A CASA

A volte mi sembrava d’aver lasciato l’Inghilterra in modo subdolo. Avevo ricevuto la migliore istruzione inglese, avevo assorbito il meglio del linguaggio e della prosa inglesi, tutte le consuetudini e le tradizioni di un migliaio di anni, e adesso ecco: stavo portando quel prezioso carico intellettuale, tutto quello che era stato investito su di me, fuori dal mio paese senza neanche un «grazie» o un «arrivederci».

Nondimeno, continuai a considerare l’Inghilterra come la mia casa, ci tornavo appena mi era possibile e ogni volta che mettevo piede sul suolo patrio mi sentivo più solido – uno scrittore migliore. Mi tenni in stretto contatto con i parenti, gli amici e i colleghi che avevo in Inghilterra, e fingevo che i miei dieci, venti, trent’anni in America non fossero altro che una visita prolungata e che, prima o poi, sarei tornato a casa.

La mia percezione dell’Inghilterra come «casa» subì un colpo nel 1990, quando mio padre morì e vendemmo Mapesbury Road: la casa dove ero nato e cresciuto; la casa dove andavo in visita, e spesso mi fermavo, quando tornavo in Inghilterra; la casa in cui ogni centimetro era imbevuto, per me, di ricordi ed emozioni. Adesso non sentivo più di avere un posto in cui tornare, e da allora le mie visite presero, appunto, il sapore di visite, e non quello di un ritorno al mio paese e alla mia gente.

Ciò nonostante, ero stranamente orgoglioso del mio passaporto britannico, che (prima del 2000) aveva una grande, bellissima copertina rigida con scritte impresse in oro, ben diverso dalle cosucce prive di consistenza emesse dalla maggior parte degli altri stati. Non ho cercato la cittadinanza americana e mi sono contentato di una carta verde: di essere considerato uno «straniero residente». Questo era, almeno nella maggior parte dei casi, in armonia con il modo in cui mi sentivo: uno straniero amico, rispettoso, attento a tutto ciò che gli accade intorno ma senza responsabilità civili come il voto, il dovere di servire da giurato o la necessità di aderire alla condotta e alla politica del paese. Spesso mi sentivo (come Temple Grandin aveva detto di se stessa) un antropologo su Marte (un sentimento che avvertivo molto meno ai tempi in cui vivevo in California, quando mi pareva di essere tutt’uno con le montagne, le foreste e i deserti dell’Ovest).

E poi, nel giugno del 2008, con mia sorpresa, seppi che il mio nome era stato inserito nella Honours List, tra quelli delle persone che ricevono un’onorificenza in occasione del compleanno della regina – che sarei diventato Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico. Il termine «Comandante» mi stuzzicava – proprio non riuscivo a immaginare me stesso dare ordini sul ponte di un cacciatorpediniere o di una corazzata –, ma nel ricevere l’onorificenza provai una commozione singolare e molto profonda.

Benché io non sia fatto per l’abbigliamento formale e per le formalità in genere – di norma porto vecchie cose un po’ trasandate e ho un solo abito elegante –, i cerimoniali di Buckingham Palace mi piacquero molto: fui istruito sul modo di inchinarsi, su come camminare a ritroso davanti alla regina, e su come attendere che fosse lei a porgermi la mano o a rivolgermi la parola (la persona reale non può essere toccata, né le si può parlare, senza un invito esplicito). Avevo un po’ paura di fare qualcosa di spaventoso di fronte alla regina – cose come svenire o mollare un peto –, invece andò tutto bene. Durante la cerimonia rimasi molto impressionato dalla resistenza della sovrana: quando fui chiamato, erano più di due ore che stava in piedi, eretta, senza alcun appoggio (quel giorno c’erano duecento persone cui conferire un’onorificenza). Mi parlò brevemente ma usando toni cordiali, e mi chiese su che cosa stessi lavorando. Ebbi la sensazione di una brava persona, molto gentile e dotata di umorismo. Era come se la regina e l’Inghilterra mi stessero dicendo: «Lei ha fatto un lavoro utile e meritorio. Torni a casa. Tutto è perdonato.»

 

 

 

Il lavoro di scrittura su Vedere voci, l’Isola o Zio Tungsteno non prese il posto della mia vita da medico e delle visite ai pazienti: continuai a vedere i ricoverati al Beth Abraham, dalle Piccole Sorelle e altrove.

Nell’estate del 2005 andai in Inghilterra per visitare Clive Wearing, lo straordinario musicista amnesico che era stato il protagonista di Prisoner of Consciousness, il documentario di Jonathan Miller del 1986. La moglie di Clive, Deborah (con la quale ero stato in corrispondenza nel corso degli anni), aveva appena pubblicato un libro straordinario su di lui, e sperava che potessi vedere come stava il marito a distanza di vent’anni dalla sua disastrosa encefalite. Benché non potesse ricordare quasi nulla della sua vita adulta e non riuscisse ad aggrapparsi a nuovi eventi per più di qualche secondo, Clive era ancora in grado di suonare l’organo e di dirigere un coro, proprio come aveva fatto un tempo, da musicista di professione qual era. Dimostrava il particolare potere della musica e della memoria musicale, e io volevo scrivere di questi argomenti. Riflettendo su questo e su molti altri temi «neuromusicali», mi convinsi di dover provare a mettere insieme un libro su musica e cervello.

Musicofilia – così il libro fu poi intitolato – iniziò come un progetto modesto: pensavo che sarebbe stato un volumetto di forse tre capitoli. Ma quando cominciai a pensare alle persone con sinestesia musicale; ai soggetti con amusia, che non riescono a riconoscere nessuna musica; ai pazienti con demenza frontotemporale, che possono avere un’improvvisa esplosione o liberazione di talenti e passioni musicali insospettati; a quelli con epilessie musicali, o con crisi epilettiche indotte dalla musica; e a coloro che sono tormentati da «tarli» musicali, o da immagini musicali ripetitive, o ancora da vere e proprie allucinazioni musicali, il libro andò facendosi sempre più grosso.

Ero anche affascinato dal potere terapeutico della musica, fin da quando l’avevo constatato nei miei pazienti postencefalitici quarant’anni prima: prima ancora che fossero risvegliati dalla L-dopa. Da allora ero rimasto colpito osservando come la musica possa aiutare pazienti con molti altri disturbi, quali amnesia, afasia, depressione e perfino demenza.

Da quando fu pubblicata la prima edizione del Cappello, nel 1985, ho ricevuto un flusso crescente di corrispondenza da parte dei lettori, che spesso mi offrono la descrizione delle loro esperienze. Questo ha allargato il numero dei miei pazienti, per così dire, ben oltre i confini del mio studio. Alcune di queste lettere e di questi racconti, non meno della mia corrispondenza e dei miei incontri con medici e ricercatori, hanno enormemente arricchito Musicofilia (e, in seguito, Allucinazioni).

Inoltre, mentre scrivevo di molti argomenti e pazienti nuovi in Musicofilia, ne rivisitai alcuni sui quali avevo scritto in precedenza; questa volta però mi concentrai sulle loro risposte alla musica e li considerai alla luce delle nuove tecniche di imaging cerebrale e delle nuove idee sul modo in cui il cervello-mente crea costrutti e categorie.

 

Appena compiuti i settant’anni, godevo di una salute eccellente; avevo qualche problema ortopedico, ma nulla di serio o che mettesse a rischio la mia vita. Non pensavo mai molto alla malattia o alla morte, benché avessi perso tutti i miei tre fratelli maggiori, e anche diversi amici e coetanei.

Nel dicembre del 2005, però, un cancro si palesò in modo improvviso e drammatico: era un melanoma all’occhio destro, e si presentò dapprima con una fulminea incandescenza su un lato, e poi con una parziale cecità. Probabilmente stava crescendo lentamente già da un po’ di tempo e a questo punto era arrivato vicino alla fovea, la piccola area centrale in cui la visione è più acuta. Il melanoma ha una pessima reputazione e, quando mi venne formulata la diagnosi, la presi come una sentenza di morte. I melanomi oculari, però, come mi disse subito il medico, sono relativamente benigni: è raro che diano metastasi e sono in larga misura trattabili.

Il tumore fu irradiato e poi attaccato a più riprese con il laser, perché in alcune aree continuava a riformarsi. Nei primi diciotto mesi di trattamento, la vista dell’occhio destro fluttuò pressoché ogni giorno, passando dalla quasi cecità alla quasi normalità – e con queste fluttuazioni io ero scagliato dal terrore al sollievo e nuovamente al terrore: da un estremo emotivo all’altro.

Sarebbe stato difficile sopportare tutto questo (e vivere con me sarebbe stato ancora più arduo) se non avessi trovato interessantissimi alcuni dei fenomeni visivi che si verificarono quando, a poco a poco, la mia retina e la mia vista furono erose dal tumore e dal laser: le assurde distorsioni topologiche, i disturbi della percezione cromatica, il riempimento – geniale, ma automatico – dei punti ciechi, l’incontinente diffusione del colore e della forma, la percezione di oggetti e scene che si protraeva a occhi chiusi e, non ultimo, le diverse allucinazioni che adesso sciamavano nei miei punti ciechi, peraltro sempre più ampi. Era chiaro che in tutto questo il mio cervello era implicato al pari dell’occhio.

La cecità mi faceva paura, ma ancora di più temevo la morte, e quindi feci una sorta di patto con il melanoma: se proprio devi, prenditi l’occhio, gli dissi, ma lascia stare il resto.

Nel settembre del 2009, dopo tre anni e mezzo di trattamenti, la retina del mio occhio destro, resa fragile dalle radiazioni, andò incontro a un’emorragia che lo accecò completamente; i tentativi di rimuovere il sangue fallirono, perché la retina tornò immediatamente a sanguinare. In assenza di visione binoculare, si presentarono adesso molti nuovi fenomeni invalidanti (ma a volte interessantissimi!) con cui combattere – e da studiare. Per me, stereofilo come sono, la perdita della visione stereoscopica non fu soltanto una triste privazione, ma spesso si rivelò anche pericolosa. Senza la percezione della profondità, gradini e cordoli mi apparivano semplicemente come altrettante linee tracciate sul terreno, e gli oggetti distanti sembravano trovarsi sullo stesso piano di quelli più vicini. Con la perdita del campo visivo alla mia destra, incappai in molti incidenti, entrando in collisione con oggetti o persone che sembravano comparire all’improvviso di fronte a me, sbucando minacciosi dal nulla. Inoltre, sulla destra, non ero cieco solo fisicamente, ma anche mentalmente. Non riuscivo più nemmeno a immaginare la presenza di ciò che non potevo più vedere. Tale eminattenzione, come la chiamano i neurologi, è solitamente il risultato di un ictus o di un tumore nelle aree visive o nelle regioni parietali del cervello. Per me, come neurologo, questi fenomeni erano particolarmente interessanti, in quanto offrivano una stupefacente panoramica del modo in cui il cervello lavora (o lavora male, o cessa di lavorare) quando le afferenze sensoriali sono deficitarie o anormali. Documentai e studiai tutto questo nei minimi dettagli (i miei diari del melanoma arrivarono a novantamila parole) eseguendo esperimenti di ogni genere sulla percezione. L’intera esperienza, come quella della gamba, divenne un experimentum suitatis, un esperimento con – o su – me stesso.

Le conseguenze a livello percettivo del danno subito dal mio occhio costituivano un fertile terreno di indagine: mi sembrava di scoprire un intero mondo di strani fenomeni, benché non potessi fare a meno di pensare che di sicuro tutti i pazienti con problemi oculari come il mio sperimentavano alcuni dei miei stessi disturbi percettivi. Scrivere delle mie esperienze, quindi, sarebbe stato anche scrivere per loro. D’altra parte, il senso di scoperta era esaltante e – insieme alle visite ai pazienti e all’attività di scrittura, che continuarono anche in quel periodo – mi consentì di superare quelli che altrimenti avrebbero potuto essere anni decisamente spaventosi e demoralizzanti.

 

Stavo lavorando a pieno ritmo su un nuovo libro, L’occhio della mente, quando si abbatté su di me una nuova serie di incidenti e di interventi chirurgici che mi misero a dura prova. A settembre del 2009, subito dopo l’emorragia all’occhio destro, dovetti subire la sostituzione totale del ginocchio sinistro (anche da questo evento, ovviamente, scaturì un modesto diario). Mi dissero che dopo l’intervento avevo una finestra di circa otto settimane per riacquistare la piena mobilità dell’articolazione; se non ci fossi riuscito in quell’arco di tempo, avrei avuto la gamba rigida per il resto della vita. Allenare il ginocchio, eliminare le aderenze del tessuto cicatriziale, sarebbe stato molto doloroso. «Non faccia l’eroe» mi disse il chirurgo. «Può prendere tutti gli analgesici che vuole». I miei fisioterapisti, inoltre, parlavano del dolore i termini quasi amorosi. «Lo accolga» dicevano. «Ci sprofondi dentro». Era un «dolore buono», insistevano, e se volevo riacquistare la completa motilità dell’arto nella breve finestra temporale disponibile era fondamentale che mi spingessi al limite.

La riabilitazione stava procedendo bene, e ogni giorno riacquistavo la motilità e le forze, quando fui colpito da un ulteriore disturbo, quanto mai sgradito: la sciatica con cui combattevo da molti anni riemerse a poco a poco, all’inizio in modo strisciante, ma raggiungendo ben presto un’intensità che si spingeva oltre qualsiasi cosa avessi conosciuto prima.

Lottai per continuare la riabilitazione e mantenermi attivo, ma il dolore della sciatica mi annientava, e a dicembre fui costretto a letto. Mi era avanzata parecchia morfina dall’intervento al ginocchio: era stata preziosa per aiutarmi con il dolore «buono», ma era pressoché inutile contro quello nevralgico, tipico di un nervo spinale schiacciato (questo vale per tutto il dolore «neuropatico»). Divenne assolutamente impossibile stare seduto, anche solo per un secondo.

Non ero in grado di sedere e suonare il pianoforte: una privazione dolorosa, perché dopo aver compiuto settantacinque anni avevo ricominciato a suonare e a prendere lezioni di musica (avevo scritto che anche le persone più anziane possono apprendere nuove abilità, e quindi pensavo fosse mio dovere seguire il mio consiglio). Cercai di suonare stando in piedi, ma trovai la cosa impossibile.

Svolgevo tutto il mio lavoro di scrittura stando in piedi; mi costruii, sopra allo scrittoio, un piano di lavoro speciale, più alto, utilizzando come appoggio dieci volumi dell’Oxford English Dictionary. Scoprii che la concentrazione richiesta dal lavoro di scrittura funzionava quasi come la morfina, e non aveva effetti collaterali. Detestavo stare a letto, in un inferno di dolore, e passavo quante più ore potevo a scrivere, in piedi, servendomi del mio podio-scrittoio improvvisato.

In quel periodo, in effetti, parte di ciò che pensavo, scrivevo e leggevo riguardava il dolore, un tema su cui non avevo mai riflettuto veramente. La mia recente esperienza personale, dispiegatasi nell’arco di due mesi, mi aveva mostrato che esistono almeno due tipi di dolore, radicalmente diversi. Il dolore causato dall’intervento al ginocchio era interamente locale; non si diffondeva oltre l’area dell’articolazione e dipendeva completamente dal modo in cui stiravo i tessuti operati e contratti. Potevo facilmente quantificarlo su una scala da zero a dieci e soprattutto, come dicevano i fisioterapisti, era un «dolore buono», un dolore che era possibile accogliere, su cui si poteva lavorare, e che si poteva vincere.

Il dolore della «sciatica» (un termine inadeguato) era qualitativamente del tutto diverso. Tanto per cominciare, non era locale: si diffondeva ben oltre l’area innervata, sul lato destro del corpo, dalle radici lesionate del mio nervo L5. Non era una risposta prevedibile a uno stimolo di stiramento, come il dolore al ginocchio. Arrivava invece sotto forma di parossismi improvvisi, assolutamente imprevedibili, ai quali non vi era modo di prepararsi: non si potevano stringere i denti in anticipo. Quanto alla sua intensità, era fuori scala; non era quantificabile; era, semplicemente, devastante.

Peggio ancora, questo secondo tipo di dolore aveva una sua componente emotiva che trovavo difficile descrivere, una componente di tormento, angoscia, orrore – parole che tuttavia ancora non ne colgono l’essenza. Il dolore nevralgico non può essere «accolto», non ci si può combattere, né ci si può adattare. Ti schiaccia riducendoti a una sorta di poltiglia tremante, quasi incapace di pensiero; sotto l’attacco sferrato da un dolore del genere, tutta la forza di volontà, la propria stessa identità, scompaiono.

Rilessi i grandissimi Studies in Neurology di Henry Head, in cui l’autore contrappone le sensazioni «epicritiche» – precisamente localizzate e discriminate, proporzionali alla stimolazione – alle sensazioni «protopatiche»: diffuse, cariche di emotività, parossistiche. Questa dicotomia sembrava corrispondere bene ai due tipi di dolore che avevo provato, e mi interrogai sull’opportunità di scrivere, sul tema del dolore, un saggio o un libro breve e molto personale, riesumando, fra le altre cose, i termini e le distinzioni da tempo dimenticati di Head (ho tormentato a lungo con le mie riflessioni amici e colleghi, ma non ho mai completato il saggio che avevo intenzione di scrivere).

A dicembre la mia sciatica era diventata così insostenibile da rendermi impossibile leggere, pensare o scrivere, e per la prima volta in vita mia pensai al suicidio.85

L’intervento di chirurgia spinale fu programmato per l’8 dicembre. Ormai prendevo forti dosi di morfina, e il mio chirurgo mi aveva messo in guardia: per un paio di settimane dopo l’operazione, a causa dell’edema postoperatorio, il dolore sarebbe anche potuto peggiorare – il che fu proprio ciò che accadde. Il mese di dicembre del 2009, quindi, continuò su toni molto cupi, e forse tutte le mie sensazioni – gli sbalzi spesso improvvisi tra speranza e paura – furono amplificate dai farmaci pesanti che assumevo per il dolore.

Incapace di rimanere a letto ventiquattr’ore al giorno, ma dovendo ancora stare steso, cominciai (con una mano appoggiato al bastone, con l’altra aggrappato al braccio di Kate) ad andare al mio studio, dove almeno potevo dettare lettere e rispondere al telefono, dando ad intendere che fossi tornato al lavoro, mentre giacevo sul divano.

 

 

 

Nel 2008, poco dopo il mio settantacinquesimo compleanno, incontrai una persona, uno scrittore, che mi piacque: Billy si era appena trasferito da San Francisco a New York, e cominciammo a cenare insieme. Timido e inibito per tutta la vita, lasciai che tra noi crescessero amicizia e intimità, forse senza comprendere appieno quanto fossero profonde. Lo capii soltanto a dicembre dell’anno dopo, mentre stavo ancora riprendendomi dagli interventi al ginocchio e alla schiena, ed ero tormentato dal dolore.

Billy stava andando a Seattle per passare il Natale con la sua famiglia; proprio prima di partire venne a trovarmi e (con quel suo modo di fare serio e pieno di attenzione) disse: «Mi è nato dentro un amore profondo per te». Quando lo disse, compresi quello che prima d’allora non avevo capito o avevo nascosto a me stesso, e cioè che anche in me era nato un amore profondo per lui, e mi si riempirono gli occhi di lacrime. Lui mi baciò, e se n’era già andato.

Pensai a Billy quasi costantemente durante la sua assenza, ma poiché non volevo disturbarlo mentre stava con i suoi, aspettavo – con una grande ansia associata a una sorta di trepidazione – che mi telefonasse lui. Nei giorni in cui non riusciva a farlo alla solita ora, mi assaliva il terrore che fosse rimasto ferito o ucciso in un incidente stradale e quando finalmente mi chiamava, un paio d’ore dopo, quasi singhiozzavo dal sollievo.

Fu un periodo segnato da un’intensa emotività: la musica che mi piaceva o il lungo tramonto dorato, nel tardo pomeriggio, mi facevano piangere. Non sapevo bene per che cosa stessi piangendo, ma provavo, inseparabilmente mescolate, sensazioni intense di amore, morte e transitorietà.

Disteso a letto, tenevo un taccuino dove annotavo tutti i miei sentimenti – un taccuino su «innamorarsi». Billy tornò la sera del 31 dicembre, portando una bottiglia di champagne; l’aprì e brindammo l’uno all’altro, dicendo «a te»; e poi, quando arrivò, brindammo all’anno nuovo.

 

Nell’ultima settimana di dicembre il dolore al nervo aveva cominciato ad attenuarsi. Forse perché l’edema postoperatorio si stava risolvendo? Oppure – ipotesi che non potei fare a meno di considerare – perché la gioia di essere innamorato teneva testa alla nevralgia e poteva alleviare il dolore quasi come il Dilaudid o il fentanyl? Il fatto stesso di essere innamorato inondava forse l’organismo di oppioidi o di cannabinoidi o di qualsiasi altra cosa?

In gennaio ero tornato a scrivere sul mio scrittoio improvvisato con l’Oxford English Dictionary e adesso ero anche in grado di uscire un po’, a condizione che fosse possibile restare in piedi. Ai concerti e alle conferenze mi mettevo in piedi in fondo alla sala, andavo al ristorante purché avessero un bar dove potevo starmene al banco, e ripresi le sedute dal mio analista, anche se dovevo affrontarlo stando in piedi, nello studio dove riceveva. Tornai al manoscritto dell’Occhio della mente, che avevo abbandonato quando ero rimasto confinato a letto.

 

A volte mi è sembrato di aver vissuto a una certa distanza dalla vita. Questo cambiò quando Bill e io ci innamorammo. A vent’anni mi ero innamorato di Richard Selig, e a ventisette, tormentosamente inappagato, di Mel; a trentadue anni, in modo ambiguo, di Karl; e adesso (santo cielo!) ero quasi nel mio settantasettesimo anno.

Si imponevano cambiamenti profondi, quasi geologici; nel mio caso a dover cambiare erano le consuetudini di un’intera vita solitaria, insieme a una sorta di implicito egoismo e di eccessiva concentrazione su me stesso. Entravano nella vita nuove esigenze e nuove paure: il bisogno dell’altro, la paura dell’abbandono. Dovevano esserci profondi adattamenti reciproci.

Per Billy e me, tutto questo fu reso più facile dagli interessi e dalle attività condivise; siamo entrambi scrittori, e in effetti è così che ci siamo incontrati. Avevo letto le bozze del suo libro The Anatomist, e lo avevo ammirato. Gli scrissi e gli proposi di incontrarci, se fosse capitato sulla East Coast (cosa che accadde durante una sua visita a New York nel settembre del 2008). Di lui mi piacevano l’intelligenza, al tempo stesso seria e vivace, la sensibilità verso i sentimenti degli altri, e la combinazione di sincerità e delicatezza. Per me, stare tranquillamente disteso fra le braccia di qualcuno e parlare, o ascoltare la musica, o restare in silenzio – insieme – era un’esperienza nuova. Insieme, imparammo a cucinare e a mangiare come si deve; fino allora mi ero più o meno nutrito di cereali o sardine, che mangiavo in piedi, in trenta secondi, prendendole direttamente dalla scatoletta. Cominciammo a uscire insieme – a volte per andare ai concerti (cosa che piaceva molto a me), a volte per visitare le gallerie d’arte (cosa che piaceva molto a lui), e spesso all’orto botanico di New York, dove avevo vagabondato, da solo, per più di quarant’anni. E poi cominciammo a viaggiare insieme: andammo nella mia città, Londra, dove presentai Billy ad amici e parenti; e nella sua città, San Francisco, dove ha molti amici; e poi in Islanda, per la quale abbiamo entrambi una passione.

Spesso nuotiamo insieme, a casa o all’estero. A volte ci leggiamo l’un l’altro i nostri lavori a mano a mano che prendono forma, ma soprattutto, come qualsiasi altra coppia, parliamo di quello che stiamo leggendo, guardiamo vecchi film alla televisione, contempliamo il tramonto o pranziamo insieme mangiando un panino. Condividiamo l’esistenza tranquillamente, e in molti suoi aspetti: un dono grandissimo e – alla mia età, dopo tutta una vita trascorsa tenendo le distanze – inaspettato.

 

 

 

Da ragazzino mi chiamavano Inky – sporco d’inchiostro – e ancora adesso scrivendo mi macchio come settant’anni fa.

Cominciai a tenere dei diari quando avevo quattordici anni e l’ultima volta che li ho contati erano quasi un migliaio. Sono di tutte le forme e le dimensioni, da quelli piccoli che mi porto in tasca, a certi tomi enormi. Tengo sempre un taccuino accanto al letto, per i sogni e i pensieri notturni, e cerco di averne uno a bordo piscina, sulla sponda del lago o in riva al mare: anche nuotare produce infatti molti pensieri di cui devo prender nota, soprattutto se si presentano, come a volte fanno, nella forma di frasi o paragrafi interi.

Mentre scrivevo il mio libro sulla gamba, attinsi generosamente ai diari dettagliati che avevo tenuto, da paziente, nel 1974. Anche per il Diario di Oaxaca ho fatto molto affidamento sui miei taccuini manoscritti. Nella maggior parte dei casi, però, è raro che io consulti i diari che ho tenuto per gran parte della mia vita. L’atto di scrivere è, di per se stesso, sufficiente: serve a chiarire i miei pensieri e i miei sentimenti. È parte integrante della mia vita mentale; le idee emergono e prendono forma nell’atto della scrittura.

I miei diari non sono scritti per gli altri, e di solito non li consulto nemmeno io, ma sono una forma di dialogo speciale e indispensabile con me stesso.

Il bisogno di pensare sulla carta non è confinato ai taccuini. Dilaga sul retro di buste e menù, su qualsiasi pezzo di carta mi capiti a tiro. Spesso, poi, trascrivo le citazioni che mi piacciono, appuntandole a mano o a macchina su pezzi di carta dai colori brillanti che poi attacco in una bacheca con le puntine da disegno. Quando abitavo a City Island, il mio studio era pieno di citazioni tenute insieme con degli anelli apribili che poi appendevo ai bastoni per le tende, sopra la mia scrivania.

Anche la corrispondenza è una parte fondamentale della mia vita. Nel complesso, mi piace scrivere e ricevere lettere – è un rapporto con le altre persone, con altre persone particolari – e spesso mi scopro capace di scrivere lettere quando non riesco a «scrivere», quale che sia il significato di Scrivere (con la lettera maiuscola). Conservo tutte le lettere che ricevo, come pure copie delle mie. Adesso, cercando di ricostruire alcune parti della mia vita – per esempio il periodo in cui venni in America nel 1960, tanto cruciale e denso di avvenimenti –, trovo che questa vecchia corrispondenza sia un gran tesoro, un correttivo per gli inganni della memoria e della fantasia.

Un enorme lavoro di scrittura è confluito nei miei appunti clinici – e per molti anni. Con una popolazione di cinquecento pazienti al Beth Abraham, trecento residenti nelle case delle Piccole Sorelle, e le migliaia di pazienti che entravano e uscivano al Bronx State Hospital, ho scritto ogni anno, per diversi decenni, ben più di un migliaio di note, e mi è piaciuto farlo; erano appunti lunghi e dettagliati, e a volte, mi dicevano gli altri, si leggevano come romanzi.

Nel bene e nel male, io sono un narratore di storie. Ho il sospetto che un’inclinazione per le storie, per la narrazione, sia una disposizione umana universale, che va di pari passo con le nostre facoltà di linguaggio, con la coscienza di sé e con la memoria autobiografica.

L’atto di scrivere, quando funziona, mi dà un piacere e una gioia diversi da qualsiasi altra cosa. A prescindere dall’argomento che sto trattando, scrivere mi porta in un altrove in cui sono completamente assorbito, e dove dimentico pensieri distraenti, preoccupazioni, ansie e perfino il trascorrere del tempo. Quando mi trovo in quegli stati della mente rari e beati, posso scrivere senza fermarmi finché non riesco più a vedere il foglio. Solo allora mi accorgo che si è fatta sera e che ho scritto tutto il giorno.

Nell’arco di una vita intera ho scritto milioni di parole, ma ancora adesso l’atto di scrivere mi sembra nuovo e piacevole come quando iniziai, quasi settant’anni fa.

 

 

 

85. Il mio amico e collega Peter Jannetta – siamo stati specializzandi insieme all’UCLA – riuscì a perfezionare, grazie a una sua scoperta, una tecnica che mutò completamente, e spesso salvò, la vita di persone con nevralgia del trigemino: un dolore parossistico all’occhio e alla faccia che (prima della ricerca di Peter) non aveva rimedio, spesso era «al di là della sopportazione», e non di rado portava al suicidio.