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«Allora, quando andate in Florida?» mi chiede Sarah in tono disinvolto, quasi fosse una vacanza.

Sono esausto. Ma è una stanchezza piacevole: è stata una giornata produttiva. Non abbiamo sprecato tempo a fuggire e nasconderci. Abbiamo catalogato i contenuti dei nostri scrigni, Sam è riuscito a stampare documenti credibili e io mi sono allenato nella sala conferenze, che ora funziona di nuovo.

«Tra due giorni, spero.» Mi getto a terra, per fare una rapida serie di flessioni prima di dormire. «Domani voglio radunare tutti in sala conferenze, vedere che impressione facciamo tutti insieme. Non mi aspetto che sia molto difficile recuperare lo scrigno di Cinque, ma non si può mai sapere. Sarà bene che ci prepariamo a lavorare in gruppo. E poi partiremo.»

Sarah si è fatta taciturna. Siede sul bordo del letto – il nostro letto: è ancora strano chiamarlo così – con le gambe ripiegate sotto il corpo. È in pigiama: una maglietta grigia con lo scollo a V e un paio di boxer miei. Mi guarda, ma non mi ascolta. Mi schiarisco la voce; lei batte le palpebre e accenna un sorriso sghembo. «Scusa, mi hai distratta con le flessioni. Cosa stavamo dicendo?»

Mi siedo sul letto, accanto a lei; le passo le dita tra i capelli appena spazzolati. Lei mi sorride e all’improvviso mi passa la stanchezza. Mentirei se dicessi che non avevo pensato alle possibili conseguenze della condivisione di un letto. Da quando siamo a Chicago non abbiamo avuto un attimo di pace, tra gli incubi di Ella, la richiesta d’aiuto di Cinque, la mia insonnia. E, con tutti gli altri che dormono nelle stanze accanto, non ci sembra il caso.

«La Florida», le ricordo.

«Ah, sì. Hai vissuto lì per un po’, vero?»

«Sì, per qualche mese. Perché?»

«Cerco solo di colmare qualche lacuna. Ci sono ancora molte cose che non so di te, John Smith.» Mi posa la mano sulla guancia, lascia scorrere le dita lungo il collo e poi sulla spalla. «E poi parlare aiuta a distrarmi da quello che vorrei fare in realtà.»

Le passo una mano tra i capelli e poi sulla nuca; la faccio scorrere lentamente lungo la schiena. Sarah rabbrividisce; io mi avvicino e chino la testa verso di lei. «C’è molto silenzio, stasera. Credo che dormano tutti.»

Proprio in quel momento bussano alla porta. Sarah sbarra gli occhi, arrossisce e scoppia a ridere. «Il pessimo tempismo è una delle tue Eredità?»

Apro la porta e trovo Sei col cappotto addosso, come se fosse appena rientrata in casa. Guarda Sarah dietro di me, poi vede la mia espressione esasperata e fa un ghigno diabolico. «Oh, scusate. Vi ho interrotti?»

«Non fa niente», minimizzo. «Che succede?»

«Devi venire sul tetto. Bernie Kosar sembra impazzito.»

Infiliamo i vestiti sopra il pigiama e corriamo verso il tetto. Sento BK prima ancora di avere raggiunto le scale. Fa un rumore a metà tra l’ululato di un lupo e un elefante che sbuffa dalla proboscide: un verso intenso e struggente, non spiacevole ma decisamente ultraterreno.

«Non la smette più», dice Nove, massaggiandosi le tempie. Probabilmente è esausto perché ha usato la telepatia nel tentativo di calmare BK.

Bernie Kosar ha ancora le sembianze di un beagle, ma i contorni del suo corpo si gonfiano e si allungano in maniera imprevedibile, come se da un momento all’altro potesse trasformarsi in un altro animale. Lo strano verso che emette non è smorzato dal corno di cervo che stringe fra i denti, quello che era nello scrigno di Otto. Gocce di saliva scivolano lungo il corno e gli colano nel pelo. Si rizza sulle zampe posteriori e punta il muso verso la luna, continuando a mugolare quella strana melodia. Sembra in trance.

Otto si teletrasporta dal piano di sotto. «Ho detto a Sam e a Malcolm di monitorare i canali d’emergenza, nel caso qualche vicino impiccione chiami la polizia. Non so cosa gli sia preso, John, ma penso che in qualche modo c’entri quel corno.»

«Questo è sicuro.» Sei schiocca le dita all’indirizzo di BK. «Zitto, Bernie Kosar!»

BK non la sente neppure.

Vedo Marina sul bordo del tetto: sta usando la visione notturna per assicurarsi che nessuno ci abbia notati. Per fortuna il palazzo è alto e Chicago è rumorosa: non credo che qualcuno sentirà BK. Comunque non voglio rischiare.

«Avete provato a togliergli il corno?» chiedo.

«Sì», risponde Nove. «Non era per niente contento. Mi ha ringhiato contro, senza lasciarlo andare. Non volevo fargli male.»

«Non sembra la voce di BK», dice Sarah, guardandolo preoccupata.

«Pensi che sia l’equivalente di un incubo per le chimere?» suggerisce Sei.

Scuoto la testa. BK ha iniziato a comportarsi in modo strano da quando gli abbiamo dato quel corno. Sembra strano che un oggetto contenuto nei nostri scrigni possa danneggiarci. Anche il mio braccialetto, che all’inizio mi faceva malissimo, si è rivelato utile. Dev’esserci una spiegazione razionale per tutto questo.

«Dov’è Ella?» chiede Sarah. «Potrebbe essere qualcosa di simile ai suoi incubi?»

«Sta dormendo», risponde Marina. «E comunque questo sembra completamente diverso.»

Cerco di comunicare telepaticamente con BK. «Bernie Kosar, devi calmarti.» Ma non ottengo risposta. Non vedendo altra possibilità che cercare di strappargli il corno, mi faccio avanti.

Prima che io abbia fatto due passi BK si getta a terra e lascia andare il corno. Il suo ululato mi rintrona nelle orecchie per qualche secondo ancora. Recupero con la telecinesi il corno coperto di saliva. BK ansima allegro e ci guarda tutti.

Incrocio lo sguardo di Nove: siamo entrambi collegati telepaticamente a BK. «Sembra che non si sia reso conto di niente», dico.

«Sei ubriaco, BK?» chiede Nove, perplesso.

BK ci corre incontro scodinzolando. Sembra euforico, come dopo una lunga passeggiata.

«Ci hai fatto spaventare», gli dico. «Lo sai che hai fatto dei versi stranissimi, vero?»

BK si accuccia ai miei piedi.

Sarah si china a grattargli le orecchie. «Potete chiedergli cosa stava facendo?» dice a me e Nove.

«Ci sto provando», rispondo, e anche Nove annuisce, guardando fisso BK. «Sono un mucchio di immagini e di emozioni. Non frasi di senso compiuto.»

«Insomma, abbaia telepaticamente», osserva Otto.

Nove annuisce. «Più o meno.»

«Dice che...» M’interrompo per assicurarmi d’interpretare correttamente i pensieri di BK. «Dice che stava chiamando gli altri.» Prendo in mano il corno. «Credo che serva a questo.»

«Gli altri?» ripete Marina. «Le chimere dell’astronave di Ella?»

«Credo di sì.» Guardo BK e gli domando: «Pensi che ti abbiano sentito?»

BK si rotola sulla schiena e chiede a Sarah di grattargli la pancia. Suppongo che nella sua lingua equivalga a un’alzata di spalle.

«Non lo sa», riferisco.

Nove scrolla la testa. «Be’, crisi scongiurata. Me ne vado a letto. Possiamo dormire in pace per una notte senza grida né ululati, per cortesia?»

Tutti gli altri seguono Nove al piano di sotto, lasciando sul tetto soltanto me, Sarah e Bernie Kosar. L’aria della notte è fresca; ora che BK ha smesso di fare i suoi versi, c’è silenzio.

M’inginocchio accanto a Sarah e l’abbraccio. «Hai freddo?»

«Non proprio», risponde, sorridendomi. «Ma puoi continuare ad abbracciarmi. Ora capisco perché ti piace tanto stare quassù.»

Restiamo seduti lì per un po’, a guardare i grattacieli di Chicago. È uno di quei momenti perfetti, quelli che devo serbare per ricordarli quando le cose si metteranno male.

E poi, siccome forse ha ragione Sarah e il pessimo tempismo è una delle mie Eredità, una sagoma scura si staglia nel cielo notturno e schizza verso di noi.