Hai visto il re?

 

Il 1966 si annuncia fin dal primo giorno nato sotto cattiva stella. Durante la notte di Capodanno gli abitanti della cittadina di Bangui sentono degli spari. Nel palazzo del presidente della Repubblica le luci sono accese, nelle strade scorrazzano pattuglie militari. La mattina del primo gennaio la radio annuncia l'avvento di una nuova era: in nome della giustizia, dell'uguaglianza e compagnia bella il colonnello Jean Bokassa ha effettuato un colpo di Stato.

La cittadina di Bangui è la capitale della Repubblica centrafricana.

Il presidente che ha perso il potere, la carica e il palazzo si chiama David Dacko. È un giovanotto vestito con un frac di buon taglio e con il petto attraversato dalla fascia della Legion d'onore. Il suo nome non è mai stato famoso: Dacko governava un paese povero, sterile e privo di importanza dal punto di vista mondiale. Solo recentemente, in uno dei suoi recessi sono stati scoperti giacimenti di diamanti ed è subito fiorito il contrabbando. Un viaggiatore in visita a questo nuovo El Dorado africano si è accorto con stupore che i contadini-minatori del posto pagavano la birra a suon di diamanti.

Sul golpe circolano varie versioni. Dato che Bokassa era lo zio di Dacko, alcuni attribuiscono il colpo di Stato a un conflitto familiare, altri lo spiegano con ragioni politiche: Dacko aveva allacciato rapporti con Pechino, cosa che indignava Bokassa che aveva fatto la sua carriera politica in Vietnam come sergente dell'esercito francese e difensore di Dien Bien Phu. Corre anche voce che i militari fossero irritati dall'inaudita corruzione del governo. Poco dopo il golpe, sulla stampa africana è apparsa la fotografia della divisa di Bokassa: della sua sola divisa, senza il nuovo presidente della Repubblica, per mostrare l'impressionante quantità di medaglie possedute da Bokassa, all'incirca una cinquantina.

Il 3 gennaio, ossia subito dopo il golpe di Bokassa, l'esercito ha assunto il potere anche in un altro Stato africano: l'Alto Volta. Lì la crisi è iniziata fin da dicembre, quando l'ex presidente Maurice Yaméogo ha annunciato una diminuzione degli stipendi. Il provvedimento è apparso particolarmente cinico visto che in quello stesso periodo Yaméogo si era fatto costruire nel suo villaggio natale (a spese dello Stato) un magnifico palazzo, facendovi portare da molto lontano l'acqua corrente. Quel palazzo, e soprattutto il lungo acquedotto, hanno fatto alla popolazione lo stesso effetto del fumo negli occhi. L'Alto Volta è il paese dell'eterna siccità, l'acqua è più rara del pane, per cui quei chilometrici lavori idraulici hanno colpito la fantasia popolare molto più dei tappeti e dei Luigi xv fatti venire da Parigi. Subito dopo sono scoppiati gli scioperi. La gente ha capito che Yaméogo intendeva ripianare con i soldi dei suoi sudditi il bilancio statale dilapidato nel palazzo e nell'acquedotto.

L'Alto Volta ha due istituzioni forti: la Chiesa cattolica e i sindacati dei lavoratori. I sindacati si sono messi in azione e nella piccola capitale Wagadugu la folla ha espresso la sua rabbia inscenando manifestazioni. Si ripete la solita situazione africana: i sindacati abbattono il vecchio sistema, ma non riescono a prendere il potere. I sindacati hanno rovesciato i regimi di Youlou, di Maga e di Yaméogo, ma il potere è stato preso da altri. Ai sindacati africani mancano i grandi capi, mancano i nomi: i quadri migliori sono entrati negli apparati dello Stato e del partito, e ai sindacati sono rimasti quelli che non sono riusciti ad arrivare in alto. I militari li trattano con ostilità, la burocrazia li disprezza.

Il colonnello Sangoulé Lamizana, che ha preso il potere il 3 gennaio, ha tolto la poltrona a Yaméogo, ma gli ha fatto salva la vita. Yaméogo si è dichiarato soddisfatto. Oltre alla vita gli sono stati lasciati il palazzo di campagna e l'acquedotto.

Yaméogo era un personaggio sostanzialmente poco simpatico.

In Africa era considerato un venduto e perfino i suoi conterranei ne parlavano con antipatia. Per dire che cosa siano le elezioni in Africa basti un esempio: un mese prima della caduta di Yaméogo, nell'Alto Volta si erano svolte le elezioni alle quali, secondo i dati ufficiali, Yaméogo avrebbe ottenuto il 99,93 % dei voti. I francesi a casa loro prendono le elezioni molto sul serio, ma nelle colonie organizzano di queste buffonate.

Ma il vero problema del 1966 è la Rhodesia. Il 9 gennaio si è riunita a Lagos la conferenza dei premier del Commonwealth.

Una situazione disperata: come far cadere il governo di Smith con l'aiuto degli inglesi che non vogliono intervenire?

La conferenza, finita in un fiasco, è stata liquidata da Smith con parole beffarde.

"La questione della Rhodesia," ha detto il presidente Nyerere, "è una vergogna e un oltraggio per l'Africa." Niente di più vero.

Gli eserciti dell'Africa indipendente contano complessivamente mezzo milione di soldati, mentre la Rhodesia ha in servizio attivo meno di cinquemila uomini: ciò nonostante, l'Africa è impotente. La sua è un'impotenza di natura prettamente politica, dovuta alla mancanza di unità e alla dipendenza dall'Occidente. In realtà la questione della Rhodesia non può essere risolta né da Londra né dall'ONU: per questa via si può ottenere al massimo la caduta di Smith, il che non risolve certo tutti i problemi. Di per sé Smith non è il male peggiore della Rhodesia. Smith occupa una posizione centrale nel proprio partito, il Rhodesian Front, per il quale votano quasi tutti i rhodesiani bianchi, ma nel partito esiste anche una forte ala fascista i cui slogan sono: campi di concentramento e graduale sterminio dei neri. Nel governo di Smith quest'ala è rappresentata da Harper, Lardner-Burke e Lord Graham, i quali considerano Smith un liberale e un opportunista e sono contrari al dialogo sia con Londra che con chiunque altro all'infuori del Sudafrica. Se in Rhodesia le difficoltà aumentassero, i fascisti deporrebbero Smith e prenderebbero personalmente il potere.

A mio avviso il più grande problema della Rhodesia sta nella debolezza dei partiti africani.

Un'altra difficoltà sta nel fatto che metà dei neri che vivono nelle città della Rhodesia non sono rhodesiani. Sono abitanti dei paesi limitrofi Mozambico, Zambia, Malawi, Burundi che si trovano in Rhodesia solo per motivi economici: guadagnare qualche soldo, comprarsi la radio, la bicicletta, la moglie e tornarsene a casa. È difficile convincerli a unirsi. alla lotta: la Rhodesia non è la loro patria, ma solo una sede temporanea di lavoro.

Oggi in Rhodesia vige il terrore assoluto. La polizia vi applica i medesimi principi del Sudafrica: spara su qualsiasi accenno di manifestazione prima ancora che si sia radunata la folla. Gli africani lo sanno e non osano farsi avanti. Ecco perché il mondo parla spesso della Rhodesia mentre in Rhodesia regna un quasi totale silenzio. Il presidente della Tunisia, Burghiba, si è detto convinto che non ci sia modo di liberare la Rhodesia finché non sia la sua stessa popolazione africana a entrare in guerra. Da un punto di vista razionale la sua teoria non fa una grinza, ma poiché Burghiba gode fama di reazionario e provocatore, in Africa la sua è considerata una teoria neocolonialista.

La Rhodesia è un bellissimo paese: ha un clima fresco, ottime strade, un'industria sviluppata e moderna e terre in gran parte fertili. I bianchi non hanno la minima intenzione di andarsene perché da nessun'altra parte si troverebbero bene come qui. Inoltre le ultime tre generazioni bianche sono nate in Rhodesia e la considerano la propria patria.

Poco dopo la conferenza rhodesiana, a Lagos, nella notte del 15 gennaio l'esercito effettua un colpo di Stato in Nigeria.

Ilprimo febbraio nel Malawi viene giustiziato il partigia130, no, ribelle ed eroe Medson Silombela. La lotta contro il colonialismo ha già portato all'Africa i suoi martiri e adesso il neocolonialismo le porta altre vittime: Silombela, Lumumba, Pinto, Ben Barka. Silombela ha guidato una rivolta contro il regime del dottor Banda, rivolta che nell'indipendente Repubblica del Malawi è stata soffocata dalla polizia inglese.

Molti suoi capi sono morti sotto tortura o come Silombela sulla forca. "Bisogna impiccarli e gettarli in pasto ai cani, ha detto in parlamento il dottor Banda, che ama le espressioni colorite. Il dottor Banda è un razzista à rebours: è un nero, ma il suo razzismo si appunta contro i neri. Le cose peggiori sull'Africa non le dice Smith, ma il dottor Banda. Stravagante eccentrico d'altri tempi, va in giro con la bombetta, un panciotto con la catena d'oro e un ombrello che sbatte regolarmente in testa al suo interprete ogni volta che questi travisa qualche parola. Il sogno del dottor Banda è che la regina d'Inghilterra venga in visita nel Malawi.

Il presidente del Malawi nutre la massima stima per Smith e per la sua équipe in quanto una volta il predecessore di Smith, Winston Field, ha accettato di prendere un afternoon tea insieme a lui. "Ha preso il tè con me benché fossi nero," gli ho sentito dire con orgoglio e con una nota di commozione nella voce. Adesso il dottor Banda ha deciso di trasferire la capitale del Malawi da Zomba a Lilongwe. La motivazione ufficialmente addotta è che a Zomba fa troppo freddo, ma la vera ragione è che Zomba è la zona di influenza dell'avversario del dottor Banda, Henry Chipembere, per cui il presidente ha paura di abitarci e preferisce andarsene. La capitale verrà quindi trasferita a Lilongwe, una cittadina in cui bisogna costruire tutto di sana pianta. L'economia del Malawi, staterello indebitato fino al collo, resterà congelata per anni perché il presidente vuole una nuova capitale per dormire sonni tranquilli.

Alla fine di febbraio una notizia sensazionale fa il giro del mondo: il 24 di quel mese c'è stato un colpo di Stato in Ghana.

Quello stesso giorno il presidente Nkruma'h atterra all'aeroporto di Pechino. Qualcuno gli porge un foglio con la notizia, ma Nkruma'h fa spallucce: non ci crede.

Il rivolgimento politico è stato ispirato dall'Occidente.

Alla vigilia del golpe gli inglesi hanno raccomandato ai loro connazionali di allontanarsi dalla zona di Flagstaff House, dove una brigata del colonnello Kotoka ha sferrato un attacco alla guardia di Nkruma'h. Ma dire "ispirato" è dire poco.

Nkruma'h aveva una sua idea personale del socialismo, detta nkrumahnesimo. Secondo la definizione ufficiale, lo krumahnesimo "è il socialismo scientifico applicato alle condizioni africane". Applicato sì, ma male. Nkruma'h ha condotto una politica interna impossibile, nel senso che ha voluto costruire il socialismo in un paese la cui effettiva classe dominante è la borghesia. Il Ghana si è sempre distinto dalle altre colonie africane per il fatto di essere un paese ricco in cui la borghesia, i commercianti e i coltivatori di cacao rappresentavano da tempo una classe forte, abbiente e influente.

Era questo il Ghana che Nkruma'h trovò al suo rientro ad Accra dopo la guerra e dove, dopo la conquista dell'indipendenza, sventolò lo slogan di un socialismo che non intaccasse la struttura non-socialista della società ghanese. Con il passare del tempo, in Ghana finì per crearsi un particolare compromesso: Nkruma'h ha lasciato l'economia, l'amministrazione e lo Stato alla borghesia la quale, dal canto suo, ha accettato il socialismo e Nkruma'h, concedendogli mano libera nella progressista politica estera e nella rivoluzionaria politica panafricana.

Su questo compromesso si è sostanzialmente basata la situazione interna del Ghana nell'ultima fase del governo di Nkruma'h, ma Nkruma'h l'ha pagato a caro prezzo. L'instaurarsi del compromesso è stato reso possibile grazie alle sue particolari doti personali. Nkruma'h è un personaggio straordinario, un uomo fuori del comune, ma purtroppo è innamorato della propria grandezza e questo l'ha accecato portandolo alla rovina. Si considerava il Messia di tutta l'Africa, vedeva se stesso come presidente non solo del Ghana, ma di tutta l'Africa. "Nel suo lavoro quotidiano," ha detto uno dei suoi più stretti consiglieri, Dei-Anang, "Nkruma'h dedicava poca attenzione al Ghana. In un certo senso si può dire che il Ghana non gli interessasse, che fosse solo il punto di partenza per abbracciare l'intera Africa." "Ho ripetutamente provato a parlare con Nkruma'h della situazione ghanese," ha detto il presidente Nasser, "ma ogni volta è stato impossibile: parlava sempre di tutta l'Africa, si occupava di tutta l'Africa." Nel frattempo l'avida e ipocrita borghesia ghanese sfruttava le istituzioni socialiste per colpire i capitali privati.

Sul socialismo ghanese la borghesia si è fatta una fortuna.

Ci troviamo di fronte al fenomeno, riscontrabile in molti paesi del Terzo Mondo, del divario tra la progressista politica estera di uno Stato e la sua opportunistica politica interna.

Per un certo tempo le due politiche possono anche coesistere, ma prima o poi si arriva inevitabilmente alla rottura. Così sono caduti Goulart in Brasile, Ben Bella in Algeria, Sukarno in Indonesia e Nkruma'h in Ghana. Il caso del Ghana è anche la dimostrazione di un altro fenomeno riscontrato in Africa, e cioè di quello che io chiamo il socialismo unipersonale. Il presidente traccia la strada, ma chi altro è con lui? In Ghana l'amministrazione era talmente reazionaria che nessun comunista inglese poteva ottenere il visto d'ingresso. Basta che il singolo uomo politico esca di scena perché si scopra che l'esercito è reazionario, il partito è reazionario, la burocrazia è reazionaria... A parte lui chi altro c'era, al vertice, di progressista?

Un solo politico se ne va e con lui se ne va l'intero regime.

Nella primavera del 1966 si è conclusa la crisi governativa del Kenya. Una crisi che, con maggiore o minore intensità, durava da tre anni, ossia dall'inizio dell'indipendenza kenyota.

Ne sono stati protagonisti il presidente Kenyatta, capo della maggioranza governativa neocolonialista, e il vicepresidente Odinga, capo del gruppo governativo nazionalista di sinistra. Nella lotta che il gruppo di Kenyatta conduceva contro la sinistra con i metodi più spietati e brutali è stato assassinato, tra gli altri, un mio amico, l'attivista più dotato del gruppo di Odinga nonché membro del parlamento kenyota, Pio Pinto. Lo stesso Odinga era rimasto sempre più isolato: già due anni prima si era lamentato con noi giornalisti di non essere nemmeno informato delle riunioni governative. Il presidente Kenyatta era completamente in mano al più scaltro diplomatico neocolonialista inglese, Malcom MacDonald.

Lo era e lo è. Dalla dichiarazione di indipendenza in poi MacDonald amministra la politica di questo paese come un suo possedimento personale.

Il 9 marzo Odinga convoca una drammatica conferenza stampa nella quale dichiara che nel governo kenyota é in atto una congiura per destituirlo. Quattro giorni dopo Odinga viene deposto dalla carica di vicepresidente del partito al governo, il KANU. Un mese dopo Odinga convoca una nuova conferenza stampa in cui dichiara di uscire dal KANU e di rinunciare alla vicepresidenza del Kenya. Nel corso della con, ferenza, a proposito del governo di Kenyatta Odinga dice: "È un nemico molto più spietato e inumano del colonialismo che abbiamo combattuto. I membri del governo kenyota vengono manovrati da capi dietro le quinte" e l'intero Kenya è in realtà retto da "un governo nell'ombra". Alla fine del discorso Odinga, secondo il suo solito, canta la canzone Nostra madre Africa da lui composta per l'occasione. Odinga compone canzoni che poi esegue personalmente riscuotendo calorosi applausi.

Odinga diventa presidente di un nuovo partito d'opposizione, il Kenya People's Union, la cui base è la provincia di Nyanza, abitata dalla tribù dei luo che in Kenya gode fama di "tribù comunista". Odinga viene sostenuto dalla Tanzania, i cui rapporti con il governo kenyota sono molto tesi. Ma il passaggio di Odinga all'opposizione segna un temporaneo indebolimento della sinistra. Il Kenya è un paese dai profondi e aspri conflitti politici e di classe.

"La notte del 22 maggio," scrive 1' "Uganda Argus", "sulle colline intorno a Kampala risuona il guerresco richiamo dei tam tam che incita i baganda a combattere in difesa del re." Comincia così l'ultimo atto del dramma vissuto quest'anno dall'Uganda. È un argomento di cui i giornali si sono scarsamente occupati. L'Uganda ha vissuto per anni impelagato in conflitti interni e partecipando raramente alla grande politica africana. Ogni volta che sono andato a Kampala sono rimasto colpito dalla sua atmosfera provinciale: una provincia peraltro bellissima, visto che vi sono i più bei panorami di tutta l'Africa.

Nel 1862, all'epoca della spedizione alle sorgenti del Nilo, capitò da queste parti Speke.

"Speke," scrive Moorehead, "fu fatto accomodare su una sedia di fronte al trono di Mutesa e rimase in attesa di quello che sarebbe successo.

"Non successe niente.

"Per un'ora i due rimasero l'uno di fronte all'altro, guardandosi in faccia nel più completo silenzio. Finalmente un cortigiano si avvicinò a Speke e gli chiese: "`Hai visto il re?'.

"Lo sto guardando da un'ora,' rispose Speke.

"Il cortigiano tradusse la sua risposta al re. Questi si alzò e sparì all'interno del palazzo. La visita era finita." Quel Mutesa di cui Speke era rimasto in contemplazione era il re del Buganda, abitato dai baganda. Con l'aiuto degli inglesi il regno del Buganda si è mantenuto fino a oggi, ma come parte integrante del moderno Stato dell'Uganda. I baganda rappresentano un terzo della popolazione ugandese.

Appartengono al gruppo bantu, sono intelligenti, benestanti e possiedono le migliori terre dell'Uganda. Gli altri regni e le altre tribù dell'Uganda hanno sempre dovuto versare loro un tributo. Concedendo l'indipendenza all'Uganda gli inglesi avevano assicurato ai baganda una forte autonomia.

Il regno del Buganda aveva un suo governo, un suo parlamento, la sua polizia e anche il proprio re: Edward Mutesa 1, discendente di quel Mutesa che aveva organizzato il famoso show a uso di Speke. I baganda occupano il Sud dell'Uganda, mentre il Nord è abitato dalle povere e primitive tribù nilotiche. Quel Nord da cui appunto proviene il premier dell'Uganda, Milton Obote.

Non si può dire che Obote, presuntuoso com'è, sia una persona simpatica. Però è un abilissimo giocatore, un dialettico e un grande sofista politico. È un sincero nazionalista africano, sebbene la complicata situazione interna dell'Uganda gli abbia impedito di assumere una posizione panafricana.

Per conquistarsi i baganda Obote ha nominato Mutesa presidente dell'Uganda, ma senza dargli il potere. Ciò nonostante i baganda hanno mantenuto un atteggiamento separatista e centrifugo e, come se non bastasse, hanno cominciato a organizzare una congiura per destituire il premier. In seguito a ciò Mutesa ha aperto delle trattative con Londra per ottenere aiuti armati e tentare di convincere l'esercito a fare un colpo di Stato.

Il 4 febbraio il capo della frazione parlamentare dei baganda accusa pubblicamente Obote di essersi appropriato, in combutta con due ministri, dell'oro rapinato in Congo nonché dell'avorio per un valore di duecentocinquantamila sterline. Scoppia un terribile scandalo. Obote nega, ma l'opposizione insiste: come può provare di non averlo preso? Lo dimostri!

E Obote effettua il golpe. Un golpe che presenta due elementi insoliti: il primo è che si tratta di un attacco compiuto dal capo del governo contro lo Stato (e quindi, in un certo senso, contro se stesso); il secondo, che Obote lo attua da solo, a suo solo nome. Il 22 febbraio arresta cinque dei suoi ministri e lascia liberi gli altri. Prende in mano tutto il potere, sospende la Costituzione e, dieci giorni dopo, destituisce il presidente dell'Uganda Mutesa. Convoca il parlamento, che nomina Obote presidente, annulla la Costituzione esistente e dichiara l'Uganda uno Stato unitario, privando automaticamente i baganda del loro privilegio di Stato nello Stato. Un privilegio che i baganda decidono di difendere: il 22 maggio incitano il popolo a combattere Obote. Mutesa ii invia a Obote un ultimatum intimandogli di portare via il governo da Kampala, situata sul territorio dei baganda.

Obote risponde con la massima fermezza. Dichiara lo stato d'emergenza e istituisce il coprifuoco. Rivolge ai reparti dell'esercito a lui fedeli un appello in cui afferma che il governo di Mutesa (ossia dei baganda) intende attuare la secessione del Buganda e chiamare in aiuto truppe straniere.

Per ordine di Obote reparti dell'esercito ugandese attaccano Mengo Hills, ossia la zona di Kampala in cui si trovano il palazzo Kabaki (quello del re Mutesa ) nonché le sedi del governo e del parlamento bagandesi. Nella battaglia, durata un giorno, periscono oltre duemila persone. Mutesa II scappa, viene ricercato e infine ricompare a Londra nelle vesti di re detronizzato in esilio. Il suo palazzo di Mengo è bruciato e il suo regno ha cessato di esistere. Per alcuni giorni l'esercito pattuglia le vie di Kampala. Per qualche tempo continuano a circolare volantini che invitano i baganda alla riscossa, ma un po' alla volta ritorna la pace. Obote convoca il nuovo governo.

Nella tribù ngouabi (Congo-Brazzaville) nasce un bambino di nome Marien Ngouabi. Il ragazzo cresce, diventa capitano e comincia a tramare un colpo di Stato contro il governo del presidente Massamba-Débat. La congiura viene scoperta e Ngouabi è trasferito in provincia. Per protesta contro il provvedimento i membri della tribù ngouabi organizzano a Brazzaville una manifestazione. Inizia così nel Congo-Brazzaville la crisi del 28 giugno. L'esercito decide di prendere il potere. Il presidente della Repubblica, Massamba-Débat, si trova in Madagascar: ad allontanarsi dalla propria sede in Africa si rischia sempre grosso (da questo punto di vista il presidente Kenyatta segue un ottimo principio: da, quando è stato eletto presidente non va più da nessuna parte).

Il 28 giugno, dunque, l'esercito, infervorato dalla manifestazione tribale degli ngouabi, marcia sulla città per prendere il potere. Il governo si rifugia nello stadio (Brazzaville ha un grande stadio provvisto di solide porte e difficile da espugnare se non si dispone di mezzi per scalarne le mura). Il presidente Massamba ha una guardia personale composta da ottantatré cubani di Fidel Castro, tre dei quali sono posti a fronteggiare l'esercito del Congo-Brazzaville (che conta oltre tremila soldati) e i manifestanti ngouabi. I militari decidono di non muoversi: occupano però la stazione radio e ne vietano l'ingresso ai ribelli. Di fronte a questa opposizione i ribelli perdono la testa. Vanno allo stadio, ma lo trovano protetto dai cubani. La rivolta comincia a sfuggire loro di mano. Per salvare la faccia cercano di organizzare una prova di forza scorrazzando in jeep per le strade di Brazzaville ma, non sapendo dove andare, girano senza meta e finiscono per tornare alle caserme. A questo punto i membri del governo, asserragliati nello stadio, cominciano a tirare fuori la testa per vedere che cosa succeda e chi detenga il potere: è andata bene, il potere ce l'ha lo stadio. Nel frattempo il presidente Massamba, informato del tentato colpo di Stato, cerca di raggiungere Brazzaville da Antananarivo. Ma siamo in Africa: mancano i collegamenti e Massamba vola a Parigi senza sapere se sia ancora presidente. Atterra a Brazzaville soltanto una settimana dopo lo scoppio della rivolta, quando in città è ormai tornato l'ordine.

Il 21 novembre il Togo ha assistito alla caduta del presidente Grunitzky. A Lomé, capitale del paese, c'erano state. delle manifestazioni organizzate dall'opposizione. Passando da Lomé, l'estate scorsa, avevo trovato la cittadina in preda all'indignazione perché il presidente stava facendo costruire un costoso recinto intorno al suo palazzo e, dietro al palazzo, una fontana con uno zampillo d'acqua. A fare il giro di Lomé basta mezz'ora e sperperi di questo genere saltano subito agli occhi. Il golpe, organizzato dal partito dell'ex presidente Sylvanus Olympio, si configurava come un conflitto familiare visto che il partito era capeggiato dai cugini di Grunitzky.

L'esercito, inizialmente schierato con il presidente, gli si è poi rivoltato contro. L'esercito del Togo, composto di millecinquecento soldati, era guidato dal trentenne tenente colonnello Eyadéma. Il Togo, paese piccolo ed estremamente povero, vive di aiuti esterni. In Togo il valore delle importazioni è di due volte superiore a quello delle esportazioni: come può uno Stato del genere essere indipendente?

Il 28 novembre, una settimana dopo la crisi di Lomé, il ventiseienne capitano Michel Micombero ha compiuto un colpo di Stato assumendo il potere in Burundi. Micombero ha rovesciato la monarchia regnante da vari secoli nel paese e ha istituito la repubblica. Nel suo manifesto ha dichiarato: "La monarchia è stata la causa di tutte le nostre disgrazie".

Anche stavolta il golpe è avvenuto durante un'assenza del capo di Stato: il diciannovenne re del Burundi Ntare v, in visita nel Congo-Kinshasa, è stato informato della detronizzazione da un comunicato stampa. Micombero si è autoproclamato presidente per sette anni, superando Mobutu che si era candidato per cinque.

Nel corso dell'ultimo anno l'Africa ha quindi vissuto complessivamente dieci colpi di Stato. Inoltre in alcuni paesi (tra cui la RAU e la Liberia) sono state scoperte delle congiure destinate a rovesciare il governo. Molti paesi (tra cui la Nigeria, la Mauritania, il Sudan, il Congo-Kinshasa, il Malawi e la Somalia francese) hanno attraversato profonde crisi e lotte intestine con episodi di guerra civile.

Nel continente nero si sta sviluppando anche un nuovo e pericoloso fronte di lotta rappresentato dal crescente conflitto tra gli arabi e i neri o, in senso più lato, tra musulmani e non musulmani. Lo scontro, chiamato anche il conflitto tra Nord e Sud, coinvolge direttamente circa la metà degli Stati indipendenti africani.

In tutta questa confusione si è data scarsa importanza alla conquista dell'indipendenza da parte di due piccoli Stati: il 30 settembre è nato il Botswana (ex Bechuanaland) e il 4 ottobre il Lesotho (ex Basutoland). La si potrebbe anche considerare la nota lieta dell'anno, se non fosse per il carattere puramente formale della loro indipendenza. Entrambi i paesi sono governati da due personaggi-fantoccio: il presidente del Botswana è un certo sir Seretse Khama e nel Lesotho regna Sua Maestà Motlotlehi Moshoeshoe II.