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In quel bagno sudicio faccio la doccia migliore della mia vita. Neppure la muffa scura, che si spande dallo scarico della vasca fino ai bordi raggrinziti del tappetino di gomma, riesce a rovinarmi l’esperienza. L’acqua calda lava via il ricordo delle settimane che ho passato nelle mani dei Mogadorian.

Pulisco lo specchio appannato e mi osservo a lungo. Mi si vedono le costole; i muscoli dello stomaco risaltano sotto la pelle tirata. Sono denutrito. Ho le occhiaie, e non avevo mai avuto i capelli così lunghi. Dunque è questa la faccia di un combattente per la libertà.

M’infilo una maglietta e un paio di jeans che ho trovato nello zaino di Adam; devo stringere la cintura fino all’ultimo buco per far stare su i jeans, ma mi cadono lo stesso sui fianchi. Sentendo brontolare lo stomaco, mi domando che razza di servizio in camera possa offrire un motel così squallido. Scommetto che il vecchietto alla reception ci manderebbe un panino con dentro formaggio e mozziconi di sigaretta.

Esco dal bagno. Sul letto c’è un computer portatile su cui un software sta scansionando i lanci delle agenzie di stampa: mio padre sta cercando di decidere la nostra prossima mossa. È tardi, mezzanotte è passata da un pezzo, e io non ho ancora chiuso occhio. Francamente, per quanto ci tenga a ritrovare i Garde, speravo che la prossima mossa fosse un piatto pieno di frittelle alla più vicina tavola calda.

«Niente?» chiedo, guardando il computer.

Mio padre non presta attenzione al programma: siede con la schiena appoggiata alla parete, ha ancora in mano quel cellulare da quattro soldi, sembra indeciso. Scocca un’occhiata indifferente al computer. «Non ancora.»

«Probabilmente non chiamerà prima di essersi messo al sicuro.» Allungo una mano per prendere il telefono, ma lui non me lo permette.

«Non è per questo. C’è un’altra telefonata che dobbiamo fare. Ho ragionato su cosa dire per tutto il tempo della tua doccia, e ancora non lo so.» È come se papà cercasse il coraggio per telefonare: posa il pollice su una successione di tasti.

Sono così concentrato sull’idea di trovare i Garde e sconfiggere i Mogadorian che all’inizio non capisco. Quando lo intuisco mi lascio cadere sul letto, ammutolito quanto lui.

«Dobbiamo chiamare tua madre, Sam.»

Annuisco: ha ragione, ma non saprei proprio cosa dire alla mamma. L’ultima volta che mi ha visto ero reduce da una battaglia contro i Mog a Paradise e stavo fuggendo nella notte con John e Sei. Credo di averle gridato che le volevo bene, mentre mi allontanavo. Non è stato un addio molto sentimentale, ma pensavo davvero che sarei tornato presto. Non pensavo certo che una razza di alieni ostili mi avrebbe fatto prigioniero.

«Sarà arrabbiata, eh?»

«È arrabbiata con me, non con te», replica papà. «Sarà contenta di sentire la tua voce e di sapere che sei sano e salvo.»

«Ehi, aspetta... l’hai vista?»

«Io e Adam siamo passati da Paradise prima di andare in New Mexico. Così ho scoperto che eri scomparso.»

«E lei sta bene? I Mog non le hanno dato la caccia?»

«No, a quanto pare. Ma non vuol dire che stia bene. La tua assenza l’ha fatta soffrire molto. Ha incolpato me, e non ha tutti i torti. Non mi lasciava entrare in casa, comprensibilmente, quindi abbiamo dovuto dormire nel mio bunker.»

«Con lo scheletro?»

«Sì. Un altro dei miei buchi di memoria: non ho idea a chi appartengano quelle ossa.» Papà mi guarda di sottecchi. «Non cambiare argomento.»

Una parte di me ha paura che mia madre mi metta in castigo per telefono, e l’altra teme che il suono della sua voce mi faccia venire voglia di lasciar perdere questa guerra e correre subito a casa. Sono combattuto. «È notte fonda, forse è meglio aspettare domani.»

Papà scuote la testa. «No, non possiamo rimandare, Sam. Chissà cosa può succederci domani.» Con un’improvvisa risolutezza digita il numero di casa. Appoggia il telefono all’orecchio e attende, nervoso.

Ho qualche ricordo dei miei genitori insieme: vecchi ricordi, di prima che lui scomparisse. Erano felici. Chissà cosa passa ora per la testa di mio padre, all’idea di doverle dire che non stiamo ancora tornando a casa. Probabilmente si sente in colpa quanto me.

«C’è la segreteria», dice dopo un momento. Sembra quasi sollevato. Poi copre il ricevitore con la mano. «Dici che devo...?» S’interrompe quando gli risuona all’orecchio il bip della segreteria telefonica. Muove le labbra senza emettere suoni, alla ricerca di qualcosa da dire. «Beth, sono...» balbetta, passandosi la mano libera tra i capelli. «Sono Malcolm. Non so da dove cominciare... la segreteria forse non è il mezzo migliore... ma sono vivo. Sono vivo, e mi dispiace, e mi manchi moltissimo.» Alza lo sguardo su di me: ha gli occhi lucidi. «Sam è con me. Sta bene. Ti prometto che avrò cura di lui. Un giorno, se me lo permetterai, ti spiegherò tutto. Ti amo.» Con mano tremante, mi porge il telefono.

Lo prendo. «Mamma?» Cerco di non pensare troppo, di essere spontaneo. «Finalmente ho trovato papà. O, per meglio dire, lui ha trovato me. Stiamo facendo una cosa fantastica, mamma. Una cosa che salverà il mondo... ma non è per niente pericolosa, te l’assicuro. Ti voglio bene. Torniamo presto.» Interrompo la chiamata e fisso il telefono per un momento prima di alzare lo sguardo su mio padre.

Ha ancora gli occhi lucidi. «Sei stato bravo», mi dice, posandomi una mano sul ginocchio.

«Spero di avere detto la verità.»

«Anch’io.»