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Cade la linea. Non sento più Adam. Guardo il display del cellulare, ma Adam chiamava da un numero privato. Non posso richiamarlo. Ovunque fosse, sembrava che si muovesse in fretta: gridava sopra il vento. In fuga, e nel panico. Io sono l’esatto opposto: immobile, come inebetito.

Cosa farebbe John in questa situazione? Si darebbe una mossa, ecco cosa. Infilo il telefono nella tasca posteriore e oltrepasso mio padre per dirigermi in corridoio. «Ha detto che i Mog sanno dove siamo e che stanno arrivando. Dobbiamo andarcene da qui. Subito!» Quando mi volto a guardare, lo vedo immobile accanto al letto. «Vieni, cosa aspetti?»

«E se...?» Papà scuote il capo. «Se non poteste fidarvi di me?»

È davvero una spia dei Mog? Dev’esserci una spiegazione migliore per come i suoi appunti sono finiti nelle loro mani. Forse non è sicuro di potersi fidare di se stesso, forse teme che la memoria lo stia abbandonando o che gli remi contro. Non importa: in quell’istante decido che mi fido di lui.

«Ricordi quand’eravamo fuori dalla base di Dulce e io volevo rientrare per aiutare i Garde a combattere? Mi hai detto che avrei avuto altre occasioni per rendermi utile ai Loric. Be’, credo che ne sia arrivata una. Mi fido di te, papà. Non posso farcela senza di te.»

Annuisce solennemente ed estrae da sotto il letto il fucile che ha usato per uccidere il mostro in Arkansas. «Adam ti ha detto quanto tempo ci resta?» mi chiede mentre carica l’arma.

Come in risposta, il palazzo si scuote e tutte le luci tremolano. Un motore romba sopra di noi, pericolosamente vicino, seguito da un raschio metallico. Qualcosa è appena atterrato sul tetto.

«Pochissimo, a quanto pare.»

Corriamo in corridoio e vediamo Sarah, appena uscita dalla sua stanza. Sbarra gli occhi quando vede che mio padre imbraccia un fucile. «Cos’era quel rumore? Che succede?»

«I Mog sono qui», rispondo.

«Oh, no...» Sarah indietreggia verso la stanza in cui John ed Ella giacciono inermi.

Dal corridoio vedo chiaramente le finestre a tutta altezza del salotto: i Mog si stanno calando lungo il fianco dell’edificio.

«Devo andare da John!» dice Sarah.

La afferro per il polso. «Non abbiamo speranze, se non prendiamo le armi.»

Le finestre vanno in frantumi, rotte da una raffica dei cannoni mogadorian. L’aria fredda invade l’attico. I Mog si lanciano dentro e iniziano a guardarsi intorno in cerca di obiettivi da colpire. Sono in salotto, tra noi e l’ascensore che è l’unica via di fuga. Mi stupisco che siano così pochi: se io dovessi attaccare un nascondiglio dei Garde invierei un intero esercito. Sembra quasi che non si aspettino molta resistenza.

Ci rifugiamo tutti e tre nella stanza di mio padre.

«Io vado a prendere John ed Ella», dice papà. «Voi correte in sala conferenze.»

Sento i Mog uscire dal salotto e avviarsi nel corridoio dove siamo noi. «Eccoli che arrivano. Al mio tre. Uno...»

Prima che io arrivi al due, dal corridoio prorompe un ruggito fragoroso, cui risponde immediatamente una raffica di fuoco. Sporgo la testa in corridoio e vedo Bernie Kosar, in forma di orso grizzly, artigliare due Mog. Mi ero dimenticato di BK! Forse la situazione non è disperata come sembra.

«Andate!» grida mio padre, correndo verso la stanza di Ella. «Prendete le armi. Li terremo a bada.»

BK passa da un Mog all’altro avventandosi su di loro con gli artigli e scostando i mobili dietro cui cercano di nascondersi. Incassa qualche colpo nel fianco e l’aria si riempie dell’odore di peli bruciati, ma le ferite sembrano riuscire solo a farlo arrabbiare di più. Accucciato sull’uscio della stanza di Ella, mio padre prende la mira e inizia a sparare sui Mog.

Io e Sarah ci mettiamo a correre nella direzione opposta, verso la sala conferenze e l’armeria. Dietro di me sento le raffiche colpire le pareti, e il fucile di mio padre che risponde. Dobbiamo fare in fretta: ne arriveranno sicuramente altri dal tetto, non riusciremo a opporre resistenza in eterno.

All’improvviso si apre la porta della camera sulla mia destra. Ho un istante per sentire il getto d’aria fredda dalla finestra rotta e poi mi ritrovo un Mog addosso. Mi dà una spallata sul fianco, imprigionandomi contro la parete. Mi preme l’avambraccio sulla gola e avvicina il volto pallido al mio, finché non vedo solo i suoi occhi senza vita.

«Umano», sibila. «Dimmi dov’è la ragazza e ti concederò una morte rapida.»

Prima che io possa chiedergli di quale ragazza parla, Sarah lo colpisce alla testa con un vaso. Il Mog si scrolla i cocci di dosso e si volta verso Sarah. Sento montare in me la rabbia: per la mia prigionia, per ciò che hanno fatto a John ed Ella. Afferro l’impugnatura della sua spada e la sguaino. Con un grido gliela affondo nel petto, trasformandolo in cenere.

Sento rumore di vetri infranti, in ogni direzione. Le porte delle camere da letto lungo il corridoio si spalancano lasciando uscire altri Mog e separando me e Sarah da mio padre e Bernie Kosar. Se prima trovavo inquietante l’attico, ora è l’inferno. Ho perso di vista papà all’altro capo del corridoio. Lo sento ancora sparare, con colpi sempre più ravvicinati. Sento un tonfo, qualcosa che si rovescia in camera di Ella.

«State cercando la ragazza?» grido, richiamando la loro attenzione per distrarli da mio padre. «È da quella parte!»

Io e Sarah corriamo nel laboratorio, inseguiti da una decina di Mog.

Insieme rovesciamo un mucchio di vecchi apparecchi e ricambi per motori che si trova accanto alla porta: il disordine accumulato da Sandor ci torna utile. Un Mog cerca di aprire la porta, ma è bloccata da tutta la roba sul pavimento.

«Li rallenterà per un secondo», dico.

«Pensano che sia io la ragazza che cercano?» chiede Sarah. «O sono qui per Ella?»

Una raffica fa saltare una sezione della porta del laboratorio: frammenti di legno incandescente mi sfiorano la guancia, rischiando di finirmi nell’occhio. L’attimo di tregua è finito. Sarah mi prende per un braccio e attraversiamo barcollando il laboratorio, mentre i Mog fanno a pezzi la porta. Corriamo piegati in due verso la sala conferenze.

I Mog si riversano nella stanza. Accanto a me, il monitor che mostra la posizione dei Garde esplode in una pioggia di scintille; i colpi mi mancano per un pelo.

«Come facciamo a sconfiggerne così tanti?» grida Sarah mentre entriamo di corsa in sala conferenze. «Mi sono esercitata, ma non contro dieci bersagli per volta!»

«Abbiamo il vantaggio di giocare in casa.»

Nella sala conferenze, Sarah corre verso la parete con le armi e io mi arrampico sulla Cattedra. I primi Mog entrano di corsa nella stanza proprio mentre sto attivando uno dei programmi di allenamento di Sandor: quello con livello di difficoltà «impossibile». I Mog non si sono ancora accorti di me, seduto dietro la console di metallo a premere bottoni. Sono concentrati su Sarah. Anche se dovessero capire che non è lei la ragazza che cercano, rappresenta comunque la minaccia più evidente, dato che punta loro addosso due pistole. Minaccia evidente, ma anche obiettivo facile.

«Sarah, alla tua sinistra!» grido, facendo alzare dal pavimento una barricata dietro cui può rifugiarsi. Si tuffa lì dietro proprio mentre i Mog aprono il fuoco.

La stanza si riempie del fumo che esce dai rubinetti lungo le pareti. Qualche Mog sembra confuso, ma la maggior parte di loro continua a sparare su Sarah. Alcuni colpi impattano sulla Cattedra; mi rannicchio sulla sedia per schivarli, sperando che la struttura regga. Sopra gli spari sento dei ronzii: la sala conferenze sta prendendo vita. Una mezza dozzina di pannelli scorre lungo le quattro pareti, lasciando uscire torrette attrezzate con cuscinetti a sfera.

«Sta’ giù! Ora comincia!» grido a Sarah.

Il fuoco incrociato fende l’aria della sala conferenze, e i Mog ci si ritrovano in mezzo. Questa esercitazione doveva servire ad aiutare i Garde a fare pratica di telecinesi, non a ferirli, quindi le munizioni grandi come biglie che escono dalle pareti non vanno abbastanza veloci per uccidere i Mog. Riescono però a tenerli impegnati.

Esco da dietro la Cattedra, e un cuscinetto a sfera mi colpisce dolorosamente la spalla. Riesco a distendermi e resto a guardare i Mog che vengono sferzati da ogni direzione. Quando mi vede, Sarah fa scorrere verso di me sul pavimento una delle pistole. La raccolgo e mi accovaccio dietro la Cattedra.

Apriamo il fuoco. I Mog stanno praticamente fermi a fare da bersaglio; con tutti i proiettili che escono dalle pareti, sono disorientati. Dopo un minuto, nella stanza non c’è più l’ombra di un Mogadorian. Allungo un braccio e disattivo il programma sulla Cattedra.

«Ha funzionato!» grida Sarah, sorpresa.

Quando si alza, vedo che ha un’ustione sull’esterno della gamba sinistra. Ha i jeans strappati, la pelle bruciata e sanguinante. «Ti hanno colpita», dico.

Sarah abbassa lo sguardo. «Merda, non me n’ero accorta. Ma mi ha solo sfiorata.» Zoppica verso di me, mentre l’adrenalina si scarica.

La cingo con un braccio per sostenerla e usciamo il più in fretta possibile dalla sala conferenze, portandoci dietro altre armi. Infilo una seconda pistola nella cintura dei jeans, nel caso finissi le munizioni. Sarah lascia cadere la pistola scarica e prende uno strano mitra leggero, una di quelle armi che credevo esistessero solo nei film d’azione.

«Sai come si usa?» le chiedo.

«Funzionano più o meno tutti allo stesso modo. Prendi la mira e spari.»

Mi verrebbe da ridere, se non fossi così preoccupato per mio padre e per John ed Ella.

Non sentiamo altri rumori mentre attraversiamo il laboratorio distrutto, scavalcando tutta la roba che abbiamo rovesciato per terra. Nell’attico c’è uno strano silenzio. È un buon segno? Forse no.

Infilo la testa nel corridoio. Non c’è anima viva. Il pavimento è cosparso delle ceneri dei Mog, ma per il resto è tutto tranquillo. Il rumore più forte è il vento che soffia da un lato all’altro dell’edificio, attraverso le finestre infrante.

«Pensi che li abbiamo ammazzati tutti?» sussurra Sarah.

In risposta sentiamo dei passi sul tetto: sembrano scarponi in corsa. Devono esserci altri Mog lassù, e sferreranno un secondo attacco non appena scoprono che il primo è fallito.

«Dobbiamo andarcene subito», dico, aiutando Sarah a camminare. Percorriamo in gran fretta il corridoio.

Bernie Kosar è ancora in forma di orso. Sembra ferito; tutto il lato destro del corpo fuma per le ustioni. Mi fissa come se volesse comunicarmi qualcosa. Vorrei saper parlare con gli animali come John. BK sembra triste, e non so perché. Triste, ma determinato.

«Stai bene, Bernie?» chiede Sarah.

BK grugnisce e assume la forma di un falco. Spicca il volo ed esce dalla finestra, dirigendosi verso l’alto. Probabilmente sta andando sul tetto per rallentare i Mog mentre noi portiamo via John ed Ella. Ora capisco cosa stava cercando di comunicarmi: mi diceva addio, nel caso non dovessimo vederlo più.

Tiro un respiro profondo. «Vieni, andiamo», dico a Sarah.

Uno scaffale rovesciato blocca la porta della stanza di Ella. È crivellato dalle raffiche mog. Evidentemente mio padre l’ha usato come copertura.

«Papà? Via libera, possiamo andare.»

Nessuna risposta.

«Papà?» ripeto più forte, con la voce che mi trema.

Ancora niente.

Do una spallata allo scaffale, ma è incastrato. Mi assale l’angoscia. Perché papà non risponde?

«Quassù!» dice Sarah, indicando col dito. C’è un varco tra lo scaffale e il telaio della porta. Mi arrampico, graffiandomi le ginocchia sui ripiani, e scavalco lo scaffale atterrando malamente dall’altra parte. Ci metto pochi secondi, durante i quali immagino papà crivellato dal fuoco dei Mog e John ed Ella assassinati nel sonno.

«Papà?» Mi si mozza il fiato. Il tempo sembra rallentare. «Papà...?» Barcollo verso il letto.

John ed Ella sembrano incolumi, ancora in coma, ignari del caos intorno a loro. E ignari del fatto che mio padre è sdraiato sopra di loro.

Ha gli occhi chiusi. Sanguina da una larga ferita all’addome. Ci preme sopra le mani, come per evitare che esca qualcosa. Il fucile è a terra, scarico, con le sue impronte insanguinate sull’impugnatura. Mi chiedo per quanto tempo abbia continuato a combattere dopo essere stato ferito.

Sarah scavalca lo scaffale, e la sorpresa le mozza il fiato. «Oh, no, Sam...»

Non so cosa fare con mio padre, se non prendergli la mano. È fredda.

Mi salgono le lacrime agli occhi. Mi rendo conto che, in una delle ultime conversazioni che ho avuto con lui, in pratica gli ho dato del traditore. «Mi dispiace tanto», sussurro.

Quasi mi viene un infarto quando papà mi stringe forte la mano.

Apre gli occhi. Capisco che fatica a mettermi a fuoco e mi accorgo che non ha più gli occhiali: devono essersi rotti durante la battaglia.

«Li ho protetti più a lungo che ho potuto», dice con voce strozzata. Qualcosa gli schiuma in bocca e gli cola da un angolo delle labbra.

«Vieni, ce ne andiamo da qui», gli dico, inginocchiandomi accanto a lui.

Un’ombra di dolore gli solca il viso. «Non io, Sam. Dovete andare da soli.»

Un ululato sopra i rumori della battaglia sul tetto: Bernie Kosar, disperato e sofferente.

Sarah mi sfiora la spalla. «Sam, mi dispiace, ma non abbiamo molto tempo.»

Mi scrollo di dosso la sua mano e scuoto la testa. Guardo mio padre con rabbia; ormai le lacrime mi solcano il viso. «No, non ti permetto di abbandonarmi di nuovo.»

Sarah cerca d’infilarsi tra me e papà per trascinare via il corpo di Ella. Non l’aiuto. So che mi sto comportando da stupido e da egoista, ma non posso lasciare mio padre. Ho passato tutta la vita a cercarlo, e ora lo sto perdendo di nuovo.

«Sam... vai», sussurra lui.

«Sam», mi supplica Sarah, cullando Ella tra le braccia. «Devi prendere John. Dobbiamo andare.»

Mio padre annuisce lentamente. Altro sangue gli esce dalla bocca. «Va’, Sam.»

«No», ribatto. So che è la cosa sbagliata da dire, ma non me ne importa niente. «Non vado via, se non vieni anche tu.»

Ma è troppo tardi, in ogni caso. La fune che penzola fuori dalla finestra si tende e un Mog si cala nell’appartamento.

Abbiamo sprecato troppo tempo e Bernie Kosar non è riuscito a fermarli. La seconda orda è arrivata.