A proposito della rivoluzione africana
L'Africa entra nell'arena internazionale come forza politica attiva a partire dagli anni cinquanta. Per il Terzo Mondo (Asia, Africa, America Latina) questo periodo segna una svolta cruciale. Vale a dire che subito dopo la Seconda guerra mondiale il centro del movimento di liberazione nazionale delle popolazioni coloniali si trova in Asia. La lotta anticolonialista e antimperialista su questo continente porta all'indipendenza la maggior parte dei paesi asiatici (tra cui l'India nel 1947 e l'Indonesia nel 1949, anno in cui nasce la Repubblica popolare cinese). In questi anni il continente asiatico si libera dalla schiavitù coloniale.
L'evento culminante di questo periodo è la conferenza dei paesi dell'Africa e dell'Asia a Bandung (aprile 1955). Vi prendono parte quindici Stati asiatici, sette Stati mediorientali e sei Stati africani. L'immenso mondo afro-asiatico si incontra per la prima volta in una sala per formulare il proprio programma e definire le proprie aspirazioni.
All'epoca si tendeva a vedere nelle deliberazioni di Bandung un unico tema conduttore, una sola corrente, un solo aspetto: quello anticolonialista e antimperialista. Ma è un modo troppo ristretto e semplicistico di giudicare la conferenza: nelle sue concezioni, accanto al tema ideologico dell' anticolonialismo si riscontrano anche un altro tema e un'altra corrente, e cioè la teoria della diversità degli interessi del Terzo Mondo, l'idea dello specifico e autonomo ruolo che il Terzo Mondo è destinato a svolgere nell'arena internazionale, la convinzione della fondamentale comunione di aspirazioni del Terzo Mondo e della sua unità.
Bandung apparve come l'esempio di un positivo neutralismo politico. Malgrado una serie di coincidenze, tra la concezione di Bandung e il neutralismo politico intercorrono alcune importanti differenze. Il neutralismo è una formula politica priva di sfumature emotive, mentre la concezione di Bandung è caratterizzata da una forte intonazione razzista.
Bandung è una sorta di club chiuso, il club degli Stati asiatici e africani. Il neutralismo contiene un aspetto di difesa e di passività, l'ideologia di Bandung è aggressiva e dinamica. Lo scrittore americano di colore Richard Wright è l'autore di un eccellente libro, intitolato The Color Curtain, in cui sostiene che Bandung è stata il più grande evento mondiale dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Bandung segna la nascita del Terzo Mondo, il mondo dei popoli di colore.
Bandung sta a cavallo tra due epoche del mondo di colore: 1) in Asia finisce la rivoluzione di liberazione nazionale anticolonialista; 2) il centro della rivoluzione di liberazione nazionale anticolonialista si sposta in Africa.
Nel 1956, un anno dopo la conferenza di Bandung, ottengono l'indipendenza i primi tre Stati dell'Africa coloniale: il Sudan, il Marocco e la Tunisia. La conquista dell'indipendenza da parte di questi tre paesi dà inizio a un periodo di burrascose trasformazioni sul continente, definito come la rivoluzione africana.
Nella rivoluzione africana si possono distinguere tre tappe.
Nella prima il principale compito del movimento di liberazione nazionale è il rovesciamento del colonialismo e la conquista dell'indipendenza statale. Il processo ha inizio nel 1956 con la conquista, dell'indipendenza da parte del Sudan, del Marocco e della Tunisia. In questa tappa la lotta politica si appunta contro le potenze colonialiste straniere, contro il sistema di sfruttamento e di discriminazione imposto all'Africa dai paesi europei. La rivoluzione africana è, per così dire, rivolta all'esterno e quindi caratterizzata dall'alto grado di compattezza interna, di unione e di concentrazione in un comune fronte anticolonialista delle varie forze, spesso politicamente e socialmente estranee tra di loro. Lo slogan del momento è: "L'Africa agli africani! ". La strada per arrivarci passa attraverso la realizzazione di un altro slogan, quotidianamente ripetuto da tutta l'Africa: "L'unità degli africani a qualunque costo! ". È la fase in cui la rivoluzione è più dinamica e imponente: l'indipendenza si estende a quasi trenta paesi africani. Questa tappa si conclude con il tragico crollo del movimento di liberazione congolese e l'intervento neocolonialista nel Congo.
La seconda tappa della rivoluzione africana inizia a cavallo tra il 1960 e il 1961. In questo periodo oltre metà degli Stati africani ha già raggiunto l'indipendenza, mentre altri sono prossimi a ottenere il diritto all'autonomia statale nel giro di due o tre anni. A questo punto emerge un nuovo problema: come si configureranno i rapporti tra gli Stati indipendenti del continente? E ancora: quale sarà la linea politica perseguita dai paesi africani in campo internazionale? L'accento principale della rivoluzione africana si sposta dall'esterno (la lotta contro le potenze colonialiste straniere) all'interno, sul continente, sul piano dei rapporti interstatali in seno all'Africa.
Questa tappa ha inizio con la spaccatura dei neoliberati Stati africani in due raggruppamenti politici: il gruppo di Casablanca, comprendente gli Stati neutrali e attivamente anticolonialisti, e il gruppo di Monrovia guidato da Stati dalla tendenza filoccidentale e neocolonialista. Ha inizio una lotta tra la corrente di Casablanca, che porta avanti lo slogan della reale liberazione del continente dall'influenza del colonialismo e dell'imperialismo, e la corrente di Monrovia, improntata a una più o meno dichiarata collaborazione con l'ex madrepatria e al mantenimento di una forma di dipendenza dalle medesime. Contemporaneamente emergono con sempre maggiore evidenza le tendenze, dei singoli Stati e leader africani, a liquidare entrambi i gruppi e a raggiungere l'unificazione africana nel quadro di una comune organizzazione pancontinentale.
Gli sforzi per rafforzare l'unità africana portano alla convocazione in Africa della prima conferenza al vertice dei paesi indipendenti africani (Addis Abeba, maggio 1963).
Quello stesso 1963 segna l'inizio della terza tappa della rivoluzione africana, caratterizzata dal fatto che l'interesse principale della rivoluzione si sposta sulla problematica sociale all'interno dei vari paesi africani. Nella sua prima fase la rivoluzione si è mossa con un fronte socialmente unito, gli slogan di liberazione raggruppavano i diversi strati e i diversi gruppi sociali in un'unica schiera e intorno a un unico scopo.
Ma in quell'Africa così povera e arretrata l'uomo della strada associava all'idea di libertà l'aspettativa di un sensibile e rapido miglioramento del proprio tenore di vita. La rivoluzione anticolonialista ha quindi dato inizio a un'altra rivoluzione, rappresentata dalle crescenti speranze delle masse, da sempre sottonutrite e respinte nei bassifondi dell'esistenza umana: la speranza del diritto al lavoro, a un più alto tenore di vita, all'istruzione e all'avanzamento sociale. Purtroppo l'indipendenza ha portato questo miglioramento soltanto a un ristretto numero di élite del potere, della burocrazia e della (peraltro poco numerosa) borghesia.
In questo quadro d'insieme, in Africa la delusione e lo scontento sociale assumono progressivamente le forme di una violenta e diffusa opposizione ai governi e ai partiti al potere.
Il movimento, quasi sempre politicamente immaturo e incapace di formulare un programma ben definito, degenera spesso in rivolte caotiche oppure viene sfruttato per manovre in seno alle élite governative; ma, nonostante i suoi limiti e le sue debolezze, rappresenta un elemento che per l'Africa è decisamente nuovo.
Nel 1963 in molti Stati indipendenti del continente si arriva a rovesciamenti politici, insurrezioni, rivolte, scioperi e manifestazioni di piazza che provocano crisi e cambiamenti di governo in paesi quali íl Togo, il Dahomey e il Congo-Brazzaville.
Nel gennaio 1964 scoppia la prima rivoluzione africana di impostazione socialista (Zanzibar), dopo di che si arriva a insurrezioni militari e manifestazioni di piazza negli Stati dell'Africa orientale. Nell'estate dello stesso anno scoppiano sanguinosi disordini nel Malawi, mentre sul territorio del Congo è in atto la guerriglia di Lumumba. In questa tappa della rivoluzione africana la lotta si svolge quindi in seno alle società africane, tra i poveri e i ricchi, tra i governanti e i governati.
La suddivisione della rivoluzione in tre tappe va intesa in senso puramente orientativo. In realtà nessuna di esse è stata portata a termine: in Africa continua a esistere il fronte della lotta anticolonialista, nei rapporti interstatali continuano a scontrarsi le correnti di Casablanca e di Monrovia, i conflitti e le lotte sociali già in atto continuano come prima mentre ne emergono sempre di nuovi.
L'Africa è un grande e dinamico coacervo di differenti e contrastanti forze, correnti, ideologie, conflitti e situazioni politiche. In Africa niente è ancora pronto, stabile e definito: tutto è fluido, non cristallizzato, embrionale. L'Africa sta appena iniziando a esistere, ha appena cominciato a prendere forma.
Dato che la rivoluzione africana si era sviluppata subito dopo quella asiatica; dato che entrambe le rivoluzioni avevano un carattere anticolonialista e proclamavano slogan antimperialisti; dato che Asia e Africa avevano un comune passato colonialista e al tempo stesso appartenevano a un mondo economico arretrato, l'opinione pubblica mondiale pensò fin dall'inizio che essa fosse una pura e semplice continuazione della rivoluzione asiatica. Le due rivoluzioni erano ritenute identiche nei loro contenuti e principi programmatici.
Per questo stesso motivo, in un primo tempo la rivoluzione africana provocò in Occidente un certo panico nonché la frettolosa mobilitazione delle forze imperialiste, come ad esempio in Congo. Sempre per questo motivo, e sempre nello stesso periodo, la rivoluzione africana incontrò la piena approvazione dei paesi socialisti, convinti che, come già era avvenuto in alcuni paesi dell'Asia, si sarebbe rapidamente orientata verso conclusioni di tipo socialista.
E invece tra la rivoluzione africana e quella asiatica esistono differenze fondamentali: 1. Nella rivoluzione asiatica la principale forza sociale è rappresentata dalle masse contadine. Nei singoli paesi dell'Asia, alla rivoluzione anticolonialista hanno preso parte milioni, decine di milioni di contadini. Nella rivoluzione africana (eccettuata l'Algeria) i contadini svolgono un ruolo secondario, mentre la forza principale è l'elemento urbano (il che, nel caso dell'Africa, non indica affatto il proletariato industriale).
2. La partecipazione dei contadini alla rivoluzione asiatica fa sì che, accanto alla componente libertaria, questa rivoluzione abbia anche caratteristiche di rivolta sociale: la questione della terra vi svolge un ruolo fondamentale. La rivoluzione africana ha in linea di massima un carattere esclusivamente libertario, mentre il suo programma sociale è vago, nebuloso, o addirittura inesistente.
3. L'accentuato radicalismo della rivoluzione asiatica si manifesta tra l'altro nel fatto che in molti paesi essa assume le forme della lotta armata, della guerriglia, dell'insurrezione.
La rivoluzione africana (eccettuata l'Algeria e, in parte, l'Angola) ha un carattere pacifico. Nella rivoluzione africana si è realizzato l'ideale di Gandhi della non violenza, della lotta portata avanti tramite pressioni e negoziati. La rivoluzione africana è più opportunista e conciliante (lo so che definire "conciliante" una rivoluzione sembra paradossale, tuttavia rende bene il senso degli eventi africani).
4. In confronto alla rivoluzione asiatica quella africana è un fenomeno di portata molto minore. L'ambito della rivoluzione africana, le sue dimensioni sociali, le sue aspirazioni programmatiche e la sua dinamica sono nettamente inferiori a quelle della rivoluzione asiatica.
Le debolezze della rivoluzione africana derivano dalla generale arretratezza e dal deficit economico e sociale dell'Africa.
L'Africa è un continente contadino. L'80-90% della popolazione vive nelle campagne praticando l'agricoltura o l'allevamento.
Queste le debolezze dell'economia agricola africana.
Il sistema delle colture estensive. Il contadino brucia un pezzo di macchia e, senza neanche dissodarlo e ripulirlo dalle radici, pianta direttamente nella terra bruciata la manioca o il granoturco (una metà dell'Africa si nutre di manioca, l'altra metà di granoturco). Dopo tre o quattro anni la terra mai concimata né zappata diventa sterile. Il contadino deve abbandonarla e bruciare un nuovo pezzo di macchia.
Quando si sorvola l'Africa in aereo nella stagione secca l'intero continente appare costellato di boschi o di steppe in fiamme: sono i contadini che bruciano gli appezzamenti per la prossima coltura. Il sistema continua a essere reso possibile dal fatto che l'Africa è un continente in gran parte deserto: in molte zone il tasso di popolazione ammonta a uno o due abitanti per chilometro quadrato. L'Africa ha una superficie novantotto volte più vasta di quella della Polonia, ma la sua popolazione è solo otto volte superiore agli abitanti del nostro paese. Il sistema della coltura estensiva è il più antico e il meno redditizio e tuttavia in Africa si continua a praticarlo su vasta scala. Esercita un effetto demoralizzante sui contadini, che non sono costretti a migliorare le tecniche colturali: l'economia estensiva assicura il minimo necessario alla sopravvivenza senza bisogno di introdurre innovazioni. È ormai opinione comune che la possibilità di praticare all'infinito la coltura estensiva sia la causa della cronica arretratezza degli agricoltori africani che, nel loro insieme, continuano a vegetare a livello di una comunità primitiva. Numerosi economisti ritengono che la prima condizione per un qualsivoglia progresso in Africa sia il passaggio dalla coltura estensiva a quella intensiva il che, ovviamente, richiederebbe una radicale rivoluzione economico-sociale.
La separazione tra l'agricoltura e l'allevamento. In Africa si è in larga misura conservata la divisione in tribù agricole e tribù dedite all'allevamento. Nell'Africa orientale, per esempio, i masai sono allevatori di bestiame e pastori, mentre i luo sono agricoltori. Questa differenziazione divide in due tutta l'Africa. I pastori non coltivano la terra perché la giudicano un'occupazione indegna e gli agricoltori considerano i pastori gente disgustosa che puzza di letame. Il risultato è che ci rimettono sia l'agricoltura, in cui non viene adoperato il concime animale, sia l'allevamento, poiché nei periodi di siccità il bestiame rimane senza riserve di foraggi. Di conseguenza sia l'agricoltura che l'allevamento rimangono a un livello deplorevole, capace a malapena di assicurare allo strato contadino africano il minimo necessario alla sopravvivenza.
Il basso rendimento dell'agricoltura e dell'allevamento fanno sì che la campagna rimanga per la maggior parte limitata al ristretto ambito dell'economia naturale. In alcuni paesi (Ghana, Nigeria, Uganda) esistono gruppi di contadini-coltivatori africani che introducono sul mercato prodotti quali cacao, caffè, cotone e noccioline, ma si tratta di eccezioni. Ora come ora, la campagna africana non è in grado di produrre per il mercato e il contadino non è in grado di accumulare: per lui i soldi sono un valore raro e per lo più irraggiungibile. Recandosi al mercato, la contadina del Tanganica tiene il suo unico scellino stretto tra i denti: per lei quello scellino (del reale valore di circa quattro zloty) rappresenta un tale patrimonio che non sa dove altro tenerlo per non perderlo. Le inchieste condotte nel 1963 nel distretto di Morogoro (Tanganica) hanno rivelato che il reddito mensile pro capite di un abitante delle campagne non raggiunge neanche i due scellini (meno di otto zloty) al mese. Ne deriva anche che un paese medio africano ha un mercato interno ridotto, senza domanda, capace di far girare solo una minima quantità di merci. Nella maggior parte dei paesi africani i contatti della popolazione con il mercato sono generalmente molto sporadici.
Lo sparpagliamento dei villaggi. Il basso grado di popolamento dell'Africa e il sistema della coltura estensiva sono la causa dell'estremo sparpagliamento territoriale dei villaggi africani. Sono villaggi tagliati fuori da ogni forma di potere governativo, da ogni forma di amministrazione, da ogni informazione proveniente dal mondo. Il villaggio vive chiuso nella sua apatica, da secoli immutata, esistenza.
È arduo trovare uno slogan che possa invogliare alla rivoluzione il contadino africano. Negli altri continenti di solito gli slogan fanno leva sulla promessa della riforma agraria, sul problema di come soddisfare il bisogno di terra dei contadini.
In Africa il problema della riforma agraria si riscontra su scala molto ridotta. In primo luogo, l'Africa tradizionale ignora la proprietà privata: la terra appartiene alla tribù e il contadino africano sfrutta il terreno assegnatogli dalla tribù, la quale può riprenderselo in qualunque momento, a parte il fatto che quella terra può anche essere occupata da un'altra tribù. In secondo luogo, su questo continente il problema non è tanto la mancanza di terra, quanto quella di acqua. La terra in sé è il meno: il problema è che la terra va annaffiata e che i sistemi di irrigazione continuano a rappresentare una rarità.
Il contadino africano rimane quindi ai margini della rivoluzione.
Ha nei suoi confronti un atteggiamento passivo: può interessarsene, ma resta passivo. A parte i fellah algerini, in nove anni di rivoluzione africana non si registra un solo moto contadino su vasta scala. Quest'assenza della fascia contadina come forza sociale nella rivoluzione di un paese essenzialmente contadino costituisce appunto la fondamentale debolezza della rivoluzione stessa. E qui sta appunto il principale motivo della limitatezza sociale e della sostanziale fiacchezza politica della rivoluzione africana.
Priva di un attivo appoggio da parte degli strati contadini, la rivoluzione trova la sua principale base nelle città.
Ma che cos'è una città africana? I dati demografici dell'ONU ci dicono che l'Africa è il continente in cui, rispetto all'insieme della popolazione, la percentuale urbanizzata è in assoluto la più bassa del mondo. A sud del Sahara, e quindi su una superficie due volte più grande dell'Europa, Johannesburg è l'unica città con almeno un milione di abitanti (circa un milione nel 1962). In Europa le città con oltre un milione di abitanti sono ventotto. Sulla medesima superficie africana solo quattro città (Durban, Città del Capo, Ibadan e Leopoldville) superano il mezzo milione e solo otto ne hanno oltre trecentomila. Molti Stati africani non hanno città che superino i duecento o anche i centomila abitanti.
Nella maggior parte degli Stati africani solo una piccola percentuale di abitanti risiede nelle città. In Tanganica, il 3 %; in Zambia, il 4 %; nel Niger, i12 %, e così via. Negli anni del dopoguerra l'afflusso verso le città è enormemente aumentato, ma a sud del Sahara (a parte la Repubblica sudafricana) non esiste tuttora un paese dove la popolazione urbana superi il 20-30% di quella totale.
L'Africa si differenzia dall'Europa non solo per il minor numero di città e per le loro piccole dimensioni, ma anche per il fatto che le città africane sono molto più giovani: nate nel corso degli ultimi decenni, per la maggior parte hanno cominciato a svilupparsi dopo la Seconda guerra mondiale.
La differenza fondamentale consiste tuttavia nel fatto che le città europee sono sorte e si sono sviluppate per effetto dell'incremento industriale e commerciale. La città europea è innanzitutto un'unità produttiva, un concentrato di industrie, un importante nodo economico e di comunicazione. Le città africane invece sono sorte prevalentemente nel periodo colonialista e in seguito allo sviluppo della burocrazia coloniale, per cui la città africana è in primo luogo un'unità amministrativa.
La città europea si sviluppa intorno alla piazza del mercato, intorno alle manifatture, intorno alle fabbriche; la città africana si sviluppa intorno alla sede del governatore e al posto di polizia colonialista.
Gli effetti di questa genesi burocratica delle città africane arrivano lontano e si rispecchiano nella loro struttura sociale.
Il principale elemento organizzativo o, per meglio dire, disorganizzante delle città africane è la discriminazione razziale.
Il principio della separazione, della diversità e dell'ostilità tra razze si riscontra ovunque: nella distribuzione dei quartieri, nell'architettura degli edifici, nelle usanze e nell'atmosfera quotidiana.
La città africana è in realtà un insieme di due o tre cittadine che, secondo i propri ritmi e senza contatti tra loro, vivono le une contro le altre.
Prendiamo ora in esame gli abitanti africani delle città.
Sono loro la principale forza sociale della rivoluzione, è dai loro quartieri di argilla che partono gli slogan di liberazione e di indipendenza.
L'elemento africano urbano rappresenta la fascia sociale politicamente più sviluppata. Al contrario che nei villaggi analfabeti, le fasce sociali superiori delle città hanno sempre alle spalle un corso di studi, talvolta il liceo, più raramente l'università. Qui la gente legge il giornale, ascolta la radio, frequenta i comizi politici e ciò costituisce la sua forza, la sua superiorità rispetto alla massa tribale dei villaggi. Quasi tutte queste persone vivono di un lavoro retribuito e al mercato si riforniscono di merci europee. É una società che persegue la via dell'europeizzazione e che segue i modelli di vita europei.
La sua principale debolezza consiste nella mancanza di una tradizione urbana: i suoi abitanti vivono in città da una, due, al massimo da tre generazioni. Il secondo elemento di debolezza è rappresentato dalle divisioni tribali, linguistiche e religiose.
La gente proviene da diverse tribù (fattore che in Africa ha un ruolo essenziale in tutti i conflitti e attriti politici), professa le fedi di diverse Chiese missionarie (altra fonte di scontri) e, infine, parla lingue diverse. B. Gussman, nel suo Out in the Mid-Day Sun, parlando delle città dell'Africa centrale cita come esempio certe strade del quartiere africano di Salisbury i cui abitanti provengono da ottantaquattro tribù diverse, parlano decine di lingue incomprensibili le une alle altre e professano tredici religioni diverse.
E questo in una sola strada!
Ogni tentativo di organizzare in modo unitario un simile guazzabuglio di elementi etnici, linguistici e religiosi (spesso tra loro ostili) crea enormi difficoltà.
Questi i vari strati della popolazione africana.
1. Gli impiegati. È lo strato che in Africa gode del maggior prestigio sociale. Allo stesso modo in cui in Europa un giovane cerca di diventare ingegnere, medico, artista, così un giovane africano sogna di diventare impiegato. Anche l'impiegato di più basso livello rappresenta una figura di spicco.
Quest'alta posizione dello stato impiegatizio deriva dalla mobilità sociale imposta agli africani dal sistema colonialista. Le colonie africane sono paesi economicamente arretrati, con una minima o addirittura trascurabile partecipazione dell'industria all'economia nazionale. I pochi impianti industriali appartenevano (e per la maggior parte continuano ad appartenere) ai bianchi. Il loro personale tecnico veniva reclutato esclusivamente al di fuori dell'Africa e gli africani non potevano fare carriera in quel campo. Nella società africana mancava (e continua a mancare) una classe di tecnici professionisti.
L'unica possibilità di avanzamento passava attraverso l'amministrazione e il lavoro negli uffici, e l'africano continua a essere molto attaccato a questo modello di carriera. Perfino oggi chi ha frequentato un politecnico europeo cercherà, al suo ritorno in Africa, di trovare un impiego di alto livello nell'amministrazione: la posizione di impiegato è infatti un sinonimo di prestigio. Ma oltre al prestigio entrano in gioco altri due elementi. Il primo sono i guadagni elevati: la classe burocratica è la categoria meglio pagata di tutta l'Africa. Ciò deriva dal fatto che un amministratore colonialista bianco riceveva uno stipendio alto, molto superiore allo stipendio medio di un impiegato europeo: nel momento di subentrare al suo predecessore bianco, l'africano ne ereditava anche lo stipendio, la villa e i privilegi sociali. Il secondo elemento era la facilità di una rapida promozione. Dato che il lavoro impiegatizio non richiedeva una particolare qualifica e che sul piano amministrativo la presenza dell'uomo bianco non appariva indispensabile, gli africani sono subentrati ai bianchi soprattutto negli impieghi amministrativi. La parte migliore dell'intellighenzia africana è stata assorbita dalla burocrazia.
È stato appunto quest'elemento impiegatizio e burocratico a svolgere un ruolo di spicco nella rivoluzione africana.
Erano uomini capaci di leggere, di scrivere un volantino, di fare un discorso. Furono loro a organizzare i comizi, le manifestazioni, i partiti politici nei quali occupavano le cariche superiori in attesa di prendere il potere. Nel loro immaginario, l'ideale di libertà era sempre venato da una sfumatura burocratico-impiegatizia: la loro idea di indipendenza si configurava come appropriazione degli uffici, dell'apparato amministrativo e dei ministeri e qui sta forse il motivo dell'innegabile insufficienza della rivoluzione africana. I suoi dirigenti, legati agli impieghi amministrativi, non capivano, non vedevano il bisogno di formulare un programma di riforme economiche e di trasformazioni sociali capace di scuotere e di attirare le masse. Anzi, di quelle masse i funzionari avevano addirittura paura. Già quattro anni prima dell'indipendenza Nyerere (oggi presidente del Tanganica), ancora in veste di capo del partito, aveva approvato delle leggi il cui scopo era impedire che il partito si trasformasse in partito di massa e che le masse entrassero a far parte del movimento di liberazione.
Il principale metodo di lotta dei funzionari consisteva nel condurre trattative e mercanteggiamenti di gabinetto per conquistare gradualmente ulteriori concessioni costituzionali in favore della grandezza africana.
La rivoluzione africana è improntata da cima a fondo allo spirito della legalità e del compromesso.
2. La piccola borghesia. Piccola, perché a sud del Sahara in Africa non esiste una grande borghesia (a parte qualche singolo individuo rientrante nella categoria). Questa piccola borghesia è uno strato numericamente poco consistente, economicamente debole e politicamente non autonomo. Non possedendo un proprio partito politico, si allea con i burocrati rimanendo tuttavia, sia per numero che per significato, in una posizione di secondo piano. È una borghesia non industriale, legata al commercio e ai servizi: proprietari di negozi, piccoli alberghi, bar, imprese di trasporto. I governi degli Stati africani indipendenti attuano nei suoi confronti una politica di sostegno mediante prestiti, crediti e licenze: una politica patriottarda il cui scopo è che il commercio coloniale, i servizi e, in futuro, anche l'industria restino in mano alla borghesia africana.
3. Gli operai. La posizione e il carattere del proletariato africano sono molto particolari per via della specifica struttura economica colonialista. Nei paesi africani gli operai delle industrie rappresentano lo strato numericamente più ridotto.
A causa della mancanza della grande e media industria, circa l'80% di essi lavora in piccole aziende che impiegano meno di cinquanta lavoratori. Ne deriva un estremo sparpagliamento di questa fascia sociale e la situazione dell'operaio nell'industria ricorda spesso la situazione della forza lavoro impiegata nella manifattura protocapitalista. In Africa esistono ovviamente anche bacini industriali come il Copperbelt in Zambia o il Witwaters Rand nel Sudafrica, ma si tratta di nicchie isolate.
La seconda caratteristica di questo proletariato (dopo la sua scarsa quantità numerica) è la sua natura migratoria. Per la maggior parte si compone di contadini-operai: gente che periodicamente si reca in città, vi lavora una stagione per guadagnare una certa somma e poi ritorna in campagna. Le grandi imprese minerarie che hanno cercato di assicurarsi maestranze stabili costruendo quartieri abitativi per gli operai africani possiedono ormai una buona percentuale di lavoratori fissi; tuttavia si tratta sempre di situazioni eccezionali e la maggior parte degli operai continua a vivere tra città e campagna. I contadini-operai girano per tutta l'Africa, lavorano in vari paesi e il sistema con cui vengono reclutati nelle miniere del Sudafrica o nelle piantagioni rhodesiane ricorda il mercato degli schiavi. Pur di guadagnare qualche dollaro e tornarsene alla loro tribù accettano le cattive condizioni abitative e lo sfruttamento disumano da parte dei sorveglianti.
Sono braccianti stagionali. Accanto a loro, tuttavia, nei centri urbani comincia a formarsi una società di lavoratori legati stabilmente alla città, alla fabbrica, al lavoro del porto. Uno strato destinato a svilupparsi di pari passo con la crescita dell'economia.
La terza caratteristica del proletariato africano è legata alla questione della posizione retributiva di un operaio in quei paesi. Poiché nelle aziende africane la struttura delle paghe era, ed è, condizionata (anche nei paesi dell'Africa indipendente) dalla discriminazione razziale, l'operaio africano guadagna dieci o venti volte meno dell'operaio europeo; per cui, in Africa, in confronto alla paga di un operaio bianco quella dell'africano nero è una paga da fame. Resta comunque íl fatto che quell'operaio nero guadagna comunque qualcosa, il che lo pone in una posizione privilegiata rispetto al 90% degli abitanti di quel paese, che non guadagnano nulla. Nella cronica miseria del mondo africano quello che conta non è il fatto che un operaio abbia pochi soldi, ma che li abbia. Per cui certo, suona come un paradosso, ma è un dato di fatto creato dal sistema colonialista che deforma ogni cosa questo strato di lavoratori mal pagati e professionalmente discriminati si trova, nonostante tutto, in una situazione "borghese" rispetto al 90% dei suoi conterranei che vivono nell'ambito dell'economia naturale.
La ragione per cui in Africa è difficile indurre un operaio all'attività politica è che il suo lavoro, per quanto mal pagato, se lo tiene ben stretto. Per questa ragione, per esempio, alla secessione del Katanga contro Ciombe partecipò tutta la popolazione tranne il proletariato africano: agli operai fu detto che Ciombe era appoggiato dalle compagnie minerarie con le quali loro non avrebbero voluto certo mettersi in urto per non perdere il lavoro, l'unico ottenibile in Africa.
4. I lavoratori del settore servizi. Rappresentano il gruppo più numeroso tra gli africani che svolgono un lavoro retribuito: domestici, fattorini, aiutanti nei negozi, bidelli, facchini ecc. Sono l'elemento più fluido e sparpagliato, il meno organizzato, meno qualificato e, di solito, anche analfabeta. Mal pagati e con un lavoro non garantito, vivono spesso al limite dell'emarginazione e della malavita.
In questi paesi il sistema dei servizi è sviluppato su grande scala, favorito com'è dal basso costo della forza lavoro.
5. I disoccupati. Oltre alla latente e cronica disoccupazione della campagna africana, che ammonta ad almeno il 50% dell'intera forza lavoro maschile, nelle città esiste un alto numero di disoccupati. Tanto per farsi un'idea delle dimensioni del problema: in Kenya la popolazione delle città ammonta a circa un milione di abitanti, di cui circa trecentomila disoccupati schedati. È gente che vegeta al più infimo livello esistenziale, sopravvivendo grazie a qualche cugino che lavora e che divide con loro i propri guadagni: il codice tribale impone infatti, a chiunque abbia qualcosa, di dividerlo con chi non ha niente. Nei paesi che hanno ottenuto l'indipendenza si è registrato un aumento della disoccupazione nei principali centri urbani. Innanzitutto perché, nella speranza che l'indipendenza portasse il miracolo economico, il boom edilizio e nuovi posti di lavoro, si è verificata una nuova ondata migratoria dalle campagne verso le città. In secondo luogo perché, in seguito alla partenza di molti bianchi, numerose aziende e istituzioni colonialiste hanno chiuso i battenti e i neri sono finiti per strada. A Nairobi più o meno ogni due settimane si svolge una dimostrazione di disoccupati che chiedono lavoro: purtroppo con scarsi risultati.
Questa, per sommi capi, la struttura sociale delle città africane.
La città è stata la base sociale della rivoluzione africana.
Gli attuali rappresentanti delle élite al governo nei paesi africani sono principalmente persone nate nei villaggi tribali ma cresciute in città e a essa legate fin dalla prima giovinezza. Il presidente dello Zambia, Kaunda, faceva il maestro in una scuola di missionari; il ministro degli Interni del Kenya, Odinga, era proprietario di un piccolo negozio; il premier del Congo, Ciombe, dirigeva un alberghetto a Elisabethville; il ministro della Giustizia del Kenya, Mboya, era ispettore dell'Ufficio di igiene di Nairobi; l'ex ministro degli Esteri del Malawi, Chiure, era un impiegato comunale; l'ex ministro dell'Economia dell'Uganda, Nekyon, lavorava alla posta, e così via.
Alcuni anni fa queste persone, giunte alla guida dei partiti di liberazione, lanciarono lo slogan dell'indipendenza.
Questo suscitò inizialmente reazioni ostili e i colonialisti risposero con repressioni, arresti, deportazioni. Ma nelle colonie il fermento continuava e l'opinione mondiale progressista, soprattutto quella dei paesi socialisti, era solidale con le aspirazioni indipendentiste dell'Africa. Mentre in passato íl fatto di possedere delle colonie aumentava il prestigio di una potenza, adesso la screditava. Il detto: "Il colonialismo è una vergogna" cominciò a diventare popolare. Le considerazioni di prestigio (nel senso che la perdita delle colonie avrebbe indebolito il prestigio di una potenza) decaddero, mentre la concessione dell'indipendenza a una delle proprie colonie cominciò a essere sbandierata dalla stampa occidentale come esempio di democrazia e di amichevoli disposizioni da parte di Londra e Parigi, dove prendono gradualmente il sopravvento i fautori di una tattica duttile nei confronti del movimento di liberazione africano. Sono i cosiddetti "moderni", esponenti di una nuova tendenza detta neocolonialismo e saranno loro a incaricarsi di risolvere con successo la partita con íl movimento stesso. Il neocolonialismo ha principalmente due scopi: 1. Salvare gli interessi economici della madrepatria nelle ex colonie e continuare a mantenere queste ultime in uno stato di dipendenza dalla madrepatria stessa.
2. Assicurarsi che l'ex colonia resti un'alleata politica della sua ex madrepatria.
I neocolonialisti sanno perfettamente che il vecchio assetto coloniale non può più essere mantenuto e che occorrono nuovi metodi e nuovi approcci. La novità sta nel conservare sotto la forma esterna dell'indipendenza degli Stati africani la sostanza del vecchio colonialismo: il mantenimento del territorio d'oltremare in uno stato di dipendenza politica ed economica dalla madrepatria.
Due circostanze favoriscono il neocolonialismo nel raggiungere tale obiettivo.
La prima è che il movimento di liberazione africano (nella sùa parte attiva e organizzata) non è, socialmente, un movimento di massa per il fatto che non vi prende parte attiva lo stato contadino tribale, settore fondamentale della società africana.
La seconda è che la gente che vi partecipa manca di esperienza politica. Si tratta per lo più di giovani all'inizio del loro tirocinio politico. Nelle rivoluzioni armate si sa con chiarezza chi sia il nemico e dove stia il fronte, ma in Africa la conquista dell'indipendenza segue la via dello sviluppo costituzionale, ossia la via dei battibecchi parlamentari, delle macchinazioni politiche, del compromesso: tutte cose che richiedono proprio quell'esperienza di cui quei giovani sono privi.
Nella partita con il movimento di liberazione i colonialisti impiegano una duplice tattica.
Giocano soprattutto sul tempo, rinviando la decisione circa la data dell'indipendenza con la scusa di varie difficoltà costituzionali e introducendo una serie di passaggi intermedi prima del riconoscimento della medesima (partecipazione al governo: un quarto di indipendenza; autonomia interna: metà indipendenza ecc.).
Cercano di trovare alleati dall'altra parte (quella africana) della barricata. Cercano di creare nel movimento di liberazione una quinta colonna neocolonialista.
I colonialisti non concedono l'indipendenza a una delle loro colonie africane finché non sono certi che il primo governo di questi paesi sarà composto dei loro uomini, vale a dire di africani politicamente leali verso la madrepatria e schierati in difesa dei suoi interessi economici all'interno del paese liberato. Nello scegliere e imporre queste persone i colonialisti commettono talvolta degli errori, ma si tratta comunque di un ferreo principio della politica di Londra e Parigi nei confronti dell'Africa.
Il metodo più spesso impiegato dall'Occidente per conquistare i rappresentanti delle cerchie direttive africane è la corruzione. La corruzione è la piaga più generalizzata e diffusa della vita politica africana. Non si tratta ovviamente di un fenomeno esclusivamente africano: la corruzione dilaga in tutte le società povere, ma in Africa salta maggiormente agli occhi per via dell'inaudito contrasto tra il dispendioso tenore di vita dell'élite governativa e la desolante miseria delle masse.
"Colpisce il fatto," osserva giustamente l'economista svedese G. Myrdal nel suo libro An International Economy a proposito del problema della corruzione, "che più un paese è povero, maggiore è il fasto di cui si circonda la sua élite e maggiore l'abisso tra la condizione dei ricchi e quella dei poveri: praticamente si tratta quasi di una legge economica." La particolare predisposizione delle élite governative africane alla corruzione trova la sua spiegazione in una serie di ragioni obiettive.
L'insufficiente consapevolezza politica della gente mette queste persone al riparo dal giudizio dell'opinione pubblica.
I membri delle élite governative africane, educati in scuole e università borghesi, sono sempre stati a contatto con il mondo della borghesia colonialista, che ha imposto loro il proprio standard, per cui conoscono un solo modello sociale: quello borghese del fare quattrini.
Ma il fatto che i ministri accumulino ricchezze fa venire l'acquolina in bocca all'apparato subalterno, anch'esso desideroso di arricchirsi: per cui dai modesti bilanci degli Stati africani vengono devolute grosse somme per gli esorbitanti stipendi di funzionari, ministri, parlamentari e via dicendo.
Si calcola, per esempio, che lo stipendio mensile di un parlamentare del Gabon sia pari a quello che un contadino del Gabon riesce a guadagnare in trentasei anni.
Alcuni membri dell'élite governativa africana mantengono i contatti con le ambasciate di paesi stranieri dai quali ricevono sovvenzioni. Questi personaggi godono di partecipazioni nelle ditte coloniali private e ricevono sottobanco dei versamenti sui loro conti esteri da monopoli, società e altre istituzioni con interessi in Africa.
In Africa ottengono l'indipendenza: 1951 Libia 1956 Sudan, Marocco, Tunisia 1957 Ghana 1958 Guinea 1960 Camerun, Togo, Mali, Madagascar, Congo-Kinshasa, Somalia, Dahomey, Niger, Alto Volta, Costa d'Avorio, Ciad, Repubblica centrafricana, Congo-Brazzaville, Gabon, Senegal, Nigeria, Mauritania (nell'agosto di quest'anno hanno ottenuto l'indipendenza nove Stati: un nuovo Stato africano ogni tre giorni!)
1961 Sierra Leone, Tanganica 1962 Burundi, Ruanda, Algeria, Uganda 1963 Kenya, Zanzibar 1964 Malawi, Zambia Questo specchietto cronologico illustra il processo avvenuto in Africa negli ultimi anni. Il movimento di liberazione ottiene i suoi primi successi nel 1956, raggiunge il culmine nel 1960, dopo di che comincia lentamente a regredire.
Nel 1963 una rivista africana riporta un dibattito intitolato "Quale indipendenza?". Il titolo rispecchia l'essenza del problema davanti al quale si trova ogni paese africano all'indomani dell'indipendenza.
L'immaturità politica della rivoluzione africana, la sua ristretta base sociale e la sua élite di tipo impiegatizio fanno sì che i partiti di liberazione si limitino a presentare delle richieste generiche. Vogliono l'indipendenza in quanto tale: le uniche richieste concrete sono quelle di un governo africano e delle elezioni generali, entrambe accettate dalla madrepatria.
In breve tempo, tuttavia, l'indipendenza rivela la sua natura apparente. Di apparente c'è soprattutto il potere della parte africana.
Non c'è dubbio che siano nati sia un governo africano che un parlamento africano ammontante, tra ministri, viceministri e deputati, a cento o al massimo duecento persone. Ma già al di sotto dei viceministri la situazione appare completamente diversa: ogni ministro è circondato da una schiera di segretari e consiglieri bianchi, rappresentanti dei servizi coloniali che lavorano per i monopoli o, spesso, per lo spionaggio straniero. Molti presidenti di Stati africani hanno come consiglieri e segretari degli agenti dello spionaggio inglese, francese e americano (il consigliere dell'ex presidente Youlou era un ex agente della Gestapo; il segretario del presidente Nyerere era un agente dello spionaggio britannico, la segretaria di Kenyatta è un'agente dell'FBI, e così via).
I ministri africani, privi di esperienza e spesso completamente incompetenti nei settori dei quali si occupano, sono alla mercè di consiglieri e segretari che fanno parte dell'amministrazione coloniale. Sono loro a decidere con chi commerciare, da quali paesi importare, da chi accettare i crediti e da dove far venire i professionisti, e lo fanno nell'interesse dei monopoli stranieri per i quali lavorano. È così che numerose proposte da parte dei paesi socialisti, notevolmente più vantaggiose per gli Stati africani che non le transazioni con i paesi occidentali, vengono silurate.
L'apparato amministrativo medio è anch'esso composto da bianchi ostili alla nuova realtà e, sotto sotto, sabotatori delle mosse del governo africano. Hanno un unico scopo: dimostrare che i neri non se la sanno cavare. Il punto è di mantenere le posizioni coloniali nei nuovi Stati africani. Oltre ai quadri amministrativi bianchi, a capo della polizia ci sono poliziotti europei e a capo dell'esercito ufficiali europei.
La mancanza di quadri africani è il primo ostacolo alla trasformazione di uno Stato nominalmente indipendente in uno Stato realmente autonomo. Molti paesi africani hanno ottenuto l'indipendenza in un momento in cui solo pochi dei loro cittadini possedevano un'istruzione superiore. Nella maggioranza di quei paesi non esisteva un solo ingegnere o un solo agronomo africano. Un problema di non minore entità era la mancanza di persone in possesso di un'istruzione media.
La Polonia concede ogni anno al Tanganica dieci borse di studio che tuttavia vengono sfruttate solo in parte, visto che in Tanganica (oltre dieci milioni di abitanti) non esiste un numero sufficiente di giovani in possesso di un'istruzione media da avviare agli studi superiori. Nel campo economico le cose si presentano anche peggio. Il governo africano ha ereditato dal colonialismo una situazione in cui l'intera economia si trova praticamente in mani straniere. Le imprese di produzione, le piantagioni, le officine, il commercio appartengono al capitale straniero: un capitale di tipo coloniale, predatorio, brutale, che insegue i massimi profitti e sfrutta l'illegalità colonialista. Nelle colonie il capitale ammassa ricchezze i cui profitti vengono spediti oltre frontiera. Lo Zambia è il secondo produttore mondiale di rame, ma i suoi tre milioni di abitanti sono tra i più poveri del mondo. L'economia del paese resta decisamente fuori dagli influssi e dalle decisioni del governo africano.
La situazione africana comincia attualmente a polarizzarsi come segue.
Al polo sinistro si collocano paesi quali l'Algeria, la RAU e il Mali, uniti dal comune e ambizioso traguardo di costruire un'economia indipendente, imbevuta di elementi socialisti.
Sostengono un grosso sforzo nel campo economico e della pubblica istruzione, realizzano piani di sviluppo economico, impiegano le masse nel processo edilizio, intensificano l'in flusso dello Stato sull'economia, intraprendono esperimenti per risollevare l'agricoltura, sviluppano l'industria e via dicendo.
Rispetto al continente rappresentano comunque una minoranza.
Al polo destro troviamo i paesi decisamente neocolonialisti e reazionari, che continuano a svolgere il ruolo di fedeli vassalli della loro madrepatria europea. In Africa vengono chiamati pocket-countries, "paesi tascabili", con un significato duplice e in entrambi i casi rispondente a verità: in primo luogo perché sono deboli, piccoli ed economicamente non autonomi; in secondo luogo perché finanziariamente dipendenti dalle tasche della loro madrepatria. Tipici paesi "tascabili" sono il Gabon, la Repubblica centrafricana, il Ruanda, l'Alto Volta, il Ciad e altri. Si tratta di un gruppo numeroso, forse il più numeroso di tutti, ma che attualmente comincia a calare. Un classico paese tascabile era, per esempio, il Congo-Brazzaville, che tuttavia sta cominciando a evolversi verso la sinistra. Fino a un mese fa lo era anche Zanzibar, ma poi la rivoluzione ha rovesciato il governo neocolonialista.
Tra questi due estremi si colloca un folto plotone di Stati di cui è impossibile classificare con precisione il profilo politico visto che stanno attraversando una fase di evoluzione, un riassestamento delle forze interne capace di spostarli sia a sinistra che a destra, e che attualmente conducono una politica irta di contraddizioni. Il più delle volte si tratta di Stati, come per esempio il Tanganica, che non appena conquistata l'indipendenza, erano su posizioni neocolonialiste ma che la crescente opposizione di sinistra ha gradualmente spostato in direzioni politiche più autonome. Esistono anche situazioni opposte: in Kenya, per esempio, c'è stata un'evoluzione da sinistra a destra. Ma in Africa le prognosi sono rese difficili dalla totale instabilità della situazione. Il Senegal, per esem pio, dopo aver pencolato verso sinistra, ha fatto marcia indietro e si è buttato decisamente a destra. La politica africana è sempre soggetta a elementi casuali e a continue improvvisazioni.
Tornando alla situazione generale del continente bisogna riconoscere che, ora che la maggior parte dei paesi africani ha conquistato l'indipendenza, l'impeto della lotta di liberazione è notevolmente diminuito. Il colonialismo continua a imperare in Angola, nel Mozambico, in Sudafrica, nella Rhodesia del Sud, nella Guinea portoghese, nel Sahara spagnolo e in alcuni altri territori minori. Complessivamente oltre trenta milioni di africani continuano a vivere nelle colonie. Quelle sopravvissute (soprattutto il Sudafrica e la Rhodesia) rappresentano i paesi più ricchi del continente. Il potenziale economico di queste colonie supera il potenziale economico di tutta l'Africa indipendente. La difficoltà di liberare queste zone sta nel fatto che i regimi coloniali rifiutano qualsiasi compromesso con il movimento di liberazione e rispondono con il terrorismo armato a ogni tentativo di emancipazione da parte africana. Inoltre, nelle colonie il movimento di liberazione è scisso in almeno due partiti, che spesso impiegano più energia nel lottare tra di loro che nel combattere il colonialismo.
I tentativi di far trovare loro una conciliazione, intrapresi da anni dagli altri Stati africani, falliscono regolarmente poiché tra di loro è in gioco la posta suprema: stabilire quale dei due partiti prenderà il potere del paese dopo la liberazione. La formula della coalizione, unica soluzione possibile in casi come questi, non viene neanche presa in considerazione.
Il concetto di coalizione è quanto di più estraneo vi sia alla natura della politica africana. Fino a questo momento non si è riusciti a metterne in piedi una sola.
Oltre a un diminuito impeto della lotta di liberazione si è anche assistito al venir meno della ben più ambiziosa iniziativa dell'unificazione africana. La tuttora esistente Organizzazione dell'unità africana rappresenta il massimo risultato raggiunto in questo campo. Oggi quest'organizzazione svolge soprattutto opera di mediazione: interviene negli attriti di frontiera, cerca di impedire i conflitti capaci di scatenare una crisi panafricana.
Alla base dei conflitti sociali sta il crescente malcontento delle masse per i deludenti risultati portati dall'indipendenza.
Principale fonte di tale insoddisfazione è la cronica stagnazione, la paralisi economica che caratterizza la maggior parte dei nuovi paesi africani e che può essere spiegata con motivi sia oggettivi che soggettivi. I governi africani si sono trovati a capo di paesi con una struttura economica colonialista, vale a dire con un tipo di economia impostato sullo sfruttamento, sull'esportazione di materie prime e di altre ricchezze dalle colonie ai mercati esteri. In questo tipo di sistema crescono soltanto i paesi che possiedono riserve di materie prime facilmente accessibili e, comunque, lo sviluppo riguarda soltanto il settore economico direttamente legato allo sfruttamento delle materie prime per i paesi esteri e non migliora lo stato generale dell'economia nel suo insieme.
Dato che l'indipendenza non ha eliminato il sistema dello sfruttamento coloniale, il quadro economico è rimasto lo stesso: alcune miniere (appartenenti al capitale estero) da cui si estraggono materie prime esportate oltre frontiera, alcune piantagioni europee i cui prodotti vengono anch'essi esportati con conseguenti guadagni dei piantatori bianchi e, tutt'intorno, il mare magno dell'economia naturale, la più infruttuosa e primitiva di tutte: il mondo delle zappe di legno, delle capanne di argilla, di gente che mangia una volta al giorno, della terra desertificata dall'erosione. Il mondo della disoccupazione, dell'apatia, della vita vegetativa, dell'analfabetismo.
Esiste una serie di efficaci sistemi per risollevare questo tipo di economia dal punto morto in cui si trova e alcuni di essi sono stati anche applicati con successo nei paesi socialisti dell'Asia.
Ma per attuarli occorrono un programma e un'iniziativa economica da parte del governo. Tranne qualche eccezione, le élite africane al potere non hanno programmi economici né, peraltro, manifestano interesse per le questioni economiche stesse. L'economia resta una riserva di caccia del capitale estero, fortemente protetta dall'apparato neocolonialista.
Qualsiasi intromissione del governo africano che miri a diminuire i privilegi dei proprietari stranieri in questo campo si trova di fronte a un duro contrattacco dei neocolonialisti: il governo viene informato che i paesi occidentali sospenderanno i prestiti, che le banche bloccheranno i conti, che gli esperti presenteranno le dimissioni, che il capitale estero cesserà di prestare aiuti e così via. Qualsiasi tentativo di mettere a profitto le esperienze socialiste scatena in Occidente vere e proprie tempeste: la stampa accusa il governo di "comunismo", alcuni ministri vengono definiti "agenti di Mosca" e l'apparato delle pressioni, dei ricatti e delle minacce si rimette in moto.
Le élite africane deboli, o semplicemente reazionarie, non affrontano il rischio di una simile lotta (per quanto questa regola abbia anche delle eccezioni) e continuano la politica imposta loro dal neocolonialismo: una politica fondata sulla speranza che l'economia africana possa essere salvata dall'afflusso di capitale straniero.
Il fatto è che il capitale straniero ha poca voglia di affluire in Africa. Oggi l'Africa è un luogo politicamente troppo instabile e insicuro, a parte il fatto che il capitale preferisce investire nelle economie sviluppate piuttosto che in quelle arretrate: investire in un paese economicamente sviluppato costa meno e frutta maggiori guadagni che farlo in un paese arretrato.
Visto quindi che secondo alcuni suoi leader l'Africa può essere risollevata soltanto dal capitale straniero, e visto che questo capitale scarseggia, la stagnazione e l'arretratezza continuano come prima. La cosa provoca un crescente scontento di cui si fa esponente la sinistra africana.
La sinistra africana comincia a prendere forma già nel periodo della lotta di liberazione. A capo di alcuni tra i primi governi africani come la Guinea, il Mali, il Ghana vengono posti attivisti di sinistra. In certi paesi, come il Kenya e la Somalia, i rappresentanti della sinistra conquistano alcuni seggi nel governo e nel parlamento. Il più delle volte, tuttavia, la madrepatria riesce a porre a capo dei nuovi Stati dei neocolonialisti di provata fede. Poco dopo l'indipendenza, nell'atmosfera di crescente delusione creata dal torpore economico e dall'inesistenza dei programmi politici e mentre comincia a formarsi un'opposizione popolare contro i governi neocolonialisti, gli ambienti politici iniziano a differenziarsi, i partiti si scindono in ali di destra e di sinistra e prendono forma due campi politici: la destra conservatrice filoccidentale e la sinistra nazionalista.
Contemporaneamente si mettono in moto i meccanismi che di solito accompagnano questo tipo di situazioni: la lotta interna acuisce le differenze e ognuno dei due campi diventa sempre più consapevole della diversità dei propri interessi.
Nel mondo africano questa lotta assume forme particolarmente complesse per la presenza di specifici fattori quali gli attriti tribali, le ingerenze degli stregoni e via dicendo.
In Africa si sono formati sistemi statali monopartitici. I partiti saliti al potere in questi paesi hanno ottenuto (o stanno efficacemente ottenendo) l'eliminazione dei partiti di opposizione, sia di sinistra che di destra. Oltre il monopartitismo, la caratteristica fondamentale dei sistemi politici africani è quella di concentrare i pieni poteri partitici e statali nelle mani di una sola persona, che è insieme capo del partito e del governo.
Questo capo (se ha fatto parte di coloro che hanno effettivamente lottato per la libertà) diventa un simbolo, un'ispirazione, un dio. La gente canta canzoni in cui si dice che è più alto della più alta montagna africana, le ragazze portano vestiti con la sua immagine stampata sulla stoffa, le sue fotografie vengono accostate alle immagini di Cristo, in suo onore si sgozzano capre, per lui le donne cuciono stuoie e intrecciano cestini. Al capo si dedica un culto della persona al limite dell'adorazione, della magia. Nkruma'h, Nasser, Lumumba: la cultura politica del contadino della macchia africana si riduce a nomi da proclamare come slogan e parole d'ordine.
In cima al vertice gerarchico, il capo decide tutto da solo. E lui a determinare il volto politico del paese: se è progressista, sarà progressista anche il paese. Qui sta la fondamentale differenza tra i sistemi politici europei e africani. In Europa, uno Stato borghese pone alla propria testa un premier borghese; uno Stato socialista vi pone un comunista. In Africa a decidere la tendenza del paese è la persona del leader: se è un fautore del socialismo, il paese si svilupperà in direzione del socialismo. Se è un reazionario, lo Stato andrà verso il capitalismo.
In un paese evoluto con un apparato di potere stabile e ben sviluppato, con forze politiche consapevoli dei propri interessi e dei mezzi per tutelarli una personalità politica di spicco che salga al governo e che, senza l'appoggio di una forza sociale organizzata, presenti un programma di riforme troppo spinto, finisce inevitabilmente per cedere o perire.
Non così in Africa. Il generale sottosviluppo sociale, politico ed economico, la mancanza di un solido apparato di potere, di forze politiche cristallizzate e via dicendo, fanno sì che il ruolo del leader sia incomparabilmente maggiore. Dato che questo leader ha davanti a sé una sorta di spazio vuoto da riempire con la propria politica, il fatto che esso venga occupato dal modello socialista o da quello capitalista dipende esclusivamente dalla sua ideologia e dalle sue convinzioni politiche.
Il leader africano sta a capo del gruppo al governo, ossia dell'élite del potere. Dal punto di vista sociale quest'élite si compone di intellettuali, più spesso di impiegati e, nella sua parte più sana, di sindacalisti e insegnanti. Rispetto al resto dell'ambiente, l'élite africana è una cerchia chiusa ed esclusiva i cui rappresentanti, indipendentemente dalla loro posizione di destra o di sinistra, vivono agiatamente e, in confronto alle condizioni africane, in modo addirittura lussuoso.
La posizione sociale dell'élite africana è molto diversa da quella europea. I paesi sviluppati possiedono un ben strutturato sistema gerarchico, vale a dire una piramide che gradualmente sale verso il vertice. Nella struttura africana la mancanza, o l'esiguità, dei quadri intermedi fa sì che di questa ci sia solo il vertice. Subito sotto il vertice comincia il vuoto, il nulla.
Negli Stati africani c'è un grande contrasto tra l'alto e il basso: in alto troviamo il gruppetto politicizzato, europeizzato e moderno degli individui al governo; molto più giù e senza alcuna fascia intermedia, quasi si trattasse di un altro paese e di un'altra epoca, comincia il mondo africano, cominciano le sconfinate distese della macchia con le sue tribù nomadi o stanziali, seminude, scalze ed eternamente impegnate nella lotta per l'acqua, per una radice di manioca o per un paio di pesci.
In una situazione del genere la politica di uno Stato si riduce a un rapporto di forze in seno all'élite. La sua esiguità numerica e il suo isolamento determinano lo stile della lotta politica, i cui principali metodi diventano gli attentati e le congiure di palazzo. La rinascita del bonapartismo sul suolo africano. Nel corso degli ultimi quattro anni in Africa sono stati assassinati due capi di Stato, uccisi una quindicina di ministri, rovesciati e incarcerati due presidenti; altri tre premier sono pure in prigione. Complessivamente si trovano oggi agli arresti alcune decine di ministri di vari governi e qualche centinaio di parlamentari di vari paesi. Sono state emesse condanne a morte in contumacia contro numerosi ministri riusciti a riparare all'estero e sono state deportate decine di noti politici africani, ex ministri e attivisti partitici di spicco. Ma il bilancio delle lotte tra le élite governative non è ancora completo. In questi ultimi tempi sono stati compiuti, e in certi casi ripetuti più volte, attentati armati contro cinque presidenti di Stati africani. Altri presidenti e numerosi ministri sono rimasti temporaneamente agli arresti o hanno dovuto salvarsi con la fuga.
Quali sono le idee della sinistra e della destra circa il futuro sviluppo dell'Africa?
La posizione dei gruppi africani neocolonialisti di destra è espressa dalla politica da loro finora condotta, e che non è stata in grado di dare il via a un visibile progresso negli Stati sotto il loro governo. Le loro idee si riducono alla tesi che lo sviluppo economico debba basarsi sull'importazione in Africa di capitale straniero, capitale che cercano di assicurarsi mantenendo rapporti amichevoli con l'ex madrepatria (accompagnati da demagogiche proclamazioni di slogan neutralistici).
Gli elementi più moderati del gruppo ammettono la possibilità di intavolare qualche rapporto commerciale con i paesi socialisti, pur continuando a combattere qualsiasi influsso socialista in Africa.
E il programma della sinistra?
Cominciamo col dire che lo stesso termine di "sinistra africana", per quanto correntemente usato nel linguaggio politico africano, è difficile da definire. È innanzitutto quella parte dell'élite al potere che si oppone alla dipendenza neocolonialista dell'Africa dalle potenze imperialiste e che nei suoi slogan propugna lo sviluppo degli Stati del continente in base ai principi socialisti. I nomi di presidenti e di capi di partito quali Ben Bella, Nkruma'h, Keita, Odinga, Babu, Gbenye, Kotane, Sipalo, Sharmarke danno un'idea di quale direzione politica si tratti. I rappresentanti della sinistra entrano a far parte di molti governi africani (pur rappresentandovi la minoranza), formano gruppi più o meno numerosi di deputati in quasi tutti i parlamenti africani, si trovano nell'organizzazione sindacale (i sindacati sono una forte base della sinistra africana), costituiscono l'ala sinistra dei partiti al governo, sono nel direttivo di alcuni partiti di liberazione (come in Sudafrica, nel Basuto, nella Guinea portoghese), lavorano nei settori amministrativi minori, nel movimento cooperativo ecc.
Oggi è ormai una grande forza, anche se non possiede organizzazioni proprie, non è strutturata in propri partiti ed è costretta ad agire nell'ambito di altri organismi politici.
In alcuni paesi (per esempio in Nigeria, in Kenya e a Zanzibar), nella sinistra africana un importante ruolo viene svolto da raggruppamenti comunisti o vicini a quelli comunisti.
In Africa tuttavia questo tipo di raggruppamenti o di cellule (è difficile parlare di veri e propri partiti) è ancora poco numeroso.
Soltanto nella Repubblica sudafricana esiste un forte (ma clandestino) Partito comunista (il cPsA), il cui organo è il mensile "African Communist" pubblicato a Londra.
La sinistra della rivoluzione africana non rappresenta una corrente ideologicamente omogenea. Si tratta di una tendenza non ancora completamente definita e che non ha ancora formulato un proprio programma. In Africa tutto è ancora in fase embrionale, nella prima fase di sviluppo. Lo scopo della sinistra africana è comunque il socialismo. Gli attivisti della sinistra africana si pronunciano a favore di quella forma di socialismo che nel Terzo Mondo si usa definire "cubano-algerino".
Il socialismo cubano-algerino vittorioso in paesi che non hanno una classe lavoratrice fortemente sviluppata e nemmeno un partito comunista o un partito dei lavoratori veramente di massa è quello che meglio si confà ai paesi africani guidati da leader di sinistra: paesi privi di industria, privi di proletariato e privi di una tradizione comunista.
Ecco alcune caratteristiche di questo socialismo.
L'anticolonialismo deciso e senza compromessi.
L'attivo appoggio militare ai partiti di liberazione combattenti nelle colonie.
La stretta e amichevole collaborazione in tutti i settori con i paesi dell'area socialista.
Una presa di posizione in linea di massima neutrale di fronte a eventuali divergenze all'interno dell'area socialista.
L'abolizione o la diminuzione delle grandi proprietà il che, nel mondo postcoloniale, si traduce nella nón ereditarietà, nella nazionalizzazione o nella riduzione delle posizioni del capitale straniero.
Il ruolo direttivo, o di controllo, da parte dello Stato e del partito su tutti i settori di vita del paese.
Il sistema di governo monopartitico.
La particolare attenzione riservata al miglioramento dell'agricoltura e all'istruzione pubblica.
Questo tipo di socialismo possiede una grande forza di attrazione nel Terzo Mondo, costituito da popolazioni di colore da cui la solidarietà e l'orgoglio razziale vengono particolarmente sentiti. Essendo nato qui, il socialismo cubanoalgerino viene considerato parte del Terzo Mondo e quasi una sua proprietà.
Fino a non molto tempo fa l'Africa, come continente, rappresentava l'ultima chiusa e inaccessibile riserva del colonialismo.
La lotta rivoluzionaria di liberazione ha offerto al mondo africano la possibilità di entrare nell'arena internazionale.
Dal punto di vista della politica in atto lungo l'asse Mosca-Washington, che decide le sorti della guerra e della pace, l'Africa occupa una posizione marginale. Continua a essere un'immensa provincia del mondo, un'area arretrata, poco popolata, priva di grandi città, di industrie e di una sviluppata rete di comunicazioni: un mondo sprofondato nei suoi sempiterni drammi e difficoltà. Oggi tuttavia l'Africa indipendente è una realtà politica e la questione dell'atteggiamento che altri Stati del mondo assumono verso i paesi del continente africano riveste un attuale e fondamentale significato.
La questione del cosiddetto socialismo africano si presenta più o meno come segue: una delle debolezze della rivoluzione africana (manifestatasi nel suo carattere incompleto) è costituita dal fatto che mentre da un lato non è stata in grado di accogliere la teoria del marxismo, dall'altro non è stata neanche in grado di creare una sua ideologia personale, una propria base teoretica. Un tentativo in questo senso potrebbe essere considerata la teoria del panafricanesimo (formulata tra l'altro nelle opere di Du Bois, di G. Padmore e di N. Sithole); ma il panafricanesimo è stato più un emotivo slogan da battaglia che una precisa concezione sociopolitica. A questo punto il concetto di "socialismo africano" comincia a diffondersi come termine per definire i cambiamenti avvenuti in Africa. Della formula "socialismo africano" si servono tutti, dai neocolonialisti ai nazionalisti, ma solo pochi cercano di stabilire che cosa esso sia veramente. Se ne incarica il presidente Nyerere. Nel suo scritto Ujamaa, base del socialismo africano, Nyerere definisce l'Africa come la culla del regime socialista, sostenendo che in Africa il socialismo esisteva molto prima di Marx. Secondo lui il socialismo africano è sostanzialmente il concetto dell'umanesimo e della fratellanza tra gli uomini, fratellanza e unità che sono sempre state alla base del sistema tribale africano al quale era ignoto il concetto di proprietà, fonte di tutti i conflitti tra gli uomini. In questo senso si può addirittura dire che nell'istituzione della comunità tribale africana si sia realizzato non solo il socialismo, ma anche il comunismo. Questo felice sistema socialista è stato turbato dal colonialismo che tende a dividere la società in classi e quindi a liquidare il socialismo africano. Oggi l'Africa indipendente ha l'opportunità di ricrearlo. La via per arrivarci non passa attraverso il marxismo, ma attraverso il ritorno all'assetto della società tribale e alla rinascita della tribù come cellula socialista della società africana. Fin qui Nyerere.
La teoria del socialismo africano viene duramente osteggiata dai rappresentanti della sinistra africana, che ne evidenziano il carattere retrivo e l'ingenuità politica. All'interno dell'intellighenzia africana si scontrano due tendenze, che ricordano due correnti esistenti nell'intellighenzia russa del xix secolo. La prima, quella degli "occidentalisti", è favorevole all'innovazione e a una rapida modernizzazione dell'Africa.
La seconda, rappresentata dagli "africanofili", vorrebbe un ritorno alla vecchia Africa felice. Il socialismo africano è appunto la teoria degli "africanofili".
Quali sono i rapporti tra l'Africa e il resto del mondo?
In J. Nyerere, Socialismo in Tanzania, il Mulino, Bologna 1970. [N.d.T]
In un primo momento la rivoluzione africana ha sorpreso gli Stati imperialisti suscitando reazioni di panico e una serie di interventi armati (Algeria, Congo, Angola). In seguito l'Occidente ha gradualmente cominciato a riprendere la sua influenza sul continente sfruttando l'immaturità politica del movimento di liberazione e gli elementi corruttibili all'interno di esso. Al posto del vecchio colonialismo "classico" è apparso il neocolonialismo, una forma più elastica e mascherata di dipendenza africana dal colonialismo.
Benché in Africa le ex madrepatrie siano compromesse dal loro passato coloniale, l'Occidente possiede tre potenti atout nella lotta per mantenere la propria influenza sul continente.
Primo: l'economia dei paesi africani è legata all'economia e ai mercati degli Stati occidentali. Di tutti i residui del sistema colonialista, questo è il più difficile da liquidare. Il sistema colonialista consisteva appunto nel fatto che l'economia dei paesi d'oltremare era sviluppata non come un elemento autonomo, ma come un frammento, un complemento, uno degli anelli dell'economia metropolitana. I paesi africani, non sono produttori di merci finite (molti di questi Stati non possiedono neanche una propria fabbrica di fiammiferi), ma fonti di materie prime. Le materie prime vengono lavorate in stabilimenti dell'Europa occidentale, dopo di che ritornano in Africa sotto forma di merci finite, in una continua circolazione di merce e capitale. Dato che questa circolazione rappresenta un chiuso sistema di legami economici e di dipendenze dal mercato, dalla borsa, dalle banche e da fattori giuridici, interromperlo richiederebbe una vera e propria rivoluzione.
L'economia dei vari paesi africani è di solito monoculturale e destinata esclusivamente all'esportazione: la Somalia esporta banane, la Nigeria noccioline, la Costa d'Avorio caffè, e così via. Ognuno di questi paesi ha solo minime possibilità di manovra sui mercati stranieri e deve restare attaccato al mercato tradizionale della sua ex madrepatria.
Secondo: l'Occidente gode di una posizione forte in Africa grazie alla sua disponibilità di capitale. Per l'Africa il capitale ha un'importanza fondamentale dato che la maggior parte dei suoi paesi ha un bilancio deficitario o semideficitario.
L'arretratezza e la mancanza di autonomia economica dei paesi africani non consentono sufficienti accumuli. Il capitale che affluisce in Africa dall'Occidente sotto forma di prestiti, crediti, investimenti eccetera supera largamente gli aiuti complessivi forniti all'Africa dai paesi socialisti. Questa vantaggiosa posizione dell'Occidente dipende non solo dalle sue riserve valutarie, ma soprattutto dal fatto che l'Occidente sfrutta l'Africa, dopo di che le restituisce parte dei suoi guadagni sotto forma di aiuti economici; mentre per i paesi socialisti questi aiuti hanno il carattere di un investimento unilaterale che frutta scarsi profitti. Di conseguenza il plateau delle possibilità dei paesi socialisti nel campo degli aiuti all'Africa è limitato, mentre quello degli Stati occidentali è alto.
Terzo: la posizione dell'Occidente in Africa è rafforzata dalla tradizione dei contatti personali e della comunanza linguistica.
Una parte fondamentale dell'intellighenzia africana ha studiato o ha trascorso molto tempo in Occidente a Parigi, Londra, Roma e Bruxelles assumendo lo stile di vita, il modo di fare e di vedere dei parigini e dei londinesi. Molti di loro, pur essendo nemici del colonialismo britannico, amano recarsi a Londra; molti di loro, pur lottando contro il colonialismo francese, amano andare a Parigi.
C'è poi la questione della lingua e della propaganda: il 90% degli africani capaci di leggere e scrivere conosce l'inglese o il francese, ossia quelle che sono le lingue ufficiali della maggior parte dei paesi africani e, soprattutto, le lingue della propaganda, i cui strumenti stampa, radio, televisione, editoria sono tuttora quasi tutti in mano agli inglesi, francesi e americani. Si tratta della propaganda anticomunista più reazionaria, oscurantista e accanita del mondo, e che esercita la sua attività in modo monopolistico: i paesi socialisti non hanno modo di far arrivare la loro propaganda quotidiana, per cui gli altri possono scrivere quello che vogliono.
L" `East African Standard", quotidiano del Kenya, descrive nei seguenti termini il terrore in Polonia: "Tutte le città sono circondate da barriere di filo spinato, ogni cittadino è sorvegliato da sedici agenti della polizia segreta, gli uomini, per sposarsi, devono ottenere uno speciale permesso governativo ecc.". Tale è il cibo con cui viene quotidianamente nutrito il lettore africano. E visto che sul mercato arriva solo questo tipo di stampa, non esiste possibilità di verifica.
La dipendenza dell'Africa dal mondo occidentale si manifesta praticamente in tutti i settori della vita: nella maggior parte dei paesi africani gli esperti e i lavoratori dei paesi occidentali rappresentano oltre l'80% dei quadri stranieri. Circa l'80% dei giovani che studiano all'estero si forma nelle università occidentali.
Oltre che da Francia e Inghilterra, la politica neocolonialista più attiva viene esercitata in Africa dagli Stati Uniti e dalla RFT. In Africa gli americani sono dappertutto, hanno ambasciate in ogni Stato e consolati in ogni colonia. Principali strumenti dell'attività americana sono non soltanto le ambasciate, ma anche i cosiddetti centri di informazione (usis), istituzioni provviste di un numeroso personale che svolge funzioni di spionaggio e sabotaggio. Gli americani attuano la loro politica in Africa in modo brutale, invadente, senza badare ai mezzi, cosa che non accattiva loro l'amicizia degli africani, fortemente reattivi a ogni tentativo di essere manovrati. Gli americani appoggiano i regimi africani più reazionari e dedicano molti sforzi (nonché molti soldi) alla corruzione del movimento sindacale. Nelle ambasciate americane in Africa esistono i cosiddetti reparti LAS, cellule destinate a creare spaccature nei sindacati africani. Gli americani svolgono una chiassosa propaganda la cui tesi principale suo. na come segue: dato che le ex potenze coloniali non sono riuscite a inoculare in Africa la democrazia e dato che a portarvela non saranno certo i comunisti, essendo il comunismo "antidemocratico", ne risulta che solo loro, gli Stati Uniti, possono insegnare all'Africa la vera democrazia. Il tutto cucito a filo grosso. In Africa gli americani perdono la partita per colpa dello stesso errore che la fa perdere a molti altri bianchi e che consiste nel credere che i neri siano dei bambini cui si può raccontare qualsiasi cosa.
Conoscendo la discriminazione praticata in America nei confronti dei neri, gli africani non sopportano gli Stati Uniti, ma devono ugualmente tenerli in considerazione visto che questi hanno i soldi di cui l'Africa non può fare a meno.
Gli Stati Uniti vogliono dominare politicamente l'Africa.
Il loro principale scopo nel campo economico è di controllare la stretta fascia dei ricchissimi giacimenti minerari che si estende nella parte centrale e meridionale del continente, dal Katanga attraverso il Copperbelt zambiano, il Wankie e il Bulawayo rhodesiani, fino al Transvaal sudafricano. Si tratta di una parte dell'Africa fortemente industrializzata, provvista di ampie infrastrutture e di uno sbocco al mare. I monopoli americani possiedono già una larga quota di partecipazioni, ammontante al 50%, nelle principali società che sfruttano quei giacimenti minerari.
L'Africa non rappresenta un buon mercato di vendita per le merci americane. Da un lato i prodotti americani sono troppo cari per gli africani, dall'altro i mercati africani, piccoli e poco ricettivi, non presentano attrattive per i produttori americani impostati su massicci quantitativi di merci. Il commercio con l'Africa nera non raggiunge neanche la metà del giro d'affari degli USA.
Il partner che in Africa è più vicino agli Stati Uniti è la RFT
(l'Inghilterra e la Francia non vedono di buon occhio l'espansione americana nei loro ex possedimenti). Oggi il passaporto dell'zFT è l'unico al quale venga concesso senza difficoltà il visto per tutti i paesi africani (e del quale la maggior parte dei possessori di un passaporto dell'rFT non ha peraltro bisogno).
Un privilegio di cui in Africa non godono i passaporti americani, né quelli inglesi e francesi. La politica neocolonialista dell'lFT in Africa è più operativa della pesante, elefantesca politica americana. I tedeschi conoscono bene lo specifico territorio africano essendo stati essi stessi una potenza coloniale fino alla fine della Prima guerra mondiale. Ancor oggi l'Africa sudoccidentale è praticamente una semicolonia tedesca. LR FT gode inoltre di influssi a vasto raggio sullo Stato africano più ricco e industrializzato, la Repubblica sudafricana.
Sul territorio africano i tedeschi occidentali rivolgono i loro principali attacchi contro l'RDT: numerosi Stati africani vorrebbero riconoscere l'RDT, ma la loro preponderante dipendenza dagli aiuti finanziari dell'RFT e dai loro mercati non glielo consente. Sugli schermi dei cinema africani vengono proiettati film che riabilitano i criminali nazisti e documentari propagandistici che mostrano gli aiuti forniti all'Africa dall'xFT. L'attività antipolacca dell'RFT è molto meno visibile per due ragioni: la prima è che qualsiasi tentativo in questo senso si scontra con l'immediata reazione delle nostre sedi diplomatiche; la seconda perché agli africani riesce difficile orientarsi nei conflitti e nei problemi europei. Per loro l'Europa è tutta uguale, nello stesso modo in cui, agli europei, a parte una manciata di esperti, l'Africa appare una massa indifferenziata.
La portata del cosiddetto aiuto economico dell'Occidente all'Africa è infinitesimale in confronto ai bisogni dei vari Stati del continente. Gli aiuti ammontano in media all' 1 % dell'introito nazionale dei principali Stati imperialisti. Troppo poco perché in Africa possa realizzarsi un sensibile progresso economico. Tali capitali sono comunque utili a coprire parzialmente i deficit degli Stati africani e per qualche sporadico investimento. Lo scopo degli aiuti economici all'Africa da parte dei paesi occidentali è essenzialmente politico. Nello stesso modo in cui, all'inizio del xx secolo, il capitalismo destinava parte dei suoi guadagni a corrompere lo strato superiore del proletariato e a formare un'aristocrazia operaia che facesse da freno alla rivoluzione, così ora, nella seconda metà del xx secolo, l'imperialismo destina parte dei propri guadagni al cosiddetto aiuto ai paesi sottosviluppati per impedirvi il formarsi di una situazione rivoluzionaria e per crearvi un'aristocrazia neocolonialista. Sia nel primo che nel secondo caso il movente è la paura della rivoluzione.
In Africa i paesi socialisti sono una novità: ai tempi del colonialismo l'Africa era rigorosamente isolata da ogni contatto con gli Stati dell'area socialista. Il fatto ha avuto importanti conseguenze soprattutto nella prima fase dei rapporti tra l'Africa e i paesi socialisti negli anni 1958-1962.
I paesi del socialismo fecero il loro ingresso sul continente africano senza avere nessuna conoscenza di questo specifico ed eccezionale territorio. Qui si imbatterono nella dura opposizione delle potenze coloniali e quindi in un avversario che disponeva di propri quadri neocoloniali africani e teneva nelle proprie mani l'economia degli Stati del continente.
Ebbe inizio un difficile duello. A quel tempo la nostra conoscenza dell'Africa era frammentaria, i nostri contatti con la parte africana minimi, i nostri interessi economici sul continente quasi inesistenti. I paesi socialisti conducevano una continua lotta sulla scena internazionale per il diritto dei popoli coloniali alla libertà, ma le informazioni sull'argomento non raggiungevano l'opinione pubblica africana, nutrita esclusivamente della propaganda coloniale che non ne faceva parola. La stragrande maggioranza degli africani ignorava che al mondo esistessero gli Stati socialisti: molti di loro erano convinti che tutti gli Stati con popolazioni bianche avessero le proprie colonie in Africa e fossero delle potenze coloniali.
Negli anni 1958-1962 alcuni paesi africani si rifiutavano di allacciare rapporti diplomatici e commerciali con noi. In seguito alle pressioni dell'Occidente, alcuni Stati africani respinsero l'aiuto economico dei paesi socialisti.
Con il tempo il nostro approccio alle questioni africane divenne più realistico e oggettivo. Si basava sul presupposto che i processi in atto in Africa avrebbero avuto il carattere di una lunga e lenta trasformazione. L'Africa partiva da un livello economico e culturale molto basso e il suo sviluppo avrebbe continuato a essere ostacolato da almeno tre fattori: a) l'influsso frenante del neocolonialismo, b) la mancanza di capitali propri, c) la mancanza di propri quadri qualificati.
La reale indipendenza degli Stati africani si sarebbe quindi formata col tempo, con il passare degli anni. L'Africa stava facendo appena i primi passi sulla via dello sviluppo.
Nella maggior parte degli Stati africani non esistevano forze sociali pienamente cristallizzate e organizzate che potessero farsi portatrici dell'idea socialista e scegliessero il socialismo come programma della propria azione.
Condurre in Africa una politica attiva, tesa a conquistare influssi e alleati, era un compito estremamente costoso. Gli Stati africani, arretrati e privi di capitali, nutrivano enormi ambizioni di sviluppo e vasti piani di progresso la cui realizzazione considerato il grado di arretratezza di quei paesi (il più alto del mondo) richiedeva altissimi investimenti. Di conseguenza gli Stati africani cercavano un aiuto tecnico e finanziario oltre frontiera. La politica di chi voleva impegnarsi nei paesi africani si scontrava con le richieste da parte di questi ultimi di un aumento degli aiuti prestati. Tuttavia i paesi socialisti non erano in grado di accontentare le aspettative degli Stati africani, da un lato per via delle esorbitanti dimensioni dei loro bisogni, dall'altro per le ridotte possibilità dei paesi socialisti stessi.
Le possibilità di esportazione degli Stati africani erano limitate, dato che gran parte dell'economia di quei paesi era in mano straniera. Inoltre tutta una serie di prodotti che l'Africa poteva esportare in cambio degli aiuti tecnici non rappresentava un bene di prima necessità per i paesi socialisti.
Stando così le cose, la soluzione più realistica era che i paesi socialisti conducessero in Africa una politica nei limiti delle loro ragionevoli possibilità.