un fattore di isolamento, una barriera insormontabile. Quest'interno dell'Africa,, che dovrebbe rappresentare un crocevia, uno spazio di incontro di genti e di merci, continua a essere scarsamente accessibile e perfino scarsamente esplorato. Attraversare il continente da nord a sud è un'impresa eroica che esige un enorme investimento di soldi, tempo e mezzi. L'attraversamento da est a ovest è ancora più arduo: a tutt'oggi non esistono ancora una sola strada battuta e una sola ferrovia che taglino il continente parallelamente o perpendicolarmente all'equatore.

I piccoli agglomerati dell'industria e dell'economia sviluppata formano una catena di basi costiere che circondano il continente lungo le sue frontiere esterne e hanno maggiori contatti con l'Europa e con i mercati d'oltremare che tra di loro o con l'entroterra africano. Sono basi che lavorano nell'esportazione estera e per le quali il mercato africano è troppo ristretto, con un giro di soldi troppo scarso. Anche le città si concentrano lungo le coste: nate non nell'ambito di uno sviluppo del territorio africano, ma in quello del commercio d'oltremare, continuano tuttora a dipenderne. L'esimio economista E.F. Schumacher tratteggia per il Terzo Mondo una visione di sviluppo delle cosiddette megalopoli, possenti aggregati dallo sviluppo canceroso esponenziale in cui si trasformano le città dei paesi sottosviluppati. "È facile accorgersi," scrive, "che i quartieri degli slum e della miseria intorno al centro delle città si sviluppano con una velocità dieci volte maggiore che non le città stesse. Oggi le stime di sviluppo delle megalopoli in India e in altri paesi arretrati permettono di prefigurare città di venti, quaranta e sessanta milioni di abitanti, giganteschi formicai di gente disoccupata, sradicata e deperita in un quadro d'insieme che supera ogni umana immaginazione. Niente può nascondere il fatto che i paesi sottosviluppati sono afflitti dal cronico male dell'aumento della disoccupazione e del moltiplicarsi di città-slum responsabili di una tensione politico-sociale che nessun governo è in grado di reggere." Il violento aumento della popolazione urbana verificatosi in Africa dopo la Seconda guerra mondiale non si è prodotto in seguito a una richiesta di forza lavoro per l'industria in via di sviluppo. Queste città lo sviluppo industriale non l'hanno neanche visto. La crescita è stata il risultato del progressivo declino delle campagne, dell'insufficienza dell'economia autosufficiente (anche se sembra un paradosso), della speranza di un veloce avanzamento fatto balenare dalla vita urbana.

In realtà questa corsa alle città ha prodotto soltanto un generale abbassamento del tenore di vita del paese: vivere in città costa più caro e le possibilità di trovarvi lavoro sono minime.

La mappa economica dell'Africa ci presenta quindi un continente internamente vuoto, coltivato lungo le coste e con un'industria che lavora per soddisfare i bisogni extra-africani: ossia un continente dalla struttura economica tipicamente coloniale, un continente che sul piano economico-commerciale, base di ogni legame e di ogni sviluppo internazionale, non ha punti di contatto con niente e nessuno.

Numerosi fattori ostacolano l'integrazione economica dell'Africa: 1. La balcanizzazione politica nonché i conflitti e i contrasti di interesse da essa derivanti.

2. L'Africa è divisa in tre principali fasce monetarie (sterlina, dollaro e franco) e in oltre venti fasce valutarie con valute non intercambiabili.

3. L'Africa è divisa in una serie di zone di mercato (quella del Mercato comune europeo, quella commerciale del Commonwealth ecc.).

4. L'Africa è divisa in una serie di fasce linguistico-culturali, le più importanti delle quali sono quella inglese, quella francese e quella portoghese (ma ci sono anche l'araba, la bantu, la spagnola, l'italiana, l'afrikaans).

5. L'Africa si divide in paesi con diversi sistemi sociopolitici.

Ci sono le colonie (Mozambico, Angola, Rhodesia), gli Stati feudali (l'Etiopia), gli Stati monopartitici a capitale libero (Nigeria, Costa d'Avorio), gli Stati pluripartitici capitalistici (Sierra Leone), i paesi a tendenza socialista (Mali, Congo-Brazzaville) ecc.

6. L'Africa si divide in paesi con un relativo grado di industrializzazione (RAU, Costa d'Avorio, Ghana) e in paesi economicamente arretrati (Ciad, Ruanda, Alto Volta).

"L'Africa non è solo un continente dalle nette divisioni e dai sorprendenti contrasti," scrive l'economista africano B.T.

Chidzero. "Il suo principale problema è il fatto di essere estremamente debole e indifesa e di rappresentare un favorevole campo di azione per il neocolonialismo politico ed economico.

La sorte dell'Africa si decide sostanzialmente fuori dell'Africa, oppure sul territorio africano, ma a opera di forze straniere." La politica commerciale e monetaria dell'Africa dipende dai mercati di esportazione dell'Europa e degli USA. Il mercato interno africano è minimo, non esiste un coordinamento dei piani di sviluppo, la politica del commercio con l'estero non viene concordata.

Un ulteriore ostacolo all'integrazione è il fatto che la popolazione dell'Africa nel suo insieme appartiene alla parte più povera della famiglia umana. In Africa il reddito annuo di un abitante ammonta in media a cento dollari, e in certe zone soltanto a trenta. In Mauritania metà della popolazione ha contatti solo sporadici con i soldi. I singoli paesi costituiscono un mercato di smercio minimo, dalla portata non superiore a quella del mercato di una media città europea. In questa situazione la maggior parte degli investimenti nell'industria o nei servizi risulta deficitaria in partenza (a parte il fatto che nessuno vuole farli).

Un altro fattore che impedisce l'integrazione è il carattere quasi esclusivamente agricolo dell'economia africana. L'Africa è un continente di contadini, la mentalità africana è una mentalità contadina, conservatrice, superstiziosa e diffidente.

Qui il contadino ha una capanna fumosa e come strumenti di lavoro una zappa di legno e una moglie. Secondo le categorie europee nemmeno la terra che coltiva è di sua proprietà.

In alcune parti dell'Africa è tenuto alla corvée e paga la decima. Talvolta si tratta di veri e propri servi della gleba: il coltivatore bianco vende l'azienda insieme alle anime nere a essa legate.

L'Africa fornisce soltanto il 2,5% della produzione industriale del mondo.

Da ciò deriva una sua ulteriore caratteristica: è il continente con il più alto tasso al mondo di dipendenza dal commercio estero. Molto più del 90% delle merci sui mercati africani dipende dal commercio estero, dall'importazione.

L'intera esistenza di paesi africani dipende quasi esclusivamente dall'esportazione di materie prime: due terzi sono rappresentati da prodotti agricoli e un terzo da materie prime industriali.

Due terzi del commercio estero africano sono rappresentati da quello con l'Europa occidentale. Ne consegue che l'intero commercio dipende da incertezze e fluttuazioni di mercato sulle quali l'Africa non ha modo di esercitare il minimo controllo.

L'Africa ha un bilancio commerciale deficitario: Dati dell'EcA (Economic Commission for Africa) in miliardi di dollari Esportazione Importazione Differenza In questi ultimi anni è notevolmente peggiorato.

Una delle condizioni per raggiungere l'integrazione sarebbe lo sviluppo dei territori che devono condurre gli scambi, ma questo sviluppo incontra una serie di impedimenti: 1. L'Africa dispone di una grande quantità di forza lavoro e di riserve, ma si tratta di una forza non qualificata e, quanto alle riserve, le manca il capitale per svilupparle.

2. I governi africani conducono tra loro un'accanita lotta per ottenere gli aiuti stranieri, lotta che produce dispersione e quindi scarso sfruttamento degli aiuti stessi, già di per sé estremamente al di sotto dei reali bisogni.

3. L'impossibilità di stabilire una collaborazione e di raggiungere una cooperazione tra gli Stati africani nel campo dello sviluppo provoca un rinnovarsi degli investimenti, la loro scorretta distribuzione e, di conseguenza, il loro scarso rendimento.

Lo scarso grado di industrializzazione e íl basso ritmo di sviluppo determinano una serie di investimenti superflui, spesso organizzati ma in genere mai messi in opera (vedi il Ghana).

4. A mantenere gli Stati africani in reciproco isolamento contribuiscono il basso livello delle infrastrutture africane, le immense distese di territori impervi, la totale mancanza di comunicazioni terrestri, le scarse e troppo costose comunicazioni aeree. L'isolamento viene favorito anche dalla lentezza del servizio postale (che passa dall'Europa), dalla rete a larghe maglie delle linee telefoniche interafricane per chiamare il Camerun dalla Nigeria (paesi confinanti l'uno con l'altro) bisogna passare per Parigi e infine dalla quasi totale assenza di informazioni tra i paesi africani. Per avere notizie del paese attiguo bisogna chiederle via Londra, Parigi o New York.

5. Lo scambio viene ostacolato anche dai dazi e dai vari balzelli posti dai differenti paesi e che complicano fortemente la vita data l'impossibilità di cambiare la maggior parte delle valute africane.

6. Un forte impedimento allo sviluppo è anche il basso livello delle conoscenze geologiche circa le riserve naturali.

Di molte zone non esistono ancora mappe geologiche. Ma si verifica anche il caso contrario: le autorità coloniali che conducono ricerche geologiche tengono segrete le informazioni sulle riserve per motivi di concorrenza.

E invece l'Africa ha un immenso potenziale di materie prime. L'Africa fornisce al mondo circa il 95% di noccioline, il 97% di diamanti, il 99% di litio, il 98% di chiodi di garofano, il 98% di vaniglia, il 92% di semi di palma, 1'82% di columbite e tantalite, 1'80% di cacao, il 79% di cobalto, il 77% di sesamo, il 69% di cianite, il 63% di olio di palma, il 64% di vino, il 62% di sisal, il 53 % d'oro, il 41% di berillio, il 40% di semi di ricino, oltre il 40% di cromo, piombo, manganese, cadmio, semi di cotone, il30% di platino, il 27% di rame, il 22% di antimonio, il 27% di fosfato, il 23 % di olio d'oliva, il 26% di caffè, il 23 % di cotone, il 27% di agrumi, il 16% di uranio, il 15% di asbesto, il 15% di tabacco, il 16% di pesce, il 10% di stagno, l'8% di zinco, il 5% di argento, il 7% di bauxite, il 9% di lana, il 9% di tè.

 

Il passato coloniale pesa su tutta l'Africa. Certe zone del continente sono state sotto il colonialismo per quattro secoli, ma la conquista totale è avvenuta nella seconda metà del xIx secolo. L'Africa non è stata capace di opporsi all'espansione europea. Era un continente poco popoloso, abitato da migliaia di tribù (l'antropologo George Murdock calcola che ce ne fossero oltre seimila, mentre Alekseeviè Olderogge fissa la cifra un po' sopra le duemilacinquecento), ma sparpagliate, spesso in guerra tra loro e, soprattutto, tecnicamente arretrate.

Per quanto bene si possa dire sul passato dell'Africa, sta di fatto che nel xIx secolo era la parte più arretrata del mondo.

Sul continente coesistevano, spesso l'una accanto all'altra, formazioni precapitaliste, vari tipi di comunità primitive, diverse varietà di schiavitù e numerose forme di feudalesimo.

I conquistatori coloniali rappresentavano invece il capitalismo europeo. Sul territorio africano si è svolto quindi un processo di sviluppo diverso da quello europeo. In Europa c'è stato un passaggio da una formazione inferiore a una superiore, dove la formazione inferiore ha preparato il terreno a quella superiore predisponendone la base economica, tecnica e sociale, di modo che in Europa la logica di sviluppo ha mantenuto una naturale continuità, una progressione internamente e materialmente motivata.

In tutta l'Africa le cose vanno in modo diverso. Il capitalismo vi si insedia non come il prodotto di uno sviluppo interno e naturale, ma per mezzo della conquista: vi viene quindi importato, imposto dall'esterno e, per ciò stesso, non combacia con la realtà africana trovata dagli espansionisti europei, non vi si fonde, non crea con essa un organismo omogeneo.

Al contrario, vi instaura proprio quel sistema che esercita sull'odierna realtà africana una così profonda e deformante influenza. In seguito alla conquista coloniale cominciano infatti a coesistere, uno accanto all'altro, due sistemi economici: quello africano precapitalista e quello colonialista e capitalista esportato qui dall'Europa occidentale. Un capitalismo che in Africa non trova il suo naturale terreno di coltura, che risulta estraneo non solo per via della sua origine coloniale, ma anche in senso storico in quanto prodotto proveniente da un'altra epoca e da una diversa esperienza socio-economica.

Privato della sua base naturale, non riesce a raggiungere il rango di formazione dominante e la sua presenza ha un carattere limitato: nelle colonie il capitalismo si rinchiude in una, due o più enclave isolate dalla locale e tradizionale realtà circostante. Il suo ambito viene definito non dai bisogni dell'economia del posto né dalle ambizioni degli africani, ma dagli interessi del capitale d'oltremare. Di conseguenza esso esercita una funzione creativa solo nella misura sufficiente a raggiungere lo scopo principale, ossia l'esportazione a buon mercato delle ricchezze naturali dell'Africa: se decide di investire dei soldi, li investe in miniere dalle quali estrarre rame o diamanti; se costruisce una ferrovia, la costruisce tra la miniera e il porto, e così di seguito. Con il risultato di creare delle enclave industriali in mezzo a un mare di arretratezza, di arcaicità e di economia primordiale. Queste enclave sono dei piccoli Stati nello Stato (piccoli come estensione, ma forti dal punto di vista del loro potenziale economico-finanziario e dei legami internazionali). Sono Stati nel vero senso della parola, con la propria polizia, le proprie scuole, i propri ospedali, i propri aerei e tutto il resto (basti pensare al Katanga in Congo, al Copperbelt in Zambia, al Firestone in Liberia).

E caratteristico il fatto che queste moderne nicchie industriali esercitino un infinitesimale, o inconsistente, influsso sul livello generale dell'economia del paese. Sono due mondi appartenenti a epoche e millenni diversi: da una parte la tec nica moderna più avanzata, dall'altra l'economia della zappa di legno, la forza di propulsione umana o addirittura la primordiale civiltà della raccolta e della caccia. E tuttavia la nicchia non modifica l'ambiente arretrato, non lo fa progredire, non rivoluziona i suoi primitivi strumenti e metodi di produzione.

I due mondi non si incontrano. Anzi, quel capitalismo localizzato, quella piccola dose di tecnica e di organizzazione moderne esercitano un effetto negativo e quasi distruttivo sull'economia africana precapitalista. Il capitalismo coloniale scaccia i neri dai migliori terreni di coltura, priva i villaggi delle loro migliori braccia e ha interesse a mantenere basso il livello di vita delle masse locali, fonti di forza lavoro clandestina.

È ovvio che il colonialismo in Africa un certo progresso tecnico l'ha portato: strade, ponti, porti, comunicazioni più rapide, collegamenti e così via. Ma nello stesso tempo è diventato anche la causa di certe deformazioni della sua economia, del suo snaturamento, dei suoi contrasti e delle sue dannose sproporzioni. L'Africa non ha ancora avuto una rivoluzione industriale: in sostanza abbiamo tuttora a che fare con società di tipo precapitalista.

L'indipendenza ha cambiato qualcosa in questo campo?

Per ora ben poco.

Le nicchie del capitalismo sono rimaste per lo più di proprietà del capitale straniero, mentre il governo africano ha ricevuto in eredità dal colonialismo la primordiale, tradizionale economia tribale. È sorta così una singolare forma di doppia proprietà che ha determinato quel regime di doppio governo caratteristico dei giovani Stati africani. E cioè: in uno stesso Stato troviamo, da una parte, il governo statale africano; dall'altra, il centro operativo del capitale straniero padrone del settore capitalista (quanto mai redditizio e sviluppato) dell'economia del paese. Può trattarsi dell'Union Minière (in Congo), del FIDA (in Guinea), del MIFERMA (in Mauritania), dell'Anglo-American (in Zambia): gli esempi non mancano.

Questi centri rappresentano un secondo e parallelo anche se informale potere statale che non solo è sostenuto dall'internazionale dei monopoli ma, soprattutto, gode dell'appoggio dei governi occidentali, che svolgono una politica a favore dei loro interessi. Il governo locale e il centro capitalista procedono su binari separati e, pur trovandosi nello stesso paese, la loro sorte e la loro situazione possono essere completamente diverse. Il governo del Congo ha trascorso sei anni in stato di crisi permanente, sotto la continua minaccia del deficit, della rovina e del fallimento, mentre l'Union Minière fioriva, si irrobustiva e aumentava le esportazioni.

Sono sette anni che il governo della Guinea proclama la politica del socialismo, tuona contro il capitalismo e condanna il neocolonialismo tirando avanti tra continue difficoltà finanziarie, deficit, inflazione, insuccessi economici, mentre, nello stesso tempo e in quella stessa Guinea, la grande società a capitale estero FRIA aumenta la produzione, si sviluppa e vive in un'immutata prosperity.

Questo doppio potere è uno degli elementi fondamentali dell'attuale situazione africana.

In molti casi tra il governo africano e la centrale del capitale estero si crea una coincidenza di interessi. La condizione imposta alle élite africane per arrivare al potere è l'impegno a non danneggiare gli interessi della centrale la quale, dal canto suo, rende a1 governo alcuni servizi: gli assicura l'aiuto e i prestiti stranieri e, soprattutto, finanzia i capricci dei capi politici. La centrale corrompe l'élite, la rende dipendente e spesso ne inserisce alcuni membri nel gruppo dei propri compatrioti.

 

I governi africani di questo genere vengono definiti neocolonialisti, o servi del neocolonialismo: ne sono un tipico esempio la Costa d'Avorio, il Kenya e il Camerun.

Qualche volta i regimi africani hanno intrapreso un tentativo di lotta contro queste centrali. In qualche raro caso (la RAU e, in parte, l'Algeria) tali tentativi hanno avuto successo, ma nell'Africa nera sono finiti quasi tutti con una disfatta: Lumumba è stato ucciso, Nkruma'h deposto, Odinga deposto.

Molti governi africani, pur proclamando slogan progressisti o addirittura socialisti, non osano danneggiare seriamente gli interessi della centrale. I loro leader temono la sua reazione all'eventuale decisione di nazionalizzarla, ben sapendola pronta ad applicare metodi gangsteristici, oppure si rendono conto che la nazionalizzazione porterebbe alla rovina il settore più sviluppato dell'economia del paese, e questo per due ragioni: innanzitutto perché il governo non è in grado di sostituire il personale qualificato della centrale con uno proprio; in secondo luogo perché al mondo non esistono mercati concorrenziali per l'esportazione africana. Se lo Zambia nazionalizzasse le miniere di rame, l'Occidente ne proclamerebbe il boicottaggio, nessuno più lo comprerebbe e la nazionalizzazione fallirebbe miseramente.

Così dunque, per quanto riguarda la nazionalizzazione, in Africa entrano in gioco non solo un fattore soggettivo (l'impostazione borghese delle élite, o di una parte di esse), ma anche una serie di fattori oggettivi (la mancanza di propri professionisti, la minaccia del boicottaggio da parte dei mercati d'oltremare, la dipendenza da mezzi di trasporto appartenenti al capitale straniero ecc.).

Se da un lato, nella maggior parte dei casi, queste centrali del capitale straniero in Africa non sovvenzionano in toto i governi africani, dall'altro li riforniscono comunque di consistenti fondi per finanziare i bilanci statali. Il principale reddito del governo di Sékou Touré proviene dalle tasse pagate dal FIDA; le principali entrate del governo della Mauritania provengono dalle tasse pagate dal MIFERMA; il governo dello Zambia realizza il proprio bilancio con le tasse pagate dall'Anglo-American.

Nella pratica politica questo tipo di situazione produce conseguenze di lunga portata. Le centrali straniere impongono sempre al governo, ovviamente in modo indiretto, la propria linea di azione: il governo è paralizzato, esautorato dalla centrale. Il campo in cui essa meno ingerisce è la politica estera, prova ne sia che molti Stati africani conducono una politica estera molto più progressista di quella interna. Ma, in linea di massima, la centrale interviene in ogni aspetto, con conseguenze pericolose principalmente in due settori. Primo: ha un'enorme influenza sulla scelta delle persone e sulla composizione delle élite governative. Secondo: combatte fermamente ogni iniziativa, idea o progetto di riforma socialista sia in campo economico che nei rapporti sociali dei paesi africani.

Dal punto di vista delle conseguenze si tratta probabilmente dell'effetto più distruttivo del neocolonialismo in Africa, anche più pericoloso dell'esportazione di ricchezze e capitali che attualmente vi viene praticata.

 

Questi appunti riguardano soltanto alcuni dei problemi della rivoluzione africana. Non si prefiggevano di descrivere la complicata situazione economica dell'Africa e, soprattutto, le interessanti esperienze di edificazione del socialismo sul suolo africano. Esperienze che comunque riguardano paesi con una popolazione pari a neanche il 5% degli abitanti dell'Africa a sud del Sahara. Il resto del continente è sommerso da enormi difficoltà economiche. Molti economisti, sia marxisti (tra cui Baran e Sweezy), sia liberali ma che guardano con simpatia alle ambizioni del Terzo Mondo (Dumond, Myrdal e altri), ritengono che data l'attuale distribuzione del capitale nell'economia mondiale e la sua quasi totale concentrazione nei paesi fortemente industrializzati, non sia possibile sollevare in modo efficace l'economia degli Stati economicamente sottosviluppati. Gli economisti marxisti aggiungono che l'economia di questi paesi non potrà mai conoscere un miglioramento qualitativo finché la maggior parte di quegli Stati manterrà un tipo di governo non socialista.

È difficile dire in quale direzione si svilupperà l'Africa.

L'Africa è un immenso continente in cui si trovano oltre quaranta Stati. Finché i paesi africani condividevano la comune sorte della schiavitù coloniale, i loro problemi e la loro situazione erano più o meno gli stessi. A quel tempo si poteva ancora parlare dell'Africa come di un tutto unico. Oggi è impossibile.

In Europa esistono due formazioni sociopolitiche, in Africa cinque; geograficamente l'Europa si divide in due parti, l'Africa in cinque. L'Africa è tre volte più grande dell'Europa e ha il doppio di Stati. È il continente più arretrato del mondo, anche se potenzialmente il più ricco. Il paradosso deriva dal fatto che nelle attuali condizioni del continente la trasformazione delle riserve in un'effettiva ricchezza è un processo incredibilmente costoso e capace di inghiottire capitali. L'Africa sta ancora aspettando un grande investitore. Lo aspetta da secoli.

In questo continente la politica si sviluppa in vari modi.

Nella vita politica dell'Africa tutto è possibile, caratterizzata com'è dalla breve durata dei governi e dal fatto che le forze e le tendenze politiche stanno appena cominciando a cristallizzarsi.

Ogni mese o due scoppiano rivolte, i carri armati invadono le strade, ci sono morti. Ma si tratta di rivolte primordiali, dal programma puramente negativo e i cui insorti non chiedono niente. Le forze di opposizione politicamente consapevoli stanno appena cominciando a formarsi e a formulare un proprio programma.

1964-1966