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L’attico sembra ancora più grande dopo che John, Sei e Sarah se ne sono andati. Non mi capacito ancora delle dimensioni di questo appartamento: potrebbe contenere l’intero monastero di Santa Teresa. So che è stupido, ma mi ritrovo a camminare in punta di piedi per paura di disturbare le ricchezze accumulate da Nove e dal suo Cêpan.

Le piastrelle del bagno sono riscaldate: ti asciugano i piedi quando esci dalla doccia. Ripenso a tutte le volte che mi sono seduta sul materasso a togliere le spine dai piedi dopo avere camminato sulle vecchie assi di legno, a Santa Teresa. Mi domando cosa ne penserebbe Hectór di questo posto, e sorrido. Poi mi chiedo che genere di persona sarei se il mio Cêpan fosse stato Sandor anziché Adelina: un tutore brillante ma scrupoloso, che ama fare la bella vita ma non si sottrae mai al suo dovere. È un pensiero inutile, ma non riesco a scacciarlo.

Tuttavia se non fossi rimasta così a lungo a Santa Teresa non avrei mai conosciuto Ella. Non sarei andata sulle montagne con Sei e non avrei incontrato Otto. In fin dei conti, è valsa la pena di fare tutta quella fatica.

Soffoco uno sbadiglio. Nessuno di noi ha dormito granché stanotte, per l’emozione di avere trovato Cinque. Toccava a me dormire in camera con Ella e svegliarla se fosse stata preda degli incubi, ma ho paura che non abbia chiuso occhio tra la riunione e il suo turno per il monitoraggio di Cinque, insieme con Nove. Evidentemente passare del tempo con Nove le sembra più importante che riposare. Vorrei poterla aiutare, ma il mio tocco curativo non funziona nel mondo dei sogni.

La trovo rannicchiata su una poltrona del salotto. Nove russa rumorosamente sul divano; tra le mani ha il tubo telescopico di metallo che si trasforma nel bastone che l’ho visto usare con un’efficienza letale. Deve averlo tirato fuori dal suo scrigno quando pensava ancora di andare in missione con John. Stringe quell’arma tra le braccia come un orsacchiotto, e probabilmente sogna di uccidere Mogadorian.

«Dovresti dormire anche tu», sussurro.

Ella sposta lo sguardo da me a Nove. «Ha detto che voleva solo riposarsi gli occhi, e che poi mi avrebbe mostrato alcune tecniche di combattimento che spaccano di brutto.»

Mi viene da ridere: è buffo sentire Ella che imita la parlata di Nove. «Vieni, ci sarà tempo per allenarci.»

Nove borbotta qualcosa nel sonno e si gira affondando il viso nei cuscini del divano.

Ella si alza lentamente. «Mi piace Nove, perché se ne frega di tutto», dice quando usciamo in corridoio.

«In che senso?» le domando, perplessa.

«Non mi chiede mai come sto, non si preoccupa per me. Fa battute volgari e mi lascia camminare sulle sue spalle sospesa al soffitto.»

Rido, ma mi sento un po’ ferita. Ci preoccupiamo tutti per Ella, cerchiamo di farla parlare di Crayton – tra l’altro dovrei ancora indagare su quella lettera, come John mi ha chiesto di fare – e poi arriva Nove a distrarla dai suoi problemi facendo lo spaccone.

«Siamo solo preoccupati per te.»

«Lo so. Ma a volte preferisco non pensarci.»

Forse è il momento giusto per tentare quelle tecniche di «persuasione» di cui parlava John. «La mia Cêpan, Adelina, per molto tempo ha cercato di non pensare al suo destino... al nostro destino. Ma alla fine non ha avuto scelta: ha dovuto affrontarlo.»

Ella non dice niente, ma dalla sua espressione concentrata capisco che sta riflettendo sulle mie parole.

Anziché verso le camere da letto, la conduco al laboratorio di Sandor. Mi fermo davanti al tablet collegato al computer e osservo i puntini che rappresentano Quattro e Sei, in lento avvicinamento al puntino immobile di Cinque in Arkansas.

«Sei preoccupata per loro?» chiede Ella.

«Un po’», rispondo, ma so che andrà tutto bene. Sei è la persona più forte e coraggiosa che io conosca. E Quattro è proprio come Sei me lo aveva descritto: un bravo ragazzo, il leader di cui abbiamo bisogno, anche se a volte intuisco che non si sente all’altezza.

«Spero che Cinque sia un ragazzo», annuncia Ella. «Non ci sono abbastanza ragazzi per tutte noi.»

Resto interdetta per un momento, poi scoppio a ridere. «Stai già formando le coppie?»

Annuisce, con aria birichina. «John e Sarah, naturalmente. E tu e Otto.»

«Aspetta un attimo... Non c’è niente tra me e Otto.»

Ella ignora la mia obiezione. «Se quando cresco sposerò Nove, chi resta per Sei?»

«Chi è che si sposa?» Otto è sulla soglia, dietro di noi. Il suo caratteristico sorriso beffardo e ammaliante gli illumina il volto.

Da quanto stava lì? Io ed Ella ci scambiamo uno sguardo sorpreso e scoppiamo a ridere.

«E va bene, non me lo dite», aggiunge Otto, avvicinandosi per guardare il tablet.

Le nostre spalle si sfiorano; io non mi scosto. Ripenso ancora a quel bacio disperato che ci siamo scambiati in New Mexico. Probabilmente è stato il gesto più coraggioso di tutta la mia vita. Ma da allora non ci siamo più baciati, purtroppo. Abbiamo parlato a lungo, ci siamo raccontati aneddoti dei nostri anni di fuga, abbiamo confrontato i rispettivi ricordi di Lorien. Non si è mai presentata l’occasione giusta per andare oltre.

«Se la prendono comoda, eh?» dice Otto, guardando i puntini di Quattro e Sei che marciano verso sud.

«È un viaggio lungo.»

«Bene, così avremo un po’ di tempo.» Otto sorride. Indossa una maglietta rossa e nera con la scritta CHICAGO BULLS (che non so cosa indichi) e un paio di jeans. Fa un passo indietro e ci mostra i vestiti, come se chiedesse la nostra approvazione. «Sembro abbastanza americano, vestito così?»

 

 

«Sei sicuro che sia una buona idea?» Sono nervosa mentre l’ascensore scende dall’attico verso l’atrio del palazzo.

Otto è al mio fianco e non riesce a stare fermo per l’emozione. «Siamo qui da giorni e non abbiamo ancora visitato la città. Vorrei vedere qualcos’altro di questo Paese, a parte basi militari e appartamenti.»

«E se succede qualcosa mentre siamo via?»

«Torneremo prima ancora che i nostri compagni arrivino in Arkansas. Non succederà niente durante il viaggio. E, se succede qualcosa, Ella può usare la telepatia per richiamarci indietro.»

Penso a Nove, che dormiva ancora sul divano quando io e Otto gli siamo passati davanti; Ella ci ha guardati uscire, mi ha rivolto un sorriso d’intesa e si è seduta di nuovo sulla poltrona, accanto a Nove. «Nove non si arrabbierà se si sveglia e non ci trova?»

«E chi è, la nostra babysitter?» ribatte Otto. Sorridendo, mi scuote delicatamente per le spalle. «Rilassati, Marina. Facciamo i turisti per un paio d’ore.»

Guardando dalle finestre dell’attico di Nove, non mi ero mai resa conto davvero di quanto fossero affollate le strade del centro di Chicago. Usciamo nel sole di mezzogiorno e veniamo immediatamente accolti dal frastuono: le voci, i clacson... Mi ricorda la piazza del mercato in Spagna, ma moltiplicata per mille. Io e Otto allunghiamo il collo per guardare la cima dei grattacieli. Camminiamo lentamente, e la gente ci guarda male perché siamo d’intralcio.

È un’esperienza un po’ troppo intensa per me: non sono abituata a tutta questa gente e a questo rumore. Prendo Otto a braccetto, per evitare di perdermi tra la folla.

Lui mi sorride. «Dove andiamo?»

«Da quella parte.» Indico una direzione a caso.

Ci ritroviamo in riva al lago Michigan, dove c’è molto meno caos. Gli umani qui sono come noi: non hanno fretta di andare da nessuna parte. Qualcuno siede sulle panchine a mangiare il pranzo, altri corrono o vanno in bicicletta, oppure fanno ginnastica. All’improvviso mi sento triste per quelle persone: non hanno idea del rischio che stanno correndo.

Otto mi sfiora un braccio. «Sembri triste.»

«Scusa, stavo solo pensando.» Mi sforzo di sorridere.

«Devi pensare di meno. Stiamo facendo una passeggiata», replica lui, in tono di finto rimprovero.

Cerco di scacciare i brutti pensieri e di calarmi nei panni della turista.

Il lago è bellissimo, alcune barche solcano lentamente le acque cristalline. Passiamo davanti a statue e a bar coi tavolini all’aperto. Otto guarda tutto con interesse, cerca di assorbire il più possibile la cultura locale.

Ci fermiamo davanti a una grande scultura argentata che sembra un incrocio tra una parabola satellitare e una patata mezza sbucciata. «Sono convinto che quest’opera sia stata segretamente influenzata dal grande artista loric Hugo von Lore», dice Otto, accarezzandosi il mento con aria pensosa.

«Te lo sei inventato.»

Fa spallucce, ridacchiando. «Cercavo soltanto di fare la guida turistica.»

Il suo entusiasmo è contagioso, e ben presto anch’io inizio a inventare storie assurde per i monumenti che vediamo.

Quando mi rendo conto che siamo in riva al lago da più di un’ora, mi sento in colpa. «Forse dovremmo tornare a casa.» Mi sembra che ci stiamo sottraendo alle nostre responsabilità, anche se so che non abbiamo altro da fare che attendere.

«Aspetta, guarda lì.»

Dal tono di voce di Otto, mi aspetto di vedere un ricognitore mogadorian che ci tallona. Invece, seguendo il suo sguardo, vedo un uomo grassoccio con un carretto che vende hot- dog fatti secondo la ricetta «tipica di Chicago». Ne sta porgendo uno a un cliente: il panino stenta a contenere una quantità incredibile di cetriolini, fette di pomodoro e cipolla.

«È la cosa più mostruosa che io abbia mai visto!» esclama Otto.

Inizio a ridere, e rido ancora di più quando sento brontolare lo stomaco. «Non sembra malaccio.»

«Ti ho già detto che sono vegetariano?» fa Otto, ostentando disgusto. «Ma, se desideri quell’orribile intruglio, lo avrai. Non ti ho mai ringraziata come si deve.» E si avvia verso il carretto.

Io lo prendo per un braccio e lo tiro indietro.

Lui mi sorride. «Hai cambiato idea?»

«In che senso, non mi hai mai ringraziata come si deve? Per cosa?»

«Per avermi salvato la vita, in New Mexico. Hai spezzato la profezia, Marina. Setrákus Ra mi ha infilzato con la spada e tu... mi hai riportato in vita.»

Arrossisco e mi guardo i piedi. «Non è stato niente.»

«È stato letteralmente tutto per me.»

«In tal caso, credo di meritare qualcosa in più di un hot-dog pieno di grassi.»

Otto si porta le mani al petto, come se l’avessi ferito. «Hai ragione! Sciocco che sono, a pensare che la mia vita non valga più di un panino.» Mi prende per mano e s’inginocchia, posando la fronte sul dorso della mia mano. «Mia salvatrice, come potrò mai ripagarti?»

Sono in imbarazzo, ma non riesco a non ridere. Scocco occhiate compunte ai passanti intorno a noi, che osservano curiosi la sceneggiata di Otto: di certo ai loro occhi siamo due ragazzi normali che passano una bella giornata insieme. Faccio rialzare Otto e, senza smettere di tenerci per mano, riprendiamo a camminare sul lungolago. I raggi del sole si riflettono sulla superficie dell’acqua; non è proprio il mare di cui porto il nome, ma è bello lo stesso. «Ti do il permesso di promettermi altre giornate come questa.»

Otto mi stringe forte la mano. «Puoi contarci.»

 

 

Torniamo all’attico con la pancia piena di pizza. Manca ancora un po’ all’arrivo di Quattro e Sei in Arkansas, ed Ella non ci ha inviato messaggi telepatici. Tutto è come l’abbiamo lasciato.

A parte il fatto che Nove è sveglio, ed è così vicino alla porta dell’ascensore che quasi gli andiamo a sbattere contro. Non si muove di un millimetro, resta lì con le braccia conserte e ci punta addosso uno sguardo truce. «Dove siete stati, voi due?»

«Accidenti, da quanto ci aspettavi qui?» replica Otto, girandogli intorno. «Non ti fanno male i piedi?»

«Siamo usciti a fare due passi», spiego, imbarazzata. Ricordo quando mi sorprendevano a rientrare nell’orfanotrofio dopo il coprifuoco, e per un attimo immagino Nove che cerca di picchiarmi con un righello sulle nocche delle mani. «È tutto a posto?»

«Tutto bene», sbotta Nove, guardando più Otto che me. «Ma non potete andarvene a passeggio per la città senza dirmelo.»

«E perché no?»

«Perché non si fa», ringhia Nove. Capisco che sta pensando a cos’altro dire. «È irresponsabile, sconsiderato. E stupido.»

«Siamo usciti solo per un paio d’ore», dice Otto, seccato. «Non farmi la predica, non sei un Cêpan.»

È buffo vedere Nove così irritato per le nostre trasgressioni, calcolando ciò che ho sentito dire a Quattro a proposito dei loro viaggi insieme. Eppure, stranamente, mi fa anche tenerezza. Si sforza tanto di fare il duro, ma quando si è svegliato e ha scoperto che eravamo usciti si è preoccupato per noi.

Gli poso una mano sul braccio, per cercare di calmarlo. «Mi dispiace se ti abbiamo fatto stare in pensiero.»

«Non temere, non ero preoccupato», ribatte lui, tirando via il braccio, e torna a strillare a Otto: «Ti sembra una predica? Forse dovrei farvi sentire le prediche che mi beccavo io, quand’ero un ragazzino scemo e irresponsabile».

Otto gli agita le dita sotto il naso, per farlo arrabbiare di più. Di solito è simpatico quando lo fa, ma in questo caso preferirei che la smettesse. Nove gli si pianta davanti: sarebbero naso contro naso se Otto fosse un po’ più alto. Otto non arretra, continua a sorridere come se non lo prendesse sul serio.

«Coraggio», dice Nove a voce bassa. «Ti ho visto, in sala conferenze, a giocare a battimani con Sei. Non ti sei ancora allenato con me.»

Otto si guarda il polso, come per controllare un orologio immaginario. «Certo, volentieri. Ho un po’ di tempo libero.»

Nove sorride. Poi si rivolge a me. «Anche tu, infermiera Marina. Il tuo fidanzato avrà bisogno di te.»