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Marina si è impegnata molto con la cena. Ci sono vassoi pieni di riso e fagioli e tortilla, una scodella di gazpacho freddo, uno strano piatto a base di melanzane fritte e miele e un’altra decina di manicaretti spagnoli di cui non so neppure il nome. Avevo dimenticato quanto può essere buono il cibo preparato in casa, e mi abbuffo: prendo una seconda e una terza porzione di tutto quanto.

Siamo seduti sotto il grande lampadario nella sontuosa sala da pranzo di Nove. John e mio padre siedono a capotavola. Io sto tra papà e Nove.

«Assurdo, mai vista tanta gente a questo tavolo», borbotta Nove, infilandosi in bocca una tortilla.

Siamo tutti rilassati, chiacchieriamo e scherziamo. Cinque mangia molto e parla poco. Accanto a lui, Ella sembra non avere fame; è stanca ma sorridente e ride a tutte le battute. Sei è seduta davanti a me; cerco di non fissarla troppo.

Finita la cena, John si alza e richiama l’attenzione di tutti. Scocca un’occhiata a Sarah e riceve in cambio un sorriso d’incoraggiamento. Si schiarisce la voce, e mi rendo conto che ha riflettuto molto sulle parole che sta per dire. «È incredibile vederci tutti insieme. Abbiamo lottato molto per essere qui, ne abbiamo passate di cotte e di crude. Il fatto che siamo finalmente riuniti mi lascia sperare che possiamo davvero vincere questa guerra.»

Nove esulta in falsetto e tutti scoppiamo a ridere, anche John che aveva iniziato il discorso con un’espressione seria. Cinque si guarda intorno e accenna un sorriso, come se finalmente iniziasse a sentirsi più a suo agio.

«So che alcuni di noi s’incontrano oggi per la prima volta», continua John. «Quindi pensavo che ciascuno potrebbe raccontare la sua storia.»

«Sai che spasso», mormora Sei.

«So che alcune delle nostre storie – be’, probabilmente tutte – non sono molto allegre. Ma penso sia importante che tutti ricordiamo come siamo arrivati qui e per cosa combattiamo.»

Guardo Cinque, e capisco cosa sta facendo John: spera che, raccontando le loro storie, i Garde possano indurre Cinque ad aprirsi un po’.

«Essendo uno degli ultimi arrivati, mi piacerebbe molto sentire cosa vi è successo», dice mio padre.

«Sì, anche a me», interviene Cinque, cogliendo tutti di sorpresa.

«Va bene, inizio io.» John comincia a raccontare una storia che mi è molto familiare. Narra del suo arrivo a Paradise, dopo anni di viaggio. Racconta come ha conosciuto me e Sarah, e com’è diventato sempre più difficile tenere segrete le sue Eredità. Il racconto termina con la battaglia nel nostro liceo, l’arrivo di Sei all’ultimo momento e la morte di Henri. Restiamo tutti in silenzio perché non sappiamo cosa dire.

«Oh, cavoli, me n’ero quasi dimenticato», dice Nove all’improvviso. Infila una mano sotto la sedia e tira fuori una bottiglia di champagne in un secchiello del ghiaccio.

Scocco una rapida occhiata a mio padre, ma non sembra dell’umore giusto per comportarsi da adulto responsabile; anzi porge il bicchiere. Nove fa il giro della tavolata e versa da bere a tutti. Perfino a Ella, ma solo un goccio.

«Da dove viene?» chiede Otto.

«Dalla mia riserva segreta. Non preoccuparti.» Riempiti i bicchieri di tutti, Nove alza il suo. «A Henri.»

Tutti brindiamo a Henri.

John resta quasi impassibile, ma mi accorgo che è toccato da quel gesto; rivolge a Nove un cenno di riconoscenza. Nove è riuscito a stupire anche me: tra questa scena e il nostro discorsetto sulla soglia di poco fa, forse dovrò spostarlo dalla categoria «idioti irrecuperabili» a quella dei «lievemente scemi».

«Forse potreste reclutare tutta la città di Paradise e farla combattere per noi», dice Cinque. «Sembra un posto molto ospitale per gli alieni.»

«Dovremmo scriverlo sugli adesivi da paraurti.» Sorrido. «’Mio figlio prende ottimi voti e ha combattuto gli alieni al liceo di Paradise.’»

«Tocca a me», dice Sei. Racconta rapidamente la sua storia: la cattura, insieme con Katarina, la prigionia e la fuga.

«A Katarina.» Stavolta è John a proporre il brindisi.

Tutti alzano di nuovo i bicchieri e beviamo alla memoria della Cêpan di Sei.

«Ed è per questo che non si postano stronzate su Internet», dice Nove, riferendosi alla storia di Sei ma scoccando un’occhiataccia a Cinque, che lo guarda fisso e non ribatte.

«Eravate entrambi molto uniti coi vostri Cêpan», esordisce Marina. «La mia storia è un po’ diversa.» Ci racconta della sua infanzia in Spagna, ci spiega che Adelina la trascurava, non la addestrava come hanno fatto gli altri Cêpan coi loro Garde.

Sono un po’ stupito che una Loric si sia comportata così. Non mi era mai venuto in mente che potessero sottrarsi alle loro responsabilità.

È una storia molto triste, resa ancora più deprimente dal modo in cui Marina la racconta. Le si scalda la voce quando parla di Hectór, l’umano che ha scelto di proteggerla. Per certi versi la storia ha un lieto fine: Adelina accetta finalmente le proprie responsabilità, anche a costo della morte. Be’, non è proprio un lieto fine, ma per come lo racconta Marina sembra quantomeno eroico.

Otto alza il bicchiere. «A Hectór e Adelina.»

Tocca a Nove. A quanto pare, le sventure che lo hanno colpito sono colpa sua. Si è innamorato di una ragazza umana che lavorava in segreto per i Mogadorian, e che lo ha attratto in una trappola insieme col Cêpan. Non scende nei dettagli di quanto è accaduto dopo la cattura.

Poiché ho esperienza diretta delle cose orribili che succedono in West Virginia, lo sguardo cupo negli occhi di Nove al termine del racconto non mi stupisce affatto.

«A Sandor», dice John.

«A Sandor e al suo champagne», soggiunge Otto, e Nove sorride.

«Ti è andata bene, John.» Cinque indica col pollice Sarah. «Poteva essere anche lei una spia dei Mog.»

«Ehi, non fa ridere», protesta Sarah.

«L’hanno costretta», ringhia Nove, parlando della ragazza di cui era innamorato. «Nessun essere umano sano di mente lavorerebbe per quei figli di puttana.»

«Il governo sì, però...» dico, ricordando gli agenti che mi hanno trasportato dal West Virginia a Dulce.

Nove si volta verso di me. «Be’, un umano che collabora con quei mostri albini non può essere sano di mente.»

«O forse non lo fa di sua volontà», ribatte John. «Voglio credere che la maggior parte degli umani, se sapesse la verità, starebbe dalla nostra parte.»

«Un tempo non mi fidavo degli umani», interviene Otto. «Reynolds, il mio Cêpan, è stato tradito da una donna di cui si era innamorato. Ci ho messo un po’ per superare quel trauma, ma poi ho iniziato a credere che la natura umana sia intrinsecamente buona.» Prosegue raccontandoci come ha imparato a controllare le Eredità, e ci dice che alla fine si è messo in contatto con gli abitanti del villaggio che lo ritenevano la reincarnazione del dio Vishnu. Benché i Mogadorian sapessero dov’era, non sono riusciti a raggiungerlo perché un esercito umano lo proteggeva.

Cinque osserva Otto e annuisce, quasi abbia avuto un’illuminazione. «È fantastico. Gli hai fatto credere di essere una delle loro divinità.»

«Non li ho ingannati apposta», replica Otto, sulla difensiva. «Mi dispiace di non essere stato più sincero.»

«Non dovevi», continua Cinque. «Insomma, è bello fare amicizia con gli umani come hanno fatto John e Marina. E, in ogni caso, meglio che combattano per te piuttosto che complottare contro di te, no?» Guarda Nove. «Meglio esercitare il controllo che correre dietro alle belle ragazze accecati dall’amore.»

Nove si sporge in avanti, come se stesse per alzarsi. «Stai insinuando qualcosa?»

«Sono stati commessi degli errori, ma dobbiamo ricordare che gli umani combattono il nostro stesso nemico, anche se non lo sanno ancora», interviene John, in tono cauto. «Non possiamo vincere questa battaglia da soli.»

«All’umanità», dico scherzosamente, alzando il bicchiere. Tutti mi fissano, e io poso il bicchiere. Mi gira un po’ la testa.

C’è un momento di tensione. Nove sta ancora guardando storto Cinque.

Ella alza la mano. «Vorrei raccontare la mia storia.»

La sua storia è diversa da tutte le altre. Non è stata inviata sulla Terra insieme con gli altri Garde: suo padre, ricco ed eccentrico, l’ha caricata su un’astronave insieme col maggiordomo di famiglia e con alcune chimere. Guardandomi intorno, ho l’impressione che alcuni degli altri Garde non lo sapessero. John sembra piuttosto confuso, e Sei ascolta attentamente.

«Ella, è incredibile», commenta John. «Quando hai saputo tutto questo?»

«Ieri», risponde lei. «Era scritto nella lettera di Crayton.»

Marina alza il bicchiere. «A Crayton. Un grande Cêpan.»

Tutti brindiamo. Ella resta in silenzio. Capisco che quel Crayton era importante per lei.

«Se la nostra astronave non fosse riuscita ad arrivare sulla Terra, avresti dovuto salvare il pianeta da sola», le dice Cinque, pensieroso.

Ella sbarra gli occhi. «Non ci avevo mai pensato.»

Nove sorride. «Ci saresti riuscita lo stesso.»

«Allora...» John si volta a guardare Cinque. «Ti abbiamo raccontato come siamo arrivati qui. Adesso è il tuo turno: come sei riuscito a restare nascosto così a lungo?»

«Sì, sputa il rospo», gli fa eco Otto.

Cinque si lascia scivolare in avanti sulla sedia. Per un attimo penso che voglia tacere sperando che tutti si dimentichino di lui, come un bambino che si nasconde all’ultimo banco. È bravissimo a fare commenti sarcastici mentre parlano gli altri, ma quand’è il momento di raccontare la sua storia è molto reticente. «Non è... be’, non è emozionante come le vostre storie», inizia dopo un momento. «Non abbiamo fatto niente di speciale per restare nascosti. Penso che sia stato solo fortuna. Abbiamo trovato posti in cui i Mogadorian non sono venuti a cercarci.»

«E dove, di preciso?» chiede John.

«Isole. Piccole isole su cui nessuno avrebbe pensato di andare a guardare. Alcune non erano neppure sulle mappe. Ci spostavamo da un’isola all’altra, come voi vi spostate di città in città. A intervalli di qualche mese andavamo su un’isola più popolosa – Giamaica, Puerto Rico – e barattavamo alcune delle nostre gemme in cambio di provviste. Per il resto del tempo ce ne stavamo per conto nostro.»

«Cos’è successo al tuo Cêpan?» domanda Marina.

«Be’, questo ce l’ho in comune con tutti voi. È morto. Si chiamava Albert.»

«I Mogadorian?» chiede Nove.

«No, no, niente del genere», risponde Cinque. «Non c’è stato un nobile sacrificio o una grande battaglia. Si è ammalato, e dopo un po’ è morto. Credo che fosse più vecchio dei vostri Cêpan, da come li descrivete. Avrebbe potuto spacciarsi per mio nonno. Penso che il viaggio verso la Terra lo abbia affaticato molto; si ammalava in continuazione. Il clima caldo lo aiutava un po’, penso. Eravamo su un’isoletta dei Caraibi meridionali quando si è aggravato. Non sapevo come aiutarlo...» Cinque scuote il capo.

Restiamo tutti in silenzio, gli lasciamo tempo.

«Non voleva che io chiamassi un dottore. Era troppo preoccupato che i medici scoprissero qualcosa visitandolo, e che i Mogadorian lo venissero a sapere. Non avevo mai neppure visto un Mog, prima di oggi. Pensavo che fosse tutta una montatura.» Cinque fa una risata amara, quasi fosse arrabbiato con se stesso. «Per un po’ mi sono perfino convinto che Albert fosse un vecchio pazzo e mi avesse rapito. Che m’incidesse quelle cicatrici sulla gamba mentre dormivo.»

Cerco d’immaginare come dev’essere stata la vita per Cinque, senza mai interagire con nessun altro che un vecchio malato. In parte, questo spiega la sua timidezza.

«Solo quando mi sono accorto di poter usare la telecinesi ho iniziato davvero a credere ad Albert. Ed è stato allora che lui si è ammalato seriamente. Sul letto di morte mi ha fatto promettere che, una volta sviluppate appieno le mie Eredità, vi avrei cercati. Fino ad allora sarei dovuto restare nascosto.»

«Ci sei riuscito alla grande», commenta Sei.

«Mi dispiace per Albert», aggiunge Ella.

«Grazie. Era un brav’uomo e vorrei averlo ascoltato di più», dice Cinque. «Dopo che se n’è andato, è stato facile continuare a vivere come prima, saltando da un’isola all’altra e mantenendo le distanze da tutti. Mi sentivo... solo, direi. Le giornate sembravano tutte uguali. Alla fine si sono sviluppate le mie altre Eredità e sono venuto negli Stati Uniti, sperando di trovarvi.»

«Cosa ne è stato del tuo scrigno?» chiede John.

«Ah, già, quello.» Cinque si gratta nervosamente una tempia. «Mi spostavo quasi sempre via mare. Albert mi aveva insegnato a scegliere le navi che... insomma, quelle in cui ti fanno meno domande. Quando sono arrivato in Florida, c’erano più persone di quante fossi abituato a vederne. Un ragazzino da solo, che si portava in giro quel maledetto scrigno... mi sembrava che tutti mi fissassero. Come se avessi trovato un tesoro sepolto su una delle isole, o roba del genere. Forse ero paranoico, ma temevo che me lo rubassero.»

«E allora cos’hai fatto?» insiste John.

«Non mi sembrava intelligente continuare a portarmelo dietro. Ho trovato un posto isolato nelle Everglades e l’ho sepolto lì.» Cinque si guarda intorno. «È stata una cattiva idea?»

«Io ho seppellito il mio più o meno per lo stesso motivo», rivela Sei. «Quando sono andata a riprenderlo, non c’era più.»

«Oh, merda!» sbotta Cinque.

«Se sei bravo a nascondere lo scrigno come a nascondere te stesso, sono sicuro che è ancora lì», dice Otto.

«Sarà meglio andare a prenderlo al più presto», suggerisce John.

Cinque annuisce. «Sì, certo. Ricordo esattamente dove l’ho messo.»

«Gli scrigni sono indispensabili», interviene mio padre. Si pizzica la radice del naso, un gesto che ha preso l’abitudine di fare ogni volta che fatica a ricordare qualcosa. «Ciascuno degli scrigni contiene qualcosa di particolare – non so bene cosa, né come funzioni – ma ci sono oggetti che vi aiuteranno a rimettervi in contatto con Lorien, quando arriverà il momento.»

Tutti lo fissano rapiti.

«Come fai a saperlo?» chiede John.

«Io... lo ricordo.»

Nove guarda me, poi chiede a mio padre: «Com’è possibile?»

«Credo che sia arrivato il momento di raccontare la mia storia», dice papà. «Vi avverto, ho dei buchi di memoria. I Mogadorian mi hanno fatto qualcosa. Hanno cercato di strapparmi via i ricordi dal cervello. Ora mi stanno tornando, ma a brandelli. Vi dirò quello che posso.»

«Ma come l’hai scoperto?» chiede Otto. «Neppure noi capiamo sino in fondo cosa c’è nei nostri scrigni.»

Mio padre rimane in silenzio per un momento, guardando gli altri a uno a uno. «Lo so perché me l’ha detto Pittacus Lore.»