L'Africa intorno alla tavola rotonda
1. Otto anni dopo Bandung, Addis Abeba. Riuscirà l'Africa a dimostrare al mondo che l'unità è possibile? "O si ottiene l'unità, o si muore," ha dichiarato il presidente Nkruma'h qualche giorno prima della conferenza. "Ma quale unità può mai esistere tra un prigioniero della Francia come Ben Bella e un favorito di Parigi come Fulbert Youlou?" chiede nel corso di una conversazione il corrispondente dell'ATP. "Nel 1885 i governi delle potenze coloniali si riunirono a Berlino per spartirsi l'Africa. Oggi i governi dell'Africa liberata si incontrano nella capitale d'Etiopia per unificare il nostro continente," ha dichiarato all'aeroporto di Addis Abeba il ministro degli Esteri del Tanganica, Oscar Kambona.
Il governo ha investito milioni di dollari nel restauro della capitale. Vi ha fatto venire reparti militari e migliaia di prigionieri, ha assoldato folle di disoccupati. I bulldozer hanno marciato verso le zone degli slum i cui abitanti sono stati trasferiti in provincia. Interi quartieri di capanne di argilla che non si è avuto il tempo di abbattere sono stati circondati da mura ornamentali, spesso posate direttamente sui marciapiedi davanti alle miserande casupole. Addis Abeba si è illuminata di lampioni e di luci al neon. Sono state costruite nuove arterie, un nuovo aeroporto, le facciate dei vecchi edifici sono state ridipinte. Il tutto con una rapidità che ha lasciato di stucco gli africani: l'Africa non è abituata a lavorare a spron battuto.
Sono giunte le delegazioni. La più numerosa è quella del Ghana: sessantuno persone. Ed ecco uno stralcio tratto dall'elenco della delegazione della Costa d'Avorio: S.E. Houphouét-Boigny presidente della Repubblica Madame Houphouét-Boigny moglie del presidente della Repubblica Madame Dervain dama di compagnia della moglie del presidente (francese)
Mademoiselle Rose cameriera della moglie del presidente della Repubblica (francese)
Capitaine Baroan capo della sicurezza personale del presidente (francese)
Docteur Salmon medico personale del presidente (francese)
Madame Plazanet segretaria personale del presidente (francese)
M. Florent fotografo personale del presidente (francese)
N. Joilly cineoperatore personale del presidente (francese)
...e via elencando in un'elegante sfilza di ben ventisette nomi.
La delegazione meno numerosa viene dal Ruanda: due persone in tutto. Ministri e delegazioni alloggiano all'Hotel Ethiopia appositamente costruito per l'occasione.
Siamo nel maggio 1963: il mese di Addis Abeba. Sei anni fa otteneva l'indipendenza il primo Stato africano a sud del Sahara: il Ghana. Sono trascorsi tre anni dal 1960, l'Anno dell'Africa, che ha portato alla liberazione di metà del continente.
Un anno che purtroppo si chiude con il dramma congolese e con la spaccatura dell'Africa tra il gruppo di Casablanca e quello di Monrovia. Da quel momento gli elementi favorevoli all'unificazione intraprendono una serie di tentativi per eliminare la frattura. Tra i favorevoli c'è innanzitutto il gruppo di Casablanca, ma i suoi sforzi si scontrano con l'opposizione del gruppo avverso per il quale l'unificazione sotto la guida di Nkruma'h o di Nasser è inaccettabile. Con il tempo tuttavia Casablanca perde vitalità e comincia a estinguersi come gruppo, mentre il fronte di Monrovia continua a mantenere dei contatti, elastici ma sostanzialmente effettivi.
Stando così le cose, non ha più motivo di evitare un incontro diretto. Si fa avanti, nella persona di Sékou Touré, un leader interessato all'unificazione dei due gruppi. E si trova un capo di Stato desideroso che l'unificazione dell'Africa si compia sotto il suo scettro: Hailè Selassiè.
Il 22 maggio 1963 - data storica per l'Africa si aprono i dibattiti della prima conferenza al vertice del continente africano.
Intorno al tavolo della sala delle conferenze dell'Africa Hall erano seduti ventotto dei trentadue leader degli Stati indipendenti africani (mancavano il re del Marocco Hassan, il presidente del Togo Grunitzky, il presidente del Ruanda Kayibanda e il re della Libia Idris). Kayibanda e Idris, il quale non lascia mai la Libia, erano sostituiti dai loro rappresentanti personali.
Il summit africano è iniziato con il grande discorso di apertura di Sua Altezza Imperiale Hailè Selassiè I. L'Etiopia ha un presente modesto, ma vanta un illustre passato nonché un imperatore, il che permette all'etiope analfabeta di guardare dall'alto in basso i popoli della terra che non possono vantare un imperatore in carne e ossa. Ci troviamo in un'Africa che ignora i complessi di inferiorità e i problemi relativi alla razza.
Per quanto di costituzione smilza e minuta, Hailè Selassiè ha un'energia di ferro, è uno di quei grandi vecchi che stupiscono per la loro vitalità e chiarezza di idee. Come persona è straordinariamente simpatico: è sereno, accattivante e nel suo modo di fare c'è quel momento di timidezza e imbarazzo con cui i grandi della terra si conquistano la simpatia dei piccoli.
Il potere di Hailè Selassiè è assoluto: in Etiopia non esistono né partiti politici né sindacati e il parlamento ha un ruolo puramente simbolico e nominale in quanto non esistono neanche le elezioni. I due massimi poteri organizzati di questo regime tipicamente feudale sono un potente esercito e una potentissima Chiesa. L'imperatore, che è senza dubbio la suprema mente politica del paese, esercita quindi il potere non solo in virtù del suo titolo ma anche grazie ai suoi alti valori personali.
Hailè Selassiè nutre ambizioni panafricane e ambisce a venire considerato il numero uno di tutta l'Africa.
Il suo discorso è consistito in un riassunto delle vicende dell'Africa nel corso della storia, per cui non stiamo a riportarlo.
Nella sua allocuzione l'imperatore ha invitato alla pace, all'unità e all'edificazione di un felice futuro dei popoli dell'Africa e del mondo. Ma ha anche detto una cosa di fondamentale importanza, e cioè che nel corso della conferenza deve essere approvata e firmata una Carta dell'Africa. Per Hailè Selassiè, in quanto leader del paese ospitante l'incontro, l'approvazione della Carta è un punto d'onore. Probabilmente l'imperatore conta anche sul fatto che, in seguito alla firma della Carta e alla nascita dell'Organizzazione dell'unità africana, venga creata una Segreteria permanente dell'organizzazione, con sede ad Addis Abeba. La capitale dell'Etiopia diventerebbe quindi la capitale dell'Africa.
Dopo il suo discorso si è proceduto alla lettura dei saluti alla conferenza da parte prima di Kennedy, poi di Chrugèèv, di Radhakrishnan e di Lúbke. Come si sa, sono arrivati anche quelli di Zhou Enlai, ma sono stati letti soltanto il giorno dopo. É stata anche data lettura dei saluti di Tito, dopo di che gli jugoslavi, presenti alla conferenza con la rappresentanza stampa più numerosa di tutti i paesi socialisti (undici persone), hanno distribuito un opuscolo intitolato "Dichiarazioni del presidente Tito sul tema dell'Africa".
L'incontro al vertice si è svolto nella sala dei dibattiti dell'Africa Hall, di gran lunga troppo piccola per un evento del genere. La galleria riservata alla stampa dispone di centocinquanta posti e i giornalisti erano quattrocento, con conseguenti disdicevoli scene di porte sfondate e vetri rotti per riuscire a entrare nella sala. I capi di Stato sedevano a un tavolo, a forma di ferro di cavallo, di fronte a quello dell'imperatore e del presidente di turno del dibattito, ruolo svolto ogni giorno da una diversa personalità politica. Dietro di loro, sulle poltrone rosse di una galleria separata, sedeva la famiglia imperiale, composta di donne e bambini. I capi di Stato sedevano su semplici sedie, il mezzanino era occupato dai vertici militari e dal corpo diplomatico e i capi dei paesi africani coloniali erano stati fatti accomodare nel passaggio che conduce alla sala.
Al discorso dell'imperatore è seguito quello del presidente della Liberia Tubman, giunto ad Addis Abeba dieci giorni prima della conferenza per una visita di Stato ad Hailè Selassiè.
Tubman, che è ormai un anziano signore dai capelli bianchi, ha maniere gioviali e ama le barzellette. Sempre vestito in frac e bombetta e con un eterno sigaro tra le labbra, ha una voce profonda, rauca e dal forte accento americano. Politicamente è filoamericano, ma senza fanatismi anticomunisti. Nel suo peraltro breve discorso Tubman ha raccontato una barzelletta, una fiaba africana su un serpente, e ha affermato di essere personalmente favorevole al principio del do ut des. Si è anche detto contrario al fatto che, in caso di insoddisfazione, le delegazioni abbandonino ostentatamente la sala. "È sufficiente," ha detto, "che la delegazione presenti una protesta da mettere agli atti a uso e consumo delle future generazioni." Tubman ha concluso augurandosi che "in questo cruciale momento storico del nostro continente ci mostriamo capaci di pensare come uomini di fatto e di comportarci come uomini d'azione".
L'indomani è iniziata la prima giornata di dibattiti del vertice africano. Presiedeva Nasser. Per primo ha parlato Sékou Touré. Il suo discorso è stato un vibrato appello alla creazione di un'organizzazione degli Stati africani e alla firma, nel corso di questa stessa conferenza, di una Carta dell'Africa.
"Dobbiamo unificare la Carta di Casablanca e di Monrovia nell'unica Carta dell'Africa unita," ha detto Sékou Touré. Argomentando ampiamente l'oratore ha dimostrato che l'unità africana è un dato di fatto obiettivo, lasciando intendere che quanti vogliono rimandarne l'effettiva organizzazione sono dei cripto-nemici dei paesi africani. A suo avviso l'unità aiuterà a combattere l'imperialismo, il colonialismo e il vergognoso sfruttamento di alcune nazioni da parte di altre. Sékou Touré ha lasciato comunque intendere di non approvare il progetto di Nkruma'h ("L'unità africana non deve significare l'unificazione delle istituzioni dei nostri Stati", "L'unità dell'Africa deve crescere gradualmente, giorno per giorno, in un continuo processo creativo"), "Appare quanto mai urgente," ha detto l'oratore, "una revisione dell'ormai obsoleta Carta dell'ONU, non più rispondente all'attuale situazione del mondo." Sékou Touré ha poi presentato il suo piano di lotta (il più rivoluzionario e avanzato di tutta la conferenza) contro il colonialismo. Ha proposto di stabilire un termine definitivo alla dominazione straniera sull'Africa, trascorso il quale si potrà procedere a un intervento armato contro i colonizzatori africani. Tale iniziativa dovrà essere accompagnata dall'istituzione di un fondo per la liberazione nazionale al quale tutti gli Stati indipendenti dell'Africa verseranno annualmente una percentuale del loro bilancio.
È stato uno dei migliori discorsi. Per Sékou Touré questa conferenza ha un'importanza fondamentale in quanto gli fornisce l'unica possibilità di tirarsi indietro dal gruppo Casablanca senza perdere la faccia. Adesso Touré cerca di avvicinarsi all'uAM, ma per i "francesi" africani Touré è troppo rivoluzio nario, troppo "comunistizzato" e troppo rigidamente anticolonialista.
Politicamente in quest'ultimo periodo è rimasto come sospeso nel vuoto e la Guinea è un paese troppo piccolo per poter rimanere lungamente isolato, senza qualcuno cui appoggiarsi. Sékou Touré, che ha fatto carriera con un'ostentata politica indipendentista, adesso teme di essere assorbito, dominato e livellato dall'uAM e di diventare uno dei dodici presidenti dai nomi talmente sconosciuti che la stampa li confonde l'uno con l'altro. Si tratta senza dubbio di un politico di talento, che nell'assetto africano si colloca nell'ala rivoluzionaria, ruolo che ha assunto infatti anche oggi ad Addis Abeba.
Con un lieve sorriso Nasser ha poi dato la parola a Burghiba.
L'intero discorso di Burghiba potrebbe riassumersi in questa frase: "Cari colleghi, se volete fare i rivoluzionari accomodatevi pure, ma vi avverto che è un gioco che finisce male". Burghiba ha detto che l'Africa va liberata dal colonialismo, ma solo "sotto le ali e gli auspici dell'ONU". Ha quindi affermato che in Africa "si ha l'impressione che, anche dopo la conquista dell'emancipazione politica, sia difficile tracciare una netta divisione tra libertà e dipendenza", aggiungendo che la collaborazione e gli aiuti delle ex potenze coloniali "ci sono non solo utili, ma assolutamente indispensabili". Rifiutare tale collaborazione "per timore di una rinascita del colonialismo" è un atteggiamento sentimentale e poco realistico.
"Dobbiamo liberarci da questa paura del neocolonialismo che ci paralizza e ci mantiene in uno stato di cronica debolezza." Polemizzando indirettamente con il discorso di Touré, il presidente della Tunisia ha affermato che l'unità dell'Africa non è un fatto, ma un ideale ("Continua a essere un ideale").
"Guardiamo in faccia la verità," ha detto Burghiba. "In realtà non ci conosciamo gli uni con gli altri. Per lungo tempo l'Africa è stata aperta al mondo, ma chiusa a se stessa. Il voler imporre di colpo l'unità per effetto di una legge non può portare che a delusioni." Occorre ricordare che "bisogna innanzitutto preparare la mentalità della gente all'idea dell'unità e delle sue conseguenze pratiche e morali. Senza una calma e ragionata preparazione di tipo psicologico non si possono ottenere risultati validi. L'unità è un compito che richiede tempo". Secondo Burghiba bisogna iniziare dallo sviluppo dei legami regionali. "In questo senso abbiamo progettato da tempo la creazione di un grande Maghreb arabo e confidiamo che un giorno esso possa realizzarsi." Il suo discorso è stato in linea con la tattica scelta dalla Tunisia per la conferenza di Addis Abeba. La Tunisia ha posto il veto a tutte le proposte più audaci e nelle votazioni è stata concorde con l'uAM. Nel corso di sedute segrete Burghiba ha fatto pressione affinché ogni azione risultata dalla conferenza recasse "il suggello di approvazione dell'ONU". Si è opposto fino all'ultimo alla firma della Carta, distinguendosi inoltre per il fatto di abbandonare regolarmente la sala appena si avvicinava l'ora di chiusura ufficialmente stabilita, benché i dibattiti si protraessero ancora per ore. Una folla di giornalisti gli si precipitava addosso chiedendogli se stesse lasciandola conferenza in segno di protesta. "Ma no, mano! " rispondeva cortesemente l'elegante, distinto e tarchiato presidente della Tunisia, mostrandosi ovunque in compagnia del suo inseparabile ministro degli Esteri, il piccolo e riservato Mangi Slim.
È stata quindi la volta del presidente del Camerun, Ahmadu Ahidjo, vestito di una sontuosa galabia bianca, simbolo della sua appartenenza alla pittoresca comunità africana dei musulmani subsahariani. Essendo figlio di un capo della grande tribù nigeriana dei pastori fulani, Ahidjo è un estraneo nel Camerun, dominato dal gruppo etnico dei bantu meridionali.
Ma dietro Ahidjo c'è Parigi e questo ha il suo peso. In passato il Camerun ha avuto i suoi eroici mau mau guidati dall'Union des populations du Cameroun. Negli anni 19551960 il paese è stato una "piccola Algeria": piccola per quanto riguarda le dimensioni del movimento partigiano, ma grande per quanto riguarda le spaventose atrocità commesse dai francesi contro la popolazione in lotta. Il movimento mau mau fu soffocato dai francesi in gran parte grazie alla lealtà delle tribù pastorizie e dei loro capi, e da qui deriva anche l'ascesa di Ahidjo al potere: fu tra coloro che sostennero la permanenza degli eserciti francesi nel Camerun. D'altra parte Ahidjo, che nel paese è contestato da una forte opposizione di sinistra, cerca di migliorare la propria situazione con iniziative sinistrorse e di tanto in tanto assume posizioni vicine a quelle di Casablanca. Il che non toglie che venga considerato un "petit Charles" (i ghanesi affibbiano malignamente ai presidenti del gruppo francese il soprannome di "petits Charles" al di sopra dei quali sta il "grand Charles", ossia de Gaulle). Salta subito agli occhi l'enorme differenza di livello tra i "petits Charles" e gli altri leader dell'Africa. La Francia ha scelto come capi delle sue client-countries africane dei politici non solo leali nei confronti di Parigi, ma anche umanamente insignificanti e incapaci di un'opinione personale.
Quelli dell'uAM si spostano sempre in gruppo: arrivano tutti insieme e ripartono insieme.
Ahidjo ha affermato che "i nostri fratelli africani del Sud stanno ancora gemendo sotto il giogo della più arretrata versione del colonialismo". Ha detto anche che "il nostro principale traguardo è l'unità, ma nel costruirla dobbiamo ricordare quanto siamo diversi. Ognuno di noi ha un diverso rapporto nei confronti dei fondamentali problemi del nostro tempo". Per questo "l'Organizzazione dell'unità africana deve mantenere un carattere estremamente elastico. Nella fase attuale, un'istituzione dalle forme troppo rigide sarebbe prematura.
Il fatto è," ha detto l'oratore, "che una serie di nostri paesi, legati a organizzazioni economiche extra-africane, manterrà questi suoi legami," dopo di che, per prevenire eventuali obiezioni, ha aggiunto: "Ma non è questa la sede per criticare la politica di chicchessia".
Dopo di lui ha preso la parola il presidente del Congo-Brazzaville, Fulbert Youlou, forse il personaggio più divertente di tutta la conferenza. Youlou, piccolo di statura, indossa sempre una sottana da gesuita sebbene non sia mai appartenuto a quest'ordine ma sia stato un semplice prete, peraltro ormai espulso dalla Chiesa per via delle sue propensioni galanti.
Sull'indice della mano destra Youlou porta un mostruoso anello, copia ingrandita dell'anello pontificale. Nel gennaio 1960, alcuni giorni dopo l'assassinio di Lumumba da parte di Ciombe, Youlou si recò a Elisabethville in visita di Stato ufficiale e fu il primo e unico leader africano a riconoscere lo Stato del Katanga e a stringere con Ciombe un patto di amicizia.
Youlou del resto aveva direttamente contribuito a liquidare il governo di Lumumba permettendo a Kasavubu di servirsi della sua stazione radio nel periodo in cui quella di Leopoldville era occupata dall'ONU. Youlou, che ha un temperamento burlone, si comporta come un ragazzino: si diverte ad appostarsi nei corridoi e all'arrivo del presidente del Gabon, M'ba, gli schiocca a tradimento le dita all'orecchio. M'ba si arrabbia e lo rimbrotta.
Youlou ha pronunciato un discorso concreto, contenente qualche interessante proposta pratica. Ha auspicato l'applicazione all'Africa della dottrina di Monroe "per proteggerla da eventuali pericolosi interventi da parte di Stati extra-africani" e ha lanciato un appello affinché "gli Stati indipendenti africani rinuncino a una parte della sovranità nazionale a favore di un'istituzione pancontinentale, il parlamento consultivo africano".
E stata poi la volta del presidente del Senegal, Léopold Senghor. Nel corso della conferenza è apparso evidente come all'interno del gruppo francese il Senegal goda di una posizione particolare, più indipendente e molto al di sopra di quella degli altri. Nei dibattiti ha sempre occupato un posto di rilievo, cercando di seguire una propria via personale. Senghor, uno dei massimi intellettuali africani, ha fatto un bellissimo discorso, più filosofico che politico, in cui ha posto l'accento sugli aspetti culturali dell'unità africana. A suo avviso l'Africa rappresenta innanzitutto una comunità culturale, da lui definita con il termine di africanité, la cui principale caratteristica è la passion dans les sentiments. Oltre a questa comunanza culturale, la base dell'unità africana è notre situation commune de pays sous-développés. L'unità appare indispensabile alla realizzazione di uno sviluppo economico che restituisca all'Africa quella piena dignità umana negata e mutilata dal colonialismo. "Le principali minacce contro l'unità africana," ha affermato l'oratore, "sono rappresentate dai fanatismi razziali, linguistici e religiosi, nonché dai micronazionalismi...
L'Africa," ha giustamente osservato Senghor, "si divide in quattro distinte unità regionali: l'Africa settentrionale, l'Africa occidentale, l'Africa orientale e l'Africa meridionale.
In questa conferenza dobbiamo creare un'Organizzazione degli Stati indipendenti africani che in nome dell'unità coordini la convivenza di tali regioni." L'ultimo oratore di questo round è stato Oginga Odinga, che ha dato lettura del memorandum dei partiti di liberazione scritto per la conferenza dei capi di Stato. La lettura del memorandum, approvato alcuni giorni prima, in realtà non era affatto prevista, ma Odinga si è intestardito nel volerlo presentare nella convinzione che conferisse maggior lustro alla causa. Dopo un inutile tentativo di salire sul podio durante la presidenza di Tubman, Odinga ha aspettato che a presiedere la seduta fosse Nasser, il quale gli ha concesso la parola. Soddisfatto ed emozionato, Odinga ha letto il bellicoso memorandum, dopo di che, secondo il suo solito, ha lanciato alcune grida stentoree che hanno notevolmente riscaldato l'ambiente.
Alla presidenza di Nasser è seguita quella di Nkruma'h che ha dato la parola al presidente del Congo, Kasavubu.
Questi è arrivato alla conferenza con il premier Adoula e da quel momento i due sono sempre andati in giro insieme.
Adoula è un tipo strano: non guarda in faccia nessuno, tiene sempre gli occhi fissi sul piano del tavolo o sul pavimento e non sorride mai. Kasavubu è l'esatto contrario: un grassone gioviale e soddisfatto, con stampato in faccia un enigmatico sorrisetto. Il Ghana voleva aprire un proprio stand propagandistico all'interno della conferenza, ma l'Etiopia gli ha negato il permesso di farlo; permesso che ha invece concesso ai congolesi, i quali hanno aperto uno stand americano nel quale gli americani distribuiscono i propri opuscoli sul Congo unitamente a una selezione di articoli tratti dai quotidiani americani e inneggianti ad Adoula e Kasavubu. Ad Addis Abeba il Congo faceva parte del gruppo più conservatore.
Kasavubu si è detto favorevole a un'organizzazione elastica, "adeguata a tutti gli Stati", e ha affermato che la condizione dei successi africani è racchiusa nello slogan "ponderatezza, misura e realismo". L'oratore ha sottolineato che il Congo è contrario al colonialismo e ai patti militari, prova ne sia che "è stato proprio il suo governo a espellere le basi straniere dal territorio congolese". Kasavubu ha chiesto un minuto di silenzio per onorare la memoria degli eroi e di tutti coloro che hanno dato la vita per difendere o rafforzare la sovranità e l'integrità territoriale del Congo.
E salito quindi sul podio il presidente del Madagascar, Philibert Tsiranana. La politica di Tsiranana è estremamente reazionaria e il presidente non ne fa certo mistero. Nella questione algerina del 1960 si schierò dalla parte dell'oAS, dichiarando pubblicamente che l'Algeria era "parte integrante della Francia" e che gli Stati africani non avevano diritto di immischiarsi nella politica francese. Tsiranana è fortemente contestato nella sua isola dove quindici anni fa i francesi soffocarono nel sangue una delle più grandi insurrezioni anticolonialiste di tutta l'Africa. Il Madagascar aveva un forte Partito comunista e le prigioni del paese sono tuttora piene di comunisti.
Tsiranana si è dilungato molto ma, visto che è un bravo oratore, è stato ascoltato con interesse. Tsiranana ha innanzitutto sottolineato che l'Africa e il Madagascar non sono la stessa cosa. "Il Madagascar è separato dall'Africa non solo da duecentocinquanta miglia di mare, ma da molti altri elementi.
Il Madagascar osserva quanto accade in Africa ecc." Ha quindi continuato dicendo che l'unità africana può essere raggiunta solo attraverso lo sviluppo e il rafforzamento dei già esistenti gruppi Casablanca, Monrovia e Brazzaville. "I gruppi sono le pareti della casa, l'unità ne è il tetto. Prima di posare il tetto, bisogna rafforzare le pareti." L'ultimo giorno della conferenza Tsiranana, offeso, si è rifiutato di firmare la Carta (poi firmata a nome del Madagascar dal ministro degli Esteri).
L'incidente è nato dal fatto che i paesi fuori dall'Unione africano-malgascia non hanno voluto accettare che la Carta recasse la dicitura: "Gli Stati dell'Africa e del Madagascar", chiedendo di sostituirla con la formula "Gli Stati dell'Africa", in quanto la Carta dovrebbe evidenziare ciò che unisce e non ciò che divide.
Il discorso più breve è stato quello del premier della Sierra Leone, Milton Augustus Margai. La vita politica del piccolo paese (stretto tra la Guinea e la Liberia) si riduce da molti anni alla lotta per il potere tra due fratelli: il suddetto Milton Augustus e il fratello Albert Michael, di quindici anni più giovane, entrambi di professione infermieri. Il più anziano e conservatore Milton Augustus è sempre stato al potere, mentre il più giovane e rivoluzionario Albert Michael era a capo dell'opposizione. Una sola volta, nel 1957, Albert Michael, uscito vittorioso dalle elezioni, avrebbe teoricamente potuto prendere il potere; ma, fedele all'ormai stabilizzato assetto di forze tra sé e Milton Augustus, vi ha rinunciato a Favore di quest'ultimo. Il premier della Sierra Leone dimostra molto più dei suoi, sessantotto anni e appare decisamente vecchio.
La Sierra Leone ha svolto alla conferenza un ruolo moderato, senza mai farsi avanti e cercando una funzione moderatrice nelle situazioni più drastiche. Durante l'ultima sessione, il vecchio Margai (Milton Augustus) ha fatto ridere la sala recandosi a firmare la Carta in stato di completa ubriachezza.
Barcollava sulle gambe e chiedeva continuamente: "Dov'è che si firma?" al fratello (Albert Michael), che lo guidava verso il tavolo.
Ammesso che si possa parlare di carriere conferenziali, e ammesso che ad Addis Abeba un uomo politico possa fare ma carriera panafricana, questi è senz'altro il premier dell'Uganda Milton Obote. L'Africa orientale settore alquanto provinciale del continente è poco conosciuta nell'Africa occidentale e settentrionale, per cui agli occhi del summit africano Obote ha rappresentato una sorta di rivelazione. Ad Addis Abeba il premier dell'Uganda è stato l'unico capo di Stato ad appoggiare apertamente il progetto di unificazione africana proposto da Nkruma'h. Se Obote governasse un paese normale, l'Africa si arricchirebbe di un leader audace e di grande rilievo. Purtroppo l'Uganda è un paese assurdo, in cui il settore che conta politicamente è formato da quattro regni feudali, mantenuti in vita grazie all'appoggio inglese e all'oscurantismo delle masse, che conducono una politica di sabotaggio contro il governo di Obote. Il premier ugandese, che ha le mani legate, deve quindi stare attento a muoversi con cautela, mostrandosi estremamente duttile e scegliendo con cura le parole.
I rapporti tra Obote e Londra sono sempre tesi e freddi, al che si aggiunge il fatto che dal punto di vista politico Obote è violentemente antiamericano. Ne ha dato un'ulteriore prova scrivendo a Kennedy una lettera aperta in risposta ai suoi saluti alla conferenza, rimproverando al presidente degli USA il suo atteggiamento ipocrita e ambiguo verso i disordini razziali degli Stati Uniti.
"L'Africa sta attualmente attraversando due rivoluzioni," ha detto Obote. "La prima è la rivoluzione anticolonialista, la seconda è la rivoluzione mirante a creare una nuova Africa." ("Il continente africano e le sue nazioni stanno cercando un nuovo orientamento.") In che cosa consiste la principale difficoltà dell'Africa? Qualcuno la vede nella mancanza di quadri, qualcuno nella mancanza di capitale, qualcuno nella sua arretratezza e qualcuno nell'analfabetismo. "La principale difficoltà dell'Africa," dice Obote, "sono i vincoli che continuano a legarla alle potenze coloniali, quelle stesse potenze che hanno distrutto la nostra cultura e sfruttato le nostre ricchezze umane e materiali. Qual è la cosa più urgente? Creare un forte e centralizzato potere panafricano. Gli Stati indipendenti dell'Africa devono rinunciare a una parte della loro sovranità a favore della creazione di un organo centrale legislativo e di un organo esecutivo dotato di speciali poteri. Se vogliamo abbattere il colonialismo dobbiamo passare all'azione...
Sono qui per mettere a disposizione il territorio dell'Uganda come campo di addestramento per gli eserciti di terra necessari alle forze di liberazione nella lotta contro il colonialismo." A Obote ha fatto seguito il presidente del Niger, Hamani Diori: un uomo alto, con occhiali scuri e un'ampia galabija bianca lunga fino a terra. Subito dopo la guerra Diori ha nutrito qualche simpatia comunista (il Niger era uno dei più importanti centri filocomunisti di tutta l'Africa), ma se ne è prontamente liberato imitando il presidente della Costa d'Avorio Houphouét-Boigny, del quale Diori era, e continua a essere, completamente succube. In seguito a un'evoluzione abbastanza classica in questi casi, Diori ha iniziato a combattere accanitamente i rappresentanti della sinistra, tanto più che il suo principale concorrente al potere il dinamico e combattivo Djibo Bakary era filocomunista. Diori ha schiacciato il forte movimento filocomunista del Niger con l'aiuto della Francia e dell'autorità feudale dei leader che lo sostengono.
Il partito filocomunista Sawaba è stato sciolto e i suoi capi incarcerati. Diori ha affermato che in questa conferenza si scontrano due forze: la forza della realtà e la forza della speranza. La realtà è la differenza di lingue, di razze e di culture; la speranza è l'unificazione africana. Diori propone un felice compromesso: avvicinare gli Stati africani tramite lo sviluppo dello scambio commerciale, della comunicazione, dei comuni sforzi economici, e via discorrendo.
Altrettanto incolore è apparso il discorso del presidente del Dahomey, Hubert Maga. Maga si è dichiarato favorevole all'unificazione graduale", sottolineando la necessità di giungere alla decolonizzazione e di approvare una formula sul genere di una Carta dell'Africa. Maga è un uomo di mezz'età, elegantemente vestito alla moda, con una bellissima figlia.
Léon M'ba, presidente del Gabon, sessantun anni, appartiene alla vecchia generazione dei politici africani. Una figura scialba, un funzionario che si limita a eseguire le direttive di Parigi. Sottolineiamo ancora una volta che ad Addis Abeba i presidenti "francesi" del gruppo UAM non sono stati capaci di dire niente di significativo. La maggior parte di loro si è I imitata a discorsi di maniera che ribadivano sempre la stessa tesi: siamo favorevoli alla nascita di un'elastica organizzazione-club panafricana, purché non venga violata l'Unione africano-malgascia. M'ba non ha fatto che confermare questa tesi, né d'altronde può dire niente di diverso: la sua unica possibilità di restare al potere è di mantenere il blocco dell'uAM guidato dalla Francia. Se il blocco si sciogliesse e i suoi presidenti dovessero contare soltanto sulle proprie forze, nel giro di ventiquattr'ore almeno otto dei tredici oggi esistenti verrebbero spazzati via dalle rispettive forze di opposizione.
"Ci sentiamo perfettamente tranquilli sul loro conto," mi ha detto scherzosamente un giornalista francese. "Hanno più paura della loro nazione che di Parigi." Al pari dell'Uganda, anche il Sudan si è dichiarato favorevole alla liquidazione armata del colonialismo in Africa. Nel suo discorso il presidente del Sudan Farik Abboud ha detto: "Vogliamo offrire ai combattenti africani per la libertà la possibilità di addestrarsi militarmente".
A nome del minuscolo Ruanda il classico pocket-country che può esistere solo se finanziato da una capitale europea ha parlato il ministro degli Esteri Habamenshi. Non ha espresso alcuna idea personale, limitandosi a riassumere il progetto etiopico della Carta e a dire che andrebbe accettato. Il Ruanda è uno dei paesi africani più reazionari, il cui Stato rappresenta il bastione e il sostegno del cattolicesimo nella parte francofona del continente. In pratica si tratta di un piccolo paese teocratico, governato da un arcivescovo. Uno degli articoli della Costituzione ruandese definisce la lotta contro il comunismo il dovere costituzionale di ogni cittadino. In Ruanda vive un monaco che è stato l'insegnante dell'intero attuale corpo governativo.
Il primo a prendere la parola nel penultimo giorno della conferenza è il presidente della Nigeria Tafawa Balewa. Balewa è un uomo alto, grosso, dal modo di fare lento e solenne caratteristico di tutti i musulmani subsahariani, dai quali infatti proviene (è originario del Nord musulmano della Nigeria).
Ha una faccia da contadino tagliata con l'accetta, e di stampo contadino è anche il suo conservatorismo, più pratico che intellettuale. Parla brevemente, senza addentrarsi in concetti filosofici, ma quello che dice è espresso in un modo estremamente determinato e che suscita rispetto. Nel suo discorso ripete in continuazione la frase: "Noi in Nigeria riteniamo che", "Noi in Nigeria propendiamo per un approccio pratico alla questione dell'unità africana". Bisogna "cominciare dal principio", vale a dire da uno sviluppo delle comunicazioni e dei collegamenti che permetta agli abitanti dell'Africa di spostarsi in tutti i paesi del continente. "I paesi africani," ha poi affermato, "devono smetterla di condurre attività sovversive contro gli altri paesi africani." Balewa è quindi passato alla questione del neocolonialismo, senza peraltro usare questo termine. Quanto agli aiuti esteri "li consideriamo assolutamente necessari" allo sviluppo dell'Africa.
Ma "dobbiamo dimostrare la massima cautela nello scegliere coloro a cui chiedere aiuto: se non stiamo attenti, i nostri paesi potrebbero subire una colonizzazione economica".
Il presidente di turno della seduta, Houphouét-Boigny, ha quindi dato la parola al presidente della RAU, Gamal Nasser.
In questa conferenza l'Egitto si è trovato in una posizione difficile. I rapporti con i paesi dell'Africa del Nord, soprattutto con l'Egitto e l'Algeria, sono uno dei massimi problemi politici africani.
Nel definire l'Africa ci si è sempre trovati di fronte all'insormontabile difficoltà di stabilire se essa costituisca un'unità oppure una molteplicità etnico-culturale. Secondo la versione più corrente e semplicistica l'Africa è un "continente negro". Ma anche a voler considerare i "negri" come un ceppo etnico unitario (cosa, ovviamente sbagliata), resta il fatto <.che essi non rappresentano più del 60% degli abitanti del continente, L'Africa va quindi considerata un continente caratterizzato da una molteplicità etnica, religiosa, culturale ed economica; un continente differenziato e pieno di contrasti; non un monolito, ma un insieme composito e, soprattutto, composto di neri e di arabi. Ma, come sostengono i teorici del razzismo, il fatto è che i punti di contatto tra le due "razze" sono inevitabilmente anche dei punti di attrito. E qui sta l'elemento che in Africa si cerca di sfruttare a fini politici.. Il problema potrebbe essere formulato come segue: l'Africa settentrionale (araba) è Africa o non è Africa? L'insegnamento e la propaganda borghesi e filocoloniali continuano ostinatamente a sostenere la tesi secondo la quale l'Africa settentrionale non è Africa. Dall'altro lato si tende a semplificare eccessivamente la questione affermando che tra l'Africa settentrionale e l'Africa a sud del Sahara non esiste nessuna differenza.
Si tratta in entrambi i casi di posizioni statiche mentre il problema richiederebbe un approccio dinamico, trattandosi in sostanza della direzione che prenderà il processo della futura evoluzione etnico-politica del continente. Quale delle due vie imboccherà? Quella di un avvicinamento tra questi due gruppi della popolazione africana, etnicamente dominanti, residenti nel medesimo continente, uniti da un passato prevalentemente comune e da secolari legami economici, o quella del distanziamento? Sulla direzione in cui si avvierà il futuro processo evolutivo si incentra appunto la lotta politica. Il neocolonialismo spinge l'evoluzione verso il distacco tra le "due" Afriche, mentre la sinistra africana lavora a rafforzarne l'unificazione e l'avvicinamento.
I motivi di questo stato di cose sono noti: l'Africa settentrionale (in particolare l'Egitto, l'Algeria e il Marocco), più sviluppata, politicamente più dinamica, con al suo attivo una tradizione di lotta armata contro il colonialismo e che di per sé rappresenta un'importante forza economico-statale, esercita un influsso rivoluzionario sul resto del continente. Dei quattro principali paesi componenti il gruppo Casablanca ben tre si trovano nell'Africa settentrionale. Trasferito sul piano della lotta politica, il problema se l'Egitto sia o non sia Africa si complica di un'ulteriore alternativa: l'intransigente orientamento anticolonialista di Casablanca (di cui l'Egitto è uno degli esponenti) è un'ideologia emersa in seno alla rivoluzione africana di cui rappresenta l'espressione più matura, oppure è il sintomo di un'infiltrazione ideologica estranea, dell'attività sovversiva di una qualche terza forza che tenta di affondare un cuneo tra la madrepatria e le masse "negre", definite "pacifiche" e "prive di bisogni"?
Occorre anche ricordare un altro fatto, di cui si comincia a valutare il significato solo dopo un prolungato contatto con l'Africa, e che aiuta a capire molte cose sulla sua attuale situazione politica. Per decenni l'Africa è stata e spesso lo è ancora il terreno d'azione del settore più reazionario e più oscurantista della macchina propagandistica occidentale. L'educazione ideologica dell'Africa è avvenuta per opera di missionari, di coloni di mente ristretta e di tirocinanti del "Daily Express" che, espulsi per la loro ottusità e non riuscendo a trovare lavoro in Inghilterra, si sono trasferiti nelle colonie.
In confronto alle opinioni politiche espresse dalla stampa colonialista redatta e stampata in Africa (e sulla quale gli strati colti africani formano la propria visione del mondo), un quotidiano come "The Times" o "Le Monde" sembra finanziato da Mosca per quanto è "comunista". Ed è appunto questa macchina propagandistica colonialista a divulgare in Africa l'opinione, abbastanza diffusa tra gli intellettuali africani, che l'Egitto sia un paese comunista, un pericolo rosso destinato a dilagare sul continente. I britannici l'hanno addirittura sanzionato formalmente: come già per i reporter socialisti, ai giornalisti egiziani viene negato il visto d'accesso alle colonie e ai protettorati britannici.
Il colonialismo ha inoculato nell'Africa la propria visione del mondo ed esso vi si riflette come in uno specchio deformante; è uno stato di cose che bisogna capire, così come, all'occasione, bisogna cercare di mostrarsi indulgenti verso il funzionario della capitale del Tanganica che ti chiede se sia vero che nella Polonia comunista le donne vengono distribuite con la tessera.
Nella questione dell'Africa settentrionale il neocolonialismo, oltre all'argomento per cui gli arabi non sarebbero africani, impiega anche la tesi secondo la quale gli Stati forti dell'Africa settentrionale vorrebbero dominare e conquistare i paesi più deboli e meno autonomi dell'Africa tropicale. Tale concetto è stato ribadito anche nel discorso di Balewa, secondo il quale gli Stati africani che prestano il loro aiuto ai movimenti di liberazione "non dovrebbero servirsi di questo mezzo per ottenere un'influenza su quei paesi". Va da sé che l'osservazione non era diretta al Gabon o alla Costa d'Avorio, che non prestano aiuti di sorta ai partiti di liberazione, ma soprattutto all'Egitto e all'Algeria. Il primo gesto di ostilità nei confronti dell'Egitto è stato comunque il veto posto da Monrovia alla mozione egiziana per il riconoscimento dell'arabo come una delle lingue ufficiali della conferenza. L'Egitto aveva giustificato la sua richiesta spiegando che si trattava di una lingua africana nativa, parlata da un terzo degli abitanti del continente (circa settanta milioni di africani) e, per prevenire eventuali obiezioni, si era anche offerto di farsi carico di tutti gli aspetti tecnici necessari a introdurla tra le lingue ufficiali della conferenza. La mozione è stata respinta ad assoluta maggioranza dei voti di Monrovia, con l'assurda argomentazione che in Africa esistono migliaia di lingue e che quindi bisognerebbe riconoscerle tutte come lingue ufficiali della conferenza, cosa tecnicamente impossibile ecc.
Il discorso di Nasser, vicino allo spirito degli interventi di Sékou Touré e all'intransigente tenore della dichiarazione di Casablanca, ha segnato un momento cruciale dei dibattiti.
Nasser ha detto che "attualmente il colonialismo cerca di nascondersi sotto maschere fittizie. I colonialisti forgiano nuovi strumenti di dominio che contrabbandano in Congo sotto il vessillo dell'ONU. Effettuano infiltrazioni sul territorio del continente perfino sotto il pretesto degli aiuti all'Africa; mantengono in Africa basi militari pericolose per le nazioni e impongono i propri patti militari. Vogliono fare di questo continente una base per gli esperimenti nucleari e continuare a sfruttarne le ricchezze ai propri fini". Questo per quanto riguarda le minacce esterne. Ma ve ne sono anche all'interno stesso dell'Africa, per esempio "il problema della sua spaventosa, arretratezza: come può esserci pace tra paesi fin troppo ricchi e paesi incredibilmente poveri?". Altro esempio, il problema "dell'ingiustizia sociale all'interno dei paesi africani", "L'Africa è entrata nella fase più pericolosa della sua lotta.
In Africa è avvenuto il miracolo della nascita di un continente, ma attualmente essa si trova di fronte al problema di come mantenersi in vita, svilupparsi e rafforzarsi." Il fatto stesso che questa conferenza sia stata convocata dimostra "l'esistenza di una libera e unitaria volontà africana", Questa "libera e unitaria volontà africana necessita di un pensiero organizzato e di un sistema nervoso dinamico, in modo che l'Africa possa fare fronte alle sfide e volgersi verso le sue massime aspirazioni".
Nasser ha poi auspicato una linea di azione dura nei confronti del colonialismo. Ricordando l'aggressione contro Suez ha sostenuto che le esperienze egiziane dimostrano l'inutilità di negoziare con i colonialisti. "Per liquidare il colonialismo," dice Nasser, "abbiamo dovuto ricorrere alle armi." Oggi come allora "siamo costretti a tenerci pronti per ogni evenienza.
Dobbiamo renderci conto che i patti militari non cadranno da soli come foglie d'autunno. La rapina delle ricchezze naturali non si arresterà mai spontaneamente e i rapinatori non saranno mai sazi".
"Ci occorre," ha poi detto Nasser, "un potente motore che trasformi e convogli l'energia delle nostre grandi aspirazioni e delle nostre illimitate possibilità. Tale motore può essere rappresentato dalla Lega africana, dalla Carta dell'Africa o da periodici incontri tra i capi di Stato africani e i rappresentanti delle nazioni del continente: tutte le soluzioni sono buone.
L'unica cosa che la Repubblica araba unita si rifiuta di accettare è che si lasci questa sede riportandone soltanto parole entusiastiche o una formale istituzione di facciata. Siamo qui per creare qualcosa di reale. Fissiamo una data entro la quale mettere fine al colonialismo. Iniziamo una collaborazione economica per un mercato comune africano ecc." Alla conferenza Nasser è apparso circondato dal massimo rispetto. Nei ricevimenti in cui i capi di Stato venivano fatti entrare a due a due, la prima a entrare è sempre stata la coppia composta dall'imperatore e da Nasser. L'imperatore ha destinato a Nasser la più grossa delle sue limousine e al suo arrivo ha fatto riunire all'aeroporto una folla più numerosa che per gli altri capi di Stato. Durante i dibattiti ogni capo di Stato aveva davanti a sé un lucido thermos pieno di acqua minerale. Prima di ogni sessione due membri della guardia etiopica si presentavano davanti al posto di Nasser, prendevano in mano il thermos, lo soppesavano, l'aprivano e guardavano all'interno: un rituale che si è ripetuto ogni giorno soltanto per il thermos di Nasser.
Nasser è poco fotogenico: nelle foto il suo viso assume sempre un aspetto vagamente demoniaco. In realtà è un bell'uomo, robusto, di costituzione atletica, sempre gentile e sorridente.
Il successivo intervento, quello dei presidente della Re-. pubblica somala, Aden Abdullah Osman, ha fatto scoppiare uno scandalo. Succede sempre ogni volta che in una conferenza panafricana prende la parola la Somalia. La questione è ben nota: i somali sostengono che la vera e propria Somalia, o Grande Somalia, si compone di cinque Somalie minori: la Somalia italiana, la Somalia inglese, la Somalia francese, la Somalia etiopica e la Somalia kenyota, delle quali soltanto due (l'italiana e l'inglese) si trovano entro le frontiere dello Stato somalo. La Somalia ha posto come principale obiettivo della sua politica estera la riconquista delle altre tre parti. Se dirigesse il suo attacco contro la Somalia francese, ultima ufficiale colonia africana della Francia, potrebbe contare sull'appoggio degli altri Stati africani; invece appunta tutto il suo ardore patriottico contro l'Etiopia e il Kenya, il che condanna i suoi sforzi al più completo isolamento: nessun paese africano vuole infatti creare un pericoloso precedente di revisione delle frontiere. A quel punto bisognerebbe rivedere anche tutte le altre frontiere: ma secondo quale criterio?
Osman ha affermato che l'unificazione africana deve partire da forme organizzative elastiche, prefiggendosi al contempo il comune traguardo dell'unione politica africana. È quindi passato alla questione dei conflitti di frontiera e delle rivendicazioni territoriali dichiarando che il problema somalo rappresenta un'eccezione anche nel contesto africano. La frontiera imposta dai colonialisti taglia la nazione somala esattamente a metà. I suoi abitanti sono pastori che hanno bisogno di spazio, per cui la frontiera non solo divide la nazione costringendo un milione e mezzo di somali a vivere fuori della propria patria, ma mette in pericolo addirittura l'esistenza stessa della popolazione. "Non ci si può aspettare che il popolo della Repubblica somala rimanga sordo all'appello dei suoi fratelli." Osman ha quindi chiesto alla conferenza di prendere in esame questo scottante e doloroso problema.
Secondo la prassi consueta, il primo a rispondergli è stato il vicepresidente dell'Etiopia, che ha definito i somali come una parte della nazione etiopica e "fratelli tra i fratelli". Poi Odinga ha organizzato una conferenza stampa e ha distribuito un memorandum firmato da Kenyatta, nel quale si sosteneva che le richieste della Somalia rappresentano un classico esempio di fanatismo tribale e di espansionismo fatale all'unità africana. Il presidente della sessione, Houphouét-Boigny, si è detto profondamente addolorato per il fatto che la conferenza, svoltasi fino a quel momento in una felice atmosfera di reciproca comprensione e fratellanza africana, sia stata turbata da quel deprecabile incidente. Il suo augurio per un pronto ritorno al precedente spirito di compromesso e di tolleranza è stato accolto dagli applausi della parte etiope e dal silenzio della parte somala.
L'intervento di Ben Bella, durato quattro minuti, è stato il più sconvolgente di tutta la conferenza.
Salito sul podio con in mano dei fogli, ha iniziato a spiegarli sul leggio. Ma subito li ha messi da parte e dopo una breve riflessione ha dichiarato di non voler fare un discorso ma di voler dire un'unica cosa.
Durante i dibattiti Ben Bella è sempre rimasto seduto a schiena eretta, la testa immobile, lo sguardo fisso davanti a sé, le braccia all'ingiù con le mani posate sulle ginocchia. Il premier algerino è rimasto per ore in questa posizione senza reagire a quanto accadeva in sala, senza ridere e senza dire una parola. "Quella è la posizione che i francesi facevano assumere ai prigionieri," mi ha spiegato Sahnun, membro della delegazione algerina, "e lui si è abituato a stare così." Ad Addis Abeba i fotoreporter gli chiedevano di sorridere, ma Ben Bella sorride di rado.
Nel silenzio fattosi in sala Ben Bella ha detto: "In nome del popolo algerino e del milione e mezzo di vittime cadute sul campo con onore ho l'obbligo di dichiarare che qualsiasi Carta resterà lettera morta finché non avremo preso delle decisioni concrete e finché non avremo concesso ai popoli dell'Angola, del Sudafrica, del Mozambico e di altri paesi quell'appoggio incondizionato che tali nazioni, oppresse dal giogo del colonialismo, hanno il diritto di aspettarsi. Mi sento anche in obbligo di dire che se non presteremo un aiuto incondizionato ai nostri fratelli, tutti i bei discorsi uditi in questa sede si trasformeranno nella principale arma contro la nostra unità".
Ben Bella ha quindi rivolto il suo attacco contro la sala: "Abbiamo udito pronunciare discorsi in cui gli oratori si interrogavano su come migliorare il tenore di vita dell'Africa e su che cosa fare perché gli africani mangiassero meglio. Come si può non vergognarsi di dire cose del genere, come si può pensare a riempirsi la pancia quando milioni di nostri fratelli gemono nelle prigioni del colonialismo? Non abbiamo il diritto, ripeto, non abbiamo il diritto di parlare di sazietà finché non avremo fatto uscire di prigione i nostri fratelli".
Malgrado la frenetica ovazione esplosa nella sala, non tutti hanno applaudito. I capi di Stato erano disposti in ordine alfabetico; il caso ha voluto che la prima metà dell'alfabeto spettasse al gruppo Brazzaville che, insieme al Como, occupava l'ala sinistra del tavolo. Mentre la sala scattava in piedi applaudendo e acclamando, tutta l'ala sinistra sedeva immobile.
Youlou si rigirava intorno al dito il suo anello pontificale e Adoula scarabocchiava qualcosa su un foglio.
"La libertà dei nostri fratelli si paga con il sangue dei fratelli," ha proseguito Ben Bella. "Oggi l'Algeria è libera perché i fratelli tunisini sono morti a Sakiet Sidi Youssef, perché i fratelli marocchini sono morti a Oujda, perché i fratelli egiziani sono morti a Port Said e perché sono morti i fratelli libici. I nostri fratelli africani hanno accettato di perire perché l'Algeria potesse diventare uno Stato indipendente. In nome delle sacre ombre di questi eroi desidero dichiarare che diecimila soldati algerini attendono in assetto di guerra l'ordine di partire insieme ai fratelli angolani per liberare il loro paese.
Teniamoci pronti anche noi a sacrificare parte della nostra vita o anche a donarla per liberare i popoli sotto il giogo del colonialismo e perché l'unità africana non resti soltanto una frase fatta." Ben Bella è tornato al suo posto, ha ripreso la posizione alla quale si è abituato nelle carceri francesi ed è rimasto così fino alla fine dei dibattiti. Nella surriscaldata atmosfera creata dal suo fervido appello è stata data la parola al presidente della Repubblica centrafricana, David Dacko. Questo non ha certamente aiutato il più giovane tra i presidenti africani (:Dacko ha trentatré anni) che, subito dopo l'intervento di Ben Bella, ha dovuto leggere una servile e sottomessa apologia del gruppo Brazzaville, "vero modello dell'unità africana". Il suo è stato uno di quei discorsi difficili da seguire perché disturbati dalle masse di convenuti che escono a prendersi il caffè, tirandosi dietro anche quelli che sarebbero rimasti in sala.
Dacko è un uomo elegante e alla moda che si muove con aria sicura di sé. Per i francesi rappresenta un problema in quanto fanno molta fatica a mantenerlo al potere. Infatti hanno dovuto sciogliere il parlamento dopo che questo ha negato due volte la fiducia al presidente; poi è stato attaccato da alcuni partiti avversi e i francesi hanno dovuto arrestarne i capi.
La parola è quindi passata al presidente della Repubblica islamica della Mauritania, Moktar Ould Daddah, uno snello signore di trentanove anni, anche lui estremamente elegante.
La Mauritania ha una superficie tre volte più grande della Polonia, ma un numero di abitanti uguale a quello di Varsavia.
La sua capitale, Nouakchott, fino a cinque anni fa non possedeva neanche un edificio e le sedute del governo si svolgevano sotto una tenda. Il principale alimento della popolazione è il granoturco e il principale nemico del granoturco è il "passero del granoturco". Un terzo del bilancio agricolo dello Stato viene quindi assorbito dalla lotta contro questa specie di passeri: nel 1961 ne sono stati uccisi quaranta milioni. La Mauritania è un paese dalle immense ricchezze naturali, ma ancora poco sfruttate. La principale di esse, il ferro, è stata esportata per la prima volta quest'anno. Si sta cominciando a esportare su vasta scala anche il rame e ben presto sarà la volta del petrolio, dei tungsteno, del berillio ecc. Il tutto, ovviamente, è in mano ai francesi. Le partecipazioni del governo mauritano al MIFERMA (Société anonyme des mines de fer de Mauritanie) ammontano al 5%. La Mauritania si trova al confine tra due mondi: il Nord arabo e il Sud nero. La religione e i legami di sangue l'accomunano al Nord, mentre dal punto di vista economico-commerciale è sempre stata legata ai vicini del Sud, soprattutto al Senegal. La Mauritania è stata oggetto di rivendicazioni da parte del Senegal e del Marocco; ma mentre il Senegal ha finito per rinunciarvi (essendo entrambi membri dell'uAM), il Marocco continua a sostenere che "la cosiddetta Mauritania è parte indivisibile del Grande Marocco".
Daddah ha affermato che il miglior modo per ottenere l'unità è il progresso graduale e che è giunto il momento di fare il primo passo. "Una volta compiuto il primo passo, il progresso ne conseguirà irreversibilmente da solo." Parla poi Sua Maestà il sovrano (mwari) del Burundi, Mwambutsa iv, un ossuto vecchietto dall'esile voce malferma, malaticcio, oppresso dal peso della vita e dai problemi creati dall'opposizione. Il Burundi, che era in pratica una semi colonia del Congo, adesso se n'è distaccato e la giovane opposizione cerca di sospingere Mwambutsa sulla via della neutralità. Il Burundi, che ha scelto una via più autonoma del Ruanda, suo vicino settentrionale, guarda adesso al Tanganica, all'Uganda e al Kenya; e questo non solo in rapporto ai vantaggi economici (l'accesso al mare), ma anche perché orientandosi verso i vicini dell'est conta sulla possibilità di conservare una maggiore indipendenza di quella concessagli dall'uAM. Mwambutsa non sembra darsi molto da fare per ottenere l'alleanza con la Repubblica del Tanganíca. Pianificando il suo viaggio ad Addis Abeba, Mwambutsa ha accettato di includervi una visita di cinque giorni nel Tanganica, al che il Tanganica si è preparato a riceverlo con tutti gli onori.
Nel giorno stabilito, Dares-Salaam si è riempito di bandiere, i bambini delle scuole cittadine sono stati distribuiti lungo il percorso, il presidente e il corpo diplomatico si sono recati all'aeroporto, ma Sua Maestà (mwami) Mwambutsa non è arrivato. La manifestazione è finita nel nulla. In mancanza di chiarimenti, il governo ha deciso di restare in attesa.
Questo avveniva il mercoledì. Domenica mattina si è diffusa la notizia che Sua Maestà (mwami) Mwambutsa stava arrivando.
Nuovo alzabandiera generale e nuove frotte di scolaretti dislocati lungo il percorso. Il presidente e il corpo diplomatico si sono recati all'aeroporto, ma Sua Maestà (mwami)
Mwambutsa non è arrivato neanche stavolta. La situazione cominciava a complicarsi: il giorno dopo Nyerere doveva partire per Addis Abeba, e l'ospite ancora non si vedeva. Finalmente ecco la notizia che Sua Maestà (mwami) Mwambutsa sarebbe arrivato alle quattro del pomeriggio: per cui via di nuovo con bandiere, scolaretti, presidente e compagnia bella.
Alle quattro del pomeriggio, di Sua Maestà (mwami) Mwambutsa non c'era ancora traccia. L'unica possibilità rimasta ai rappresentanti del governo era di continuare ad aspettare a oltranza all'aeroporto, cosa che appunto hanno fatto anche se, a un certo punto, data l'ora, non si è potuto fare a meno di rimandare a casa i bambini. Soltanto allora, ossia alle 19.30, Sua Maestà (mwami) Mwambutsa è atterrato sull'ospitale suolo del Tanganica. Ma ormai la misura era colma. Il programma prevedeva che il lunedì i due dignitari (Nyerere e Mwambutsa) partissero per Addis Abeba con lo stesso aeroplano: a quel punto Nyerere è partito per primo, da solo, e un'ora dopo è stato raggiunto da Sua Maestà (mwami) Mwambutsa, sovrano del Burundi.
Il discorso di Mwambutsa è stato abbastanza progressista anche se non aveva niente a che fare con i problemi concreti della conferenza, verso i quali il re non ha assunto una posizione precisa. Ha comunque affermato che "l'Africa odierna, contrariamente a quanti vorrebbero rinchiuderla nell'ambito della vecchia visione occidentale, ha l'ambizione di scoprire non soltanto l'Europa occidentale, ma il mondo intero. Quindi deve stare attenta a respingere con tutte le sue forze le tentazioni della dominazione straniera".
Per il settantatreenne re della Libia Muhammad Idris al-Sanussi (impossibilitato a viaggiare per motivi di salute) ha parlato l'erede al trono, principe Hasan Rida, un uomo di mezz'età sfarzosamente vestito di raso. (Il re della Libia è l'unico capo di Stato africano a non parlare nessuna lingua straniera; in compenso il suo palazzo è custodito da due compagnie di un esercito straniero, precisamente inglese.)
"Innalziamo preci all'Onnipotente," ha detto l'erede al trono, "perché questa conferenza segni un passo in avanti sulla via dell'unificazione africana. Dobbiamo unire le forze per eliminare gli ultimi bastioni del colonialismo in tutte le sue forme, quali il sionismo, la discriminazione razziale e ogni altro genere di tirannia e di dominio coloniale. Dobbiamo evitare a ogni costo l'insorgere in Africa di raggruppamenti destinati solo a frantumare l'unità africana e a costituire una reale minaccia per la nostra sicurezza e la nostra esistenza." La lunga lista dei capi di Stato africani si è lentamente avviata alla fine. Alla sessione serale del penultimo giorno dei lavori hanno preso ancora la parola cinque oratori. Il presidente della Repubblica del Ciad, Francois Tombalbaye, ha dichiarato che il Ciad condivide con il Sudan, suo vicino occidentale, lo stesso problema ma in forma inversa: in Sudan il Nord arabo-musulmano prevale sul Sud nero e cristiano, mentre nel Ciad il Sud nero-cristiano predomina sul Nord arabomusulmano.
I capi del Sudan meridionale vorrebbero quindi avere in Sudan la situazione del Ciad, mentre i capi del Ciad settentrionale vorrebbero avere quella del Sudan. Lo stesso Tombalbaye proviene dalla tribù meridionale dei sara, i cui uomini hanno il viso coperto di scarificazioni geometriche, visibili anche sul volto del presidente. Recentemente Tombalbaye ha fatto incarcerare cinque ministri del suo gabinetto, ossia gli oppositori arabi settentrionali che per motivi etnicopolitici erano entrati a far parte del governo. Come superficie il Ciad è quattro volte più grande della Polonia, con una popolazione dieci volte minore. Il punto di forza della posizione di Tombalbaye è la sua presenza nell'Unione africano-malgascia, per cui anche il suo discorso ad Addis Abeba è stato conforme alle tesi espresse dai presidenti degli altri paesi dell'uAM. Tombalbaye si è dichiarato favorevole a un'elastica organizzazione degli Stati africani, alla futura creazione di una libera zona di commercio e di mercato comune, al superamento delle differenze tra gruppi e a un'efficace lotta per un'ulteriore decolonizzazione dell'Africa.
Maurice Yaméogo, presidente dell'Alto Volta, ha assunto una posizione più incisiva. Yaméogo si trova in una situazione geopoliticamente scomoda: il suo paese è stretto tra due Stati che seguono l'orientamento di Casablanca, il Ghana e il Mali, ma l'unica linea ferroviaria che collega l'Alto Volta con il resto del mondo attraversa fino al porto di Abidjan la principale potenza dell'Africa "francese", ossia la Costa d'Avorio.
La ben sviluppata Repubblica della Costa d'Avorio impiega anche le eccedenze della forza lavoro dell'Alto Volta, paese estremamente povero, e così fa pure il Ghana; per giunta tra la popolazione del Ghana e dell'Alto Volta avvengono importanti scambi commerciali. Yaméogo è quindi costretto a condurre una politica che faccia andare d'accordo l'acqua col fuoco. Nel suo discorso ha auspicato il superamento delle differenze esistenti tra gli Stati africani e l'edificazione di una stabile unità. "L'unità sarà la bomba atomica che distruggerà i colonialisti," ha detto l'oratore in mezzo all'entusiasmo generale.
È stato poi il turno del presidente della Costa d'Avorio, Félix Houphouèt-Boigny, un uomo piccolo, minuto, con un viso dove tutto, dal naso alle labbra agli zigomi, è ugualmente piatto. Houphouèt ha inferto duri colpi alle forze progressiste dell'Africa e nelle rivoluzioni ha svolto un ruolo più dannoso. di molti altri famosi (o per meglio dire famigerati) nomi africani. L'annientamento delle forze progressiste di sinistra nell'ex Africa francese è soprattutto merito suo. Il presidente della Costa d'Avorio è un ideologo africano, organizzatore e promotore del neocolonialismo francese. È sufficiente citare quattro episodi della sua biografia politica.
Negli anni cinquanta, quando la sinistra africana aspirava a trasformare l'Africa occidentale francese in un'unitaria e indipendente federazione africana, Houphouét-Boigny fu il politico che, conformemente alla linea di Parigi, ne silurò i piani.
Come ministro del governo Mollet, nel 1956 Houphouét-Boigny votò a favore dell'aggressione contro Suez e l'Egitto.
Quando, nel dicembre 1958, nacque lo Stato federale del Mali, composto dal Senegal, dal Mali, dall'Alto Volta e dal Dahomey, con a capo il presidente Modibo Keita (e la cui esistenza avrebbe mutato l'assetto di forze di tutta l'Africa occidentale), Houphouét-Boigny si adoperò affinché nel giro di poco tempo la federazione si sciogliesse, inducendo (peraltro con metodi poco puliti) il Dahomey e l'Alto Volta a uscirne.
Nel dicembre 1960 fu sempre lui a organizzare la conferenza di Brazzaville, che portò alla creazione del gruppo Brazzaville e che assunse le posizioni più reazionarie nella questione congolese.
Nel suo discorso ad Addis Abeba Houphouét-Boigny ha affermato che non esiste errore più grave del credere che "l'entusiasmo possa superare le difficoltà". Gli Stati africani devono improntare la loro politica al realismo e "gli sforzi diretti all'unità devono venire intrapresi con l'indispensabile cautela e il necessario giudizio".
In Africa sono noti il lusso e il fasto di cui si circonda Houphouét-Boigny. Oltre a varie residenze in Costa d'Avorio, possiede una villa nei dintorni di Parigi e un palazzo in Svizzera acquistato per la figlia di dieci anni iscritta a una scuola di quel paese.
Ed ecco Modibo Keita, presidente del Mali. Keita ha scelto la stessa linea tattica di Ben Bella: "Le nostre discussioni sulla forma dell'unificazione africana appaiono attualmente secondarie rispetto al prioritario e urgente problema dell'immediata liberazione delle zone africane colonizzate". Keita ha lasciato intendere di condividere l'opinione di Ben Bella secondo cui tale liberazione è possibile soltanto per mezzo delle armi e soltanto qualora "i fratelli africani accettino di perire per la libertà dei loro fratelli". Per quanto riguarda l'unificazione africana, Keita si è allineato con la maggioranza, ribadendo la proposta di rafforzare l'unità mediante lo sviluppo della collaborazione economica. Ha anche aggiunto che, a suo avviso, i paesi africani dovrebbero stringere un reciproco patto di non aggressione.
L'ultimo oratore di questo vasto dibattito è stato il presidente del Tanganica, Julius Nyerere. Fin dall'apertura del summit Nyerere aveva iscritto il suo intervento all'ultimo posto, riservandosi in un certo senso il diritto di porre il punto finale sulla "i" panafricana. Il suo discorso è stato brillante e ha raccolto numerosi applausi. Nyerere ha citato con una certa ironia la proposta di Nkruma'h: "Il suo è un progetto definito rivoluzionario," ha detto. "Ma quale rivoluzionarismo può esserci in un progetto fuori dalla realtà?" Il vero rivoluzionarismo consiste nel fare il primo passo. "Senza la Carta io di qua non mi muovo," ha dichiarato l'oratore. Nyerere ha inoltre proposto che ogni Stato indipendente africano consideri l'occupazione coloniale di qualsivoglia territorio africano come l'occupazione del proprio territorio. Appoggiando la mozione di Sékou Touré, l'oratore ha infine dichiarato che il Tanganica è disposto a destinare l'1% del suo bilancio annuale al fondo per la liberazione dell'Africa.
E adesso veniamo a Nkruma'h.
In che cosa consiste il progetto di Nkruma'h?
Sono molti anni che Nkruma'h lavora a stabilirne i principi di fondo, di cui ha rivelato una prima e preliminare traccia nell'Autobiografia pubblicata nel 1957. Oggi Nkruma'h dice che nell'agosto 1960 sottopose la sua idea a Lumumba il quale acconsentì a farne la direttiva della propria politica. Il piano di Nkruma'h era tuttavia una costruzione basata più su una speculazione intellettuale che su una effettiva analisi delle esperienze dell'Africa indipendente (a quel tempo i paesi liberi erano pochi). Dopo il 1960 ben venti paesi conquistarono l'indipendenza, il che permise a Nkruma'h di sintetizzare una visione politico-economica dell'Africa attuale. Gli ultimi particolari del progetto vennero elaborati alla fine del 1962.
In che cosa consiste il concetto di unificazione dell'Africa presentato da Nkruma'h?
Dal punto di vista dell'attuale situazione africana si tratta di una grande utopia politica. È un fatto storicamente noto che i pensatori che imboccano una nuova via di sviluppo sociale creano proprie utopie politiche, destinate peraltro a svolgere un fondamentale ruolo rivoluzionario. E adesso in Africa è apparsa un'utopia politica del continente chiusa, completa e ragionata in ogni minimo particolare. Ma nell'ambito delle società africane non esistono ancora forze sociali capaci di trasformarla in realtà.
Il piano di Nkruma'h, comunque, non è soltanto un'utopia politica. È anche una teoria della seconda rivoluzione che sta lentamente formandosi in Africa. Nkruma'h ne preannuncia l'avvento e indica le forze che la mettono in atto. Considera la situazione attuale come transitoria, come una tappa storica intermedia tra quella del dominio coloniale in Africa e quella in cui l'Africa si inserirà come forza autonoma nella politica mondiale.
Nkruma'h parte dal presupposto che l'Africa si trovi a un bivio. Che sia entrata in un periodo cruciale, in una fase di ricerca di un nuovo orientamento, nell'anno risolutivo che ne deciderà il futuro storico. L'esperienza dell'Africa ha dimostrato che la conquista dell'indipendenza non risolve nessuno dei fondamentali problemi del continente. L'indipendenza dev' essere semplicemente considerata un'opportunità. ("Siamo giunti alla conclusione che la lotta contro il colonialismo non si esaurisce con la conquista dell'indipendenza nazionale.
L'indipendenza è soltanto il prodromo a una nuova e più fondamentale lotta per il diritto di dirigere da soli la nostra vita economica e sociale.")
Per quale ragione l'indipendenza non ha risolto nessuno dei fondamentali problemi africani? Perché, nella maggior parte dei casi, si tratta di un'indipendenza soltanto apparente.
In Africa l'imperialismo e il colonialismo sono presenti e mantengono íl loro dominio non soltanto nelle colonie, ma anche nella maggior parte dei paesi divenuti ufficialmente indipendenti: quei paesi che Nkruma'h definisce semi-independent, client-states o pocket-countries. L'imperialismo permane e domina l'Africa grazie al fatto di essere riuscito a frantumarla in decine di piccoli Stati indipendenti, governati da fantocci imperialisti.: "Il neoirnperialismo se ne serve (dei capi degli Stati cosiddetti indipendenti, ma in realtà dipendenti) come di marionette per mantenere la divisione dell'Africa. Ancora peggiore è l'ipocrisia di tali governanti nel proclamarsi disposti a collaborare con il panafricanismo in certi campi, mentre in realtà appoggiano gli sforzi delle potenze imperialiste diretti a spezzare l'unità africana". Nkruma'h ha inoltre affermato che "l'influsso sull'Africa di questi Stati pseudoindipendenti è diventato pericoloso". Sono paesi che non hanno davanti a sé nessuna prospettiva di sviluppo autonomo: "Questi Stati hanno bisogno degli aiuti esterni senza i quali neanche il governo riuscirebbe a mantenersi". Ma neanche gli altri paesi africani hanno autonome prospettive di sviluppo: "Nessuno degli attuali Stati indipendenti africani, presi singolarmente, ha la possibilità di condurre un'autonoma politica di sviluppo economico: quelli che ci hanno provato sono finiti nella quasi totale rovina, oppure sono dovuti rientrare all'ovile dei loro padroni coloniali bianchi".
Nkruma'h attacca dunque il mito dell'indipendenza africana e nella discussione si serve addirittura della paradossale definizione di unindependent independence, "indipendenza dipendente". Nkruma'h spoglia l'Africa dei simboli esteriori dell'indipendenza, mettendone a nudo la drammatica realtà, ossia "la debolezza e l'impotenza dei nostri Stati...".
"Chi di noi può affermare che le ricchezze materiali e l'energia umana vengano impiegate nello sviluppo dei nostri Stati nazionali?" "Quali vantaggi ha arrecato l'indipendenza al nostro contadino, al nostro operaio, al nostro agricoltore?" "La parte più ricca del continente si trova tuttora sotto il dominio dell'occupazione coloniale..." Quali strade si aprono oggi all'Africa?
"L'Africa," dice Nkruma'h, "ha davanti a sé due strade.
La prima è quella dell'unificazione graduale. Ci sentiamo con tinuamente raccomandare di avvicinarci all'unità in modo graduale, un passo dopo l'altro. Chi esprime questo auspicio considera l'Africa come un essere statico, che si porta addosso una serie di problemi congelati, da eliminare uno dopo l'altro; dopo di che, fatta piazza pulita, ci si riunisce insieme e si dice: `adesso che tutto è a posto, possiamo unirci'. È una visione che non tiene conto né delle pressioni esterne, né del fatto che ogni rinvio serve solo ad aumentare le nostre difficoltà, a dividerci e a spingerci tutti insieme nelle reti del neocolonialismo." Nkruma'h chiede poi: "In sostanza, che cosa vogliamo per l'Africa? Una Carta modellata sull'esempio dell'ONU? Un'organizzazione tipo l'ONU, in cui si creino dei gruppi che esercitino pressioni conformi ai loro personali interessi? Vogliamo trasformare l'Africa in una duttile organizzazione di Stati sul modello degli Stati americani, in cui il più debole diventi vittima del vicino politicamente ed economicamente più forte e tutti insieme dipendano dalla buona grazia di una, o più, potenze straniere?".
Secondo Nkruma'h, l'Africa non ha alcun futuro su questa strada.
Se dovesse imboccarla, secondo lui sul continente comincerebbe a maturare una seconda rivoluzione. "A opera di chi?" chiede Nkruma'h, e subito risponde: "Delle masse". Con la differenza che stavolta la rivoluzione non sarebbe più rivolta verso l'esterno e contro il colonialismo straniero, ma verso l'interno, contro gli strati o le élite africane al potere. "I nostri popoli ci hanno sostenuto nella lotta per l'indipendenza perché erano convinti che i governi africani sarebbero stati in grado di eliminare i mali del passato in un modo che non sarebbe mai stato possibile sotto il dominio coloniale. Se oggi, conquistata l'indipendenza, lasciamo permanere le stesse condizioni di prima, tutto l'odio che ha portato all'abbattimento del colonialismo si volgerà contro di noi." E ancora: "Finché il potenziale economico dell'Africa non si troverà nelle nostre mani, le masse non potranno provare una reale preoccupazione e un sincero interesse nel difendere la propria sicurezza, nel mantenere stabili i nostri governi e nell'organizzare gli sforzi necessari a raggiungere le mete da noi prefissate".
L'analisi di questa prima via di uscita non fa una piega: è giusta, colpisce nel segno e va in profondità.
L'Africa è entrata in un periodo in cui l'influsso del fattore economico sulla politica e sulle decisioni politiche non solo è cresciuto in modo esponenziale in confronto, per esempio, al 1960, ma manifesta una continua tendenza a crescere.
Ciò deriva principalmente dal fatto che l'economia africana, in questa sua fase fondamentale, si trova in mani straniere e neocolonialiste e viene sempre più usata come una leva con cui le capitali degli Stati imperialisti manovrano la situazione politica. Quindi anche l'attenzione degli osservatori politici dell'Africa si appunta sempre più sull'economia, ambito in cui è possibile trovare la spiegazione di molti fenomeni politici.
Dopo aver esposto i pericoli di questa prima via africana, Nkruma'h avanza l'ipotesi di un'altra possibile via di sviluppo: l'Africa dovrebbe unirsi e costituire un unico Stato. Uno Stato che nei suoi scritti Nkruma'h chiama in vari modi: Unione degli Stati indipendenti africani, Unione politica degli Stati africani, Stati Uniti dell'Africa, Unione delle Repubbliche africane. E qui, in quest'idea di un unico Stato africano, appare chiaramente l'utopia politica.
Parlando del vantaggio di creare un unico Stato africano Nkruma'h cita come esempio le potenze degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica. Afferma che la decisione di creare questi due Stati confederati è stata, nel momento storico della loro nascita, una "decisione politica delle masse popolari rivoluzionarie".
Da questa affermazione Nkruma'h tuttavia non trae le debite conclusioni. Se gli Stati Uniti d'America e l'Unione Sovietica sono sorti sull'onda di massicci movimenti sociali e come decisione rivoluzionaria delle masse, come possono sorgere gli Stati Uniti dell'Africa o l'Unione delle Repubbliche africane se le masse non sono ammesse a prendere una decisione rivoluzionaria in tal senso? "Prendiamo la rivoluzionaria decisione di creare l'Unione degli Stati africani!" invita Nkruma'h durante la conferenza al vertice. Ma come possono prendere una decisione rivoluzionaria degli uomini che Nkruma'h stesso definisce (non tutti, ovviamente) fantocci manovrati dal neocolonialismo, dicendo per di più che non c'è un solo Stato africano (e quindi neanche un suo leader) veramente libero (nel senso che non ha libertà di decisione), in quanto dipendono tutti dalla politica del capitale straniero?
Quanto ai dettagli organizzativi di uno Stato africano unificato, Nkruma'h propone un governo centrale, un parlamento, un comune piano economico, una comune politica estera, un unico comando militare, un'unica valuta, un'unica banca, e via dicendo.
Questo è il piano strategico di Nkruma'h. Visto che non contava sul fatto che venisse accettato ad Addis Abeba, ha firmato senza riserve la Carta dell'Africa proposta dall'Etiopia.
Il presidente del Ghana è stato il diciottesimo oratore del summit e il suo è stato il discorso più lungo. Quando il presidente Houphouét-Boigny ha annunciato il nome di Nkruma'h, c'è stata una grande agitazione e tutti quelli che durante i dibattiti trascorrevano il tempo nei corridoi si sono precipitati in sala. Nkruma'h indossava una divisa da attivista del partito cinese uguale a quella portata solitamente da Mao. È arrivato ad Addis Abeba con un Ilyushin-18 e il secondo giorno dei dibattiti è entrato in sala con in mano l'ultimo numero dell'"African Communist".
L'ultima sessione del vertice è durata diciassette ore. La cena è stata servita ai capi di Stato direttamente in sala. Un corrispondente egiziano, che davanti all'Africa Hall aveva notato dei furgoni con gli hot-dog bollenti, ha chiesto al segretario generale della conferenza, Gebre-Egzy Tesfaye (Etiopia), se i capi di Stato avrebbero cenato senza interrompere la sessione. No comment, ha risposto Tesfaye con la massima gravità, dopo di che ha girato i tacchi e se n'è andato.
Le sessioni sono segrete, ma in Africa le notizie trovano sempre il modo di trapelare. Innanzitutto si è discusso della versione definitiva della Carta dell'Africa preparata sulla base del progetto etiopico dalla "sottocommissione dei nove".
Seguono ore di interminabili e minuziose controversie sui seguenti quattro punti: 1. L'Egitto e il Ghana chiedono che la formulazione contenuta nell'introduzione alla Carta, secondo la quale gli Stati africani si impegnano to resist neocolonialism, venga modificata nella più incisiva dicitura: to fight against neocolonialism.
Dopo qualche scambio di frasi, la correzione viene accettata.
2. I paesi dell'uA.M chiedono di eliminare dalla Carta il capitolo riguardante la creazione di un Comitato di difesa dei paesi indipendenti dell'Africa, destinato tra l'altro a indicare le vie della collaborazione militare. L'uAM, legato alla Francia da patti militari, non vuole guastarsi i rapporti con quest'ultima impegnandosi in una collaborazione militare con i paesi africani.
3. In risposta a quanto sopra, i paesi del gruppo Casablanca pongono la condizione che la formula "African and Malagasy States" sia modificata in "African States". Proteste del Madagascar e partenza da Addis Abeba dello stizzito Tsiranana.
Ma entrambi gli emendamenti vengono accettati: si elimina dalla Carta ogni accenno a una collaborazione militare tra gli Stati africani e si abolisce la dicitura "African and Malagasy States".
4. Il Senegal e il Congo propongono un'ulteriore correzione: nella Carta si parla di un annuale incontro al vertice dei capi di Stato africani. Il Senegal e il Congo chiedono che gli incontri avvengano ogni due anni. Ma l'emendamento non ottiene la maggioranza e la Carta serba inalterata la clausola dell'annuale incontro al vertice.
Il principale scontro scoppia comunque a proposito del documento più rivoluzionario della conferenza: la risoluzione sulla decolonizzazione. La discussione viene aperta dal Senegal, che propone di eliminare dal progetto la frase secondo cui gli Stati indipendenti dell'Africa "presteranno aiuto di tipo militare ai moti di liberazione" ecc. Il Senegal è contrario alla dicitura "di tipo militare". Senghor si dice disposto ad accettare soltanto l'espressione "presteranno ogni aiuto". Ca sablanca, appoggiata anche dall'Uganda e dal Tanganica, fa il possibile per mantenere la formula iniziale, ma alla fine è costretta ad arrendersi alla maggioranza. Le parole "di tipo militare" vengono cancellate.
Sconfitte su questo punto, Casablanca e l'Africa orientale passano quindi al contrattacco pretendendo che nella risoluzione si introduca la clausola del pagamento annuale da parte di ogni Stato dell' 1 % del bilancio nazionale a favore dei moti di liberazione. Ovviamente l'uAM e la maggior parte dei paesi del Fronte di Monrovia protestano: non 1'1%, ma ciascuno secondo le proprie possibilità; non ogni anno, ma quando se ne presenti il bisogno e nelle casse ci siano i soldi necessari; e, soprattutto, la clausola non deve essere menzionata nella risoluzione. Con Casablanca e l'Africa orientale si schierano il Sudan, la Libia e la Somalia: undici Stati in tutto, troppo pochi per prevalere. Il contrattacco finisce in un fiasco.
Tutte queste sono state comunque piccole scaramucce in confronto alla battaglia sostenuta dall'Algeria contro il Congo a proposito dell'Angola. Lo scontro è durato più di cinque ore e le divergenze si sono spinte talmente lontano che, senza l'energica azione mediatrice del Tanganica, del Mali, della RAU e del Burundi, le due parti, ossia l'Algeria e il Congo, avrebbero abbandonato la conferenza prima del tempo.
Tutto è cominciato con la discussione sul partito cui prestare aiuto: l'MPLA o 1'FNLA? Dato che il territorio di partenza dell'operazione angolana è il Congo, il voto di Leopoldville aveva una fondamentale importanza. Kasavubu ha dichiarato senza mezzi termini di consentire che si presti aiuto soltanto all'FNLA, l'unico partito angolano riconosciuto dal Congo. La dichiarazione ha scatenato il pandemonio nella sinistra. A favore dell'MPLA si sono incondizionatamente schierati la Guinea, il Marocco e soprattutto Ben Bella: si può anzi dire che L'ultima giornata del vertice sia stata la giornata di Ben Bella.
Ad Addis Abeba, Ben Bella era a capo dello schieramento anticolonialista e ha dimostrato di esserne il rappresentante più rivoluzionario.
Nella strategia africana anticolonialista l'Angola riveste un particolare significato per tre motivi: 1. È uno dei paesi più grandi e più economicamente sviluppati del continente.
2. È attraversata dalla linea ferroviaria che collega con il mare due grandi bacini minerario-industriali dell'Africa: il Katanga e il Copperbelt zambiano.
3. Apre l'accesso al Sudafrica.
Nel corso della discussione, la posizione di Kasavubu, dichiaratosi favorevole a fornire aiuti soltanto al filoamericano i NLA, viene appoggiata da Nigeria, Tunisia, Senegal, Niger, Ciad e Mauritania. Guinea, Marocco e Algeria rifiutano di cedere. Si fa avanti un gruppo di mediazione il quale propone che gli Stati africani premano su entrambi i partiti dell'Angola, l'MPLA e 1'FNLA, perché formino un unico fronte di liberazione e che, finché ciò non avvenga, si forniscano aiuti sia all'uno che all'altro. Il gruppo mediatore è formato da Tanganica, Mali, RAU e Burundi. Dopo interminabili tira e molla, la posizione dei mediatori viene accettata dalla maggioranza, tanto più che i mediatori hanno in mano un argomento forte: si avvicina la sera e la conferenza deve finire in giornata.
Ma il dissidio, temporaneamente placato, torna a esplodere con nuova forza. Ben Bella propone di introdurre nella risoluzione la seguente clausola: "A riprova della fratellanza dei paesi africani e della loro volontà di portare la libertà alla nazione angolana oppressa dal giogo coloniale, il governo dell'Algeria le presta il proprio aiuto sotto forma di diecimila volontari armati". Kasavubu e Adoula rispondono con una vibrata protesta.
Kasavubu non vuole, non può cedere; ma stavolta non vuole cedere neanche Ben Bella. La Carta dell'Africa, approvata quattro ore fa e in attesa di essere firmata tra altre quattro ore, giace davanti a ognuno dei trenta capi di Stato dell'Africa indipendente come un documento già morto e dimenticato. A poca distanza dalla firma, la vita reale ne mette alla prova l'effettiva validità. Quattro ore fa Kasavubu ha accettato di firmare il principio della "collaborazione degli Stati africani in tutti i campi" e tra quattro ore lo firmerà; ma tra l'atto di accettazione e l'atto della firma c'è di mezzo qualcosa di più importante di tutte le carte, di tutte le firme e di tutti i consensi: l'interesse del potere. Questo scontro tra Kasavubu e Ben Bella, tra queste due personalità così diametralmente opposte, meriterebbe di essere visto: da un lato del tavolo Ben Bella, tutto teso nella sua indomabile passione, nel dinamismo, nel fervore rivoluzionario; di fronte a lui Kasavubu, immobile, sempre sorridente, le mani conserte sulla grossa pancia di cui niente riesce a turbare il vitale processo digestivo.
Vista la situazione apparentemente senza uscita, i quattro mediatori tornano a lanciare il salvagente del compromesso.
"Il nostro slogan inneggiante all'unità riceverebbe un duro colpo," argomentano, "se la conferenza, finora proceduta senza intoppi, dovesse fallire proprio all'ultimo momento. In considerazione dell'ora tarda, proponiamo che la discussione venga portata avanti privatamente dai due governi interessati, l'Algeria e il Congo, confidando nel fatto che giungano a una reciproca intesa in nome della necessità, chiara a entram bi, di eliminare il colonialismo di Salazar." La conferenza procede oltre. La clausola destinata a stabilire una data definitiva della liberazione africana non ottiene l'approvazione di Monrovia e la mozione della Guinea viene respinta. Emerge lo scottante problema della liquidazione delle basi militari. Un argomento delicato, e non solo perché la più importante base militare USA in Africa si trova sul territorio del padrone di casa della conferenza l'Etiopia e neanche a grande distanza dalla sede dei dibattiti. La questione è complicata dal fatto che per i piccoli e poveri staterelli africani spesso queste basi rappresentano un'importante fonte di reddito. In segno di omaggio nei confronti dell'imperatore la conferenza decide quindi di mitigare la durezza della formulazione circa la liquidazione delle basi straniere, aggiungendovi le parole: "mediante la via del negoziato".
Il 26 maggio, alle due di notte, si è concluso l'ultimo atto dell'incontro al vertice africano: la cerimonia della firma della Carta dell'Africa. Alcune ore dopo, la maggior parte dei capi di Stato ha lasciato Addis Abeba e con i propri aerei privati ha fatto ritorno alle rispettive capitali. Quella stessa mattina ho incontrato Jean Lacouture, grande firma del parigino "Le Monde" nonché uno dei migliori conoscitori della politica africana. Ho chiesto il suo parere sulla conferenza.
Era molto soddisfatto. Aveva soprattutto apprezzato il buon senso dei leader africani, la loro moderazione e l'esatta percezione del limite fino al quale potevano spingersi. "È stata un'ottima conferenza sia per loro che per noi," ha detto Lacouture.
Mi sono quindi incontrato con C.B., consigliere personale di Nkruma'h, e gli ho chiesto l'opinione di Osagyefo sulla conferenza. "Osagyefo è molto soddisfatto della conferenza," ha detto. C.B. "In realtà non si aspettava dei risultati così favorevoli e rivoluzionari. Abbiamo ottenuto più di quanto sperassimo." Sono quindi passato all'Africa Hall, dove al lungo tavolo messo a disposizione dei giornalisti sedevano alcuni miei conoscenti intenti a scrivere i loro commenti. C'erano, tra gli altri, Kao Liang della pechinese Xinhua, Chandulla della Press Trust of India, MacArthur del "New York Times" e Olejnikov della Tass. Mi sono spostato dall'uno all'altro sbirciando sopra le loro spalle per vedere che cosa scrivessero.
Tutti parlavano della conferenza con la massima approvazione, facendo capire che si era trattato di un evento quanto mai positivo per i loro rispettivi paesi di origine. Ho pensato che nell'odierno e teso mondo della guerra fredda fosse un'ottima cosa trovare un'iniziativa politica di cui tutti, indipendentemente dai blocchi, dai sistemi e dalle opinioni sulla situazione internazionale, rimanessero soddisfatti al punto da dire: questo è ciò di cui avevamo bisogno. L'Africa, enfant terrible dell'attuale politica mondiale, continua a godere di una buona stampa. Visto che la situazione africana è caratterizzata da due dati fondamentali, ossia, da una parte, la tendenza all'autonomia e, dall'altra, la sostanziale impossibilità di raggiungerla in modo completo, ogni centro politico extra-africano vi trova qualcosa che gli fa comodo. Per il blocco comunista questo qualcosa è l'irremovibile tendenza dell'Africa a render-. si indipendente, per l'Occidente, la sua impossibilità di ottenere un'indipendenza completa. E poiché Addis Abeba ha chiaramente evidenziato la presenza e la vitalità di entrambe le tendenze, ha riscosso le opinioni favorevoli di tutti.
Qual è stata la vera importanza dell'incontro di Addis Abeba?
Innanzitutto la presenza di un dialogo. Addis Abeba non ha portato l'unità nel senso dell'unificazione politica, ma ha dato inizio a un dialogo dimostrando che esso è possibile. Ma, soprattutto, ha posto le basi organizzative per una sua futura continuazione, aprendo al contempo la prospettiva di un ulteriore avvicinamento tra le capitali africane. Addis Abeba ha frenato il processo, in atto dal 1960, dell'allontanamento tra i gruppi e i singoli Stati e ha aperto quello del riavvicinamento o, per lo meno, ha gettato le premesse di un suo futuro sviluppo.
L'avvio di un dialogo ai massimi vertici è già di per sé da considerarsi un successo. Naturalmente chiunque si imbatta nella problematica africana in modo casuale e consideri L'Africa un tutt'uno, compatto come un muro di cemento, riterrà che l'avvio di un dialogo non possa considerarsi un vero e proprio successo. Ma la verità è un'altra. Sono molti, in Africa, i capi di Stato e i ministri che tale dialogo preferirebbero evitarlo per la buona ragione che non hanno molto da dire o, se ce l'hanno, perché sanno che le loro opinioni non sono popolari.
E quindi bisogna rendersi conto dell'eccezionalità di incontri come quello avvenuto tra un uomo di Stato, leader e pensatore politico quale Nkruma'h, e un comune squadrista, organizzatore di sanguinosi massacri tribali quale Fulbert Youlou che, più che un protetto di de Gaulle, è uno strumento nelle mani del suo primo consigliere, M. Delarue, ex alto funzionario della Gestapo condannato dopo la guerra all'ergastolo per i crimini commessi durante l'occupazione nazista.
Aggiungiamoci inoltre le insistenti pressioni esercitate dai centri della politica neocolonialista sulle capitali africane per distoglierle dalla via di Addis Abeba. Il neocolonialismo usa il metodo del ricatto economico, l'arma più pesante nei rapporti padrone-cliente.
Ciò nonostante la parte avversa si è rivelata più forte, visto che l'incontro di Addis Abeba si è realizzato. La parte avversa sono le forze patriottiche o come si usa dire le forze nazionaliste in seno alle élite governanti; alle quali, e torno a ripeterlo con forza, si aggiungono le masse africane la cui opinione, anche se di rado espressa verbalmente, si percepisce con chiarezza, non fosse che dal clima politico favorevole alle tendenze unificatrici e sfavorevole ai secessionisti e ai separatisti.
Ad Addis Abeba ha prevalso la posizione della maggio-. ranza, favorevole alla creazione di un'elastica organizzazione collaborativa tra gli Stati africani. Ma questa vittoria della maggioranza e la nascita di tale organizzazione non significa che i problemi dell'unificazione africana siano definitivamente risolti e che la lotta tra le centripete forze patriottiche progressiste e le centrifughe forze conservatrici e neocolonialiste sia conclusa.
La conferenza di Addis Abeba ha rappresentato un passo avanti verso l'unificazione, ma il passo è avvenuto nell'ambito dell'attuale assetto di forze africano: l'assetto in sé è rimasto immutato.
Quali saranno le caratteristiche della prossima fase di sviluppo dell'Africa?
Per prima cosa seguirà un periodo contraddistinto dalla lotta su come interpretare le decisioni della conferenza di Addis Abeba. Trattandosi dei documenti di un compromesso, le decisioni della conferenza si prestano alle più svariate possibilità interpretative: per Nkruma'h sono l'inizio della via verso l'unificazione, mentre per Hubert Maga rappresentano il raggiungimento dell'unificazione (questo in base alle dichiarazioni rilasciate dai due presidenti dopo la conferenza). La tendenza rivoluzionaria mirerà quindi ad andare oltre i risultati di Addis Abeba, mentre la tendenza conservatrice mirerà a farne una lettera morta, o puramente formale.
Punto secondo: anche se nella politica africana non ci saranno più i gruppi Casablanca e Monrovia, permarranno comunque due orientamenti politici che continueranno le linee tracciate nelle Carte e nelle risoluzioni di entrambi i gruppi.
La lotta politica e i rapporti interstatali dei paesi africani continueranno a essere determinati dall'esistenza di questi due orientamenti, o linee politiche, che si scontreranno e si differenzieranno principalmente in due campi: nella questione di come rapportarsi verso il neocolonialismo e la sua espansione sul territorio africano, e nella questione dei metodi di lotta per eliminarlo.
Punto terzo: è presumibile che lo sviluppo dell'Africa e l'evoluzione del suo assetto di forze si muoveranno separatamente, ma in modo parallelo, verso la creazione di gruppi regionali, di federazioni, di unioni o di altri, forse più elastici, raggruppamenti tra nazioni. L'unificazione partirà da questo primo gradino, che è anche il più facilmente raggiungibile. In questa fase tutti gli sforzi sono degni di interesse in quanto fondati su basi realistiche ed è presumibile che, comunque, "ne venga fuori qualcosa", che si produca un risultato. Parallelamente al formarsi di questi legami regionali crescerà sul continente il significato delle grandi potenze africane (grandi, ovviamente, in rapporto al continente). Il normalizzarsi della situazione in Africa riporta la posizione di molti Stati alle loro giuste proporzioni. Ne è un classico esempio la Guinea, che un tempo in Africa occupava una posizione di spicco e che oggi è stata ridimensionata al rango di altri Stati. Il posto di un dato Stato nella politica africana verrà sempre più deciso non dalla forza politica del programma governativo, ma dall'effettivo potenziale economico del paese e dalle sue possibilità finanziarie.
Infine, la cosa più importante: nell'Africa odierna tutto viene deciso dall'economia. L'Africa è un continente economicamente povero, privo di personale specializzato, di case, di strade e di lavoro. L'Africa vuole finalmente mangiare a sazietà, calzare scarpe e imparare a leggere e a scrivere e per tutto ciò le occorrono miliardi di dollari. Il problema dell'Africa non è di trovare il denaro per il suo futuro sviluppo, ma quello di trovare i soldi per cominciare, e si tratta di due scale di bisogni completamente diverse. L'Occidente attinge redditi dallo sfruttamento dell'Africa, ma nello stesso tempo continua a essere il suo principale finanziatore. Il fatto è che la rivoluzione africana non è riuscita a interrompere il circolo vizioso: Africa Occidente Africa. L'incompletezza della rivoluzione africana sta nel fatto di non aver creato per l'Africa una vera e propria possibilità di scelta. La sempre pulsante circolazione di capitale (spesso non visibile a occhio nudo in quanto nascosta dai simboli del potere e da slogan infuocati) determina la forza del neocolonialismo e ne ricorda brutalmente la presenza sia nei momenti più cruciali per l'Africa, sia nella sua vita politica di tutti i giorni. L'Africa nutre vive simpatie politiche e personali nei confronti di coloro che la difendono e le augurano successo, ma questo la rinchiude nel giro vizioso del colonialismo e continuerà a intralciarle i movimenti fino a quando le tragiche esperienze, l'affermazione della sua dignità e la speranza socialista non esprimeranno delle forze che le permettano di reggersi in piedi da sola.