LASCIARE IL NIDO

Da bambino, leggendo i romanzi di Fenimore Cooper e guardando i film di cowboy, mi ero fatto un’idea romantica dell’America e del Canada. I selvaggi spazi aperti del West americano ritratti nei libri di John Muir e nelle fotografie di Ansel Adams sembravano promettere una ampiezza, una libertà e una serenità che l’Inghilterra, ancora intenta a riprendersi dalla guerra, non aveva.

In quanto studente di medicina in Inghilterra, avevo potuto rinviare il servizio militare, ma una volta concluso il periodo di internato dovetti presentarmi alla visita di leva. Non mi allettava molto l’idea del servizio militare (anche se a mio fratello Marcus era piaciuto, e grazie alla sua conoscenza dell’arabo era stato inviato in Tunisia, Cirenaica e Nord Africa). Io avevo fatto domanda per un’alternativa interessante: una ferma di tre anni come medico del Colonial Service, destinazione prescelta Nuova Guinea. Il Colonial Service però si stava ridimensionando, e la possibilità di prestarvi servizio come medico cessò proprio prima che io finissi gli studi. Anche la leva obbligatoria sarebbe stata abolita qualche mese dopo il mio arruolamento, in agosto.

Rendermi conto che un’assegnazione interessante ed esotica nel Colonial Service era sfumata e che sarei stato uno degli ultimissimi coscritti mi mandava su tutte le furie e costituì una motivazione in più per lasciare l’Inghilterra. Ciò nonostante, sentivo di avere in un certo senso il dovere morale di prestar servizio. Questi sentimenti conflittuali mi spinsero, quando arrivai in Canada, a presentarmi come volontario per la Royal Canadian Air Force (ero incantato da un verso di Auden, sulla «risata nel cuoio» dell’aviatore). Il servizio militare prestato in Canada – un paese del Commonwealth – sarebbe stato accettato come equivalente a quello in Inghilterra: una considerazione importante, se fossi tornato in patria.

C’erano altre ragioni per fuggire dall’Inghilterra, come aveva già fatto dieci anni prima mio fratello Marcus, andando a vivere in Australia. Negli anni Cinquanta un gran numero di uomini e donne altamente qualificati andò all’estero (la cosiddetta «fuga di cervelli»), perché in Inghilterra il mondo accademico e professionale era sovraffollato e, come constatai durante il mio internato in neurologia a Londra, persone brillanti e competenti potevano rimanere bloccate per anni in ruoli subordinati senza mai arrivare a godere di autonomia o responsabilità. L’America era dotata di un sistema sanitario ben più ampio e meno rigido di quello inglese, e pensavo che ci sarebbe stato spazio anche per me. Inoltre ero spinto, come lo era stato Marcus, dall’idea che a Londra vi fossero troppi dottori Sacks: mia madre, mio padre, mio fratello maggiore David, uno zio e tre primi cugini, tutti in competizione per un po’ di spazio nel mondo affollato della medicina londinese.

Volai a Montreal il 9 luglio, il giorno del mio ventisettesimo compleanno. Passai là qualche giorno, presso certi parenti, visitando il Neurological Institute e prendendo contatto con la RCAF. Dissi che volevo diventare un pilota, ma dopo alcuni test e qualche colloquio mi fu replicato che, vista la mia formazione in fisiologia, sarebbe stato meglio assegnarmi alla ricerca. Un ufficiale di grado molto elevato, un tal dottor Taylor, parlò con me a lungo e mi invitò a passare con lui un fine settimana di valutazione. Dopo di che, percependo la mia ambivalenza, disse: «È chiaro che lei ha talento, e ci piacerebbe averla con noi, ma non sono convinto delle sue motivazioni. Perché non si prende tre mesi per viaggiare e pensarci un po’? A quel punto, se vorrà ancora arruolarsi, mi contatti».

Queste parole mi sollevarono; provai un’improvvisa sensazione di libertà e spensieratezza e decisi di sfruttare al meglio i miei tre mesi di «licenza».

Mi misi in viaggio per attraversare il Canada e, come sempre quando sono in giro, tenni un diario. Durante gli spostamenti scrissi solo brevi lettere ai miei genitori, e finché non arrivai all’isola di Vancouver non ebbi l’opportunità di comporre qualcosa di più completo. Una volta giunto là, scrissi loro una lettera lunghissima, raccontando i dettagli del mio viaggio.

Nel tentativo di evocare un’immagine di Calgary – del Selvaggio West – per i miei genitori, sbrigliai la fantasia, ma non so se la vera Calgary fosse affascinante come la descrissi io:

 

«A Calgary è appena finito lo “stampede”10 annuale e le strade sono piene di cowboy in jeans e giacca di daino che se ne stanno seduti senza far niente, lasciando passare le lunghe giornate con il cappello calcato sulla faccia. Ma Calgary ha anche trecentomila abitanti: è una città del boom. Il petrolio le ha portato un enorme afflusso di prospettori, investitori e ingegneri. La vita del vecchio West è stata cancellata da raffinerie e fabbriche, da uffici e grattacieli ... Ci sono poi enormi giacimenti di minerali di uranio, oro e argento, come anche di metalli vili, e nelle taverne si vedono bustine di polvere d’oro passare di mano in mano, e uomini che sotto la faccia abbronzata e la tuta da lavoro sudicia sono fatti di oro massiccio».

 

Poi tornavo alle gioie del viaggio:

 

«Ho preso la Canadian Pacific Railroad fino a Banff, gironzolando emozionato nella “carrozza panoramica” del treno. Inerpicandoci per gradi, siamo passati dalle sconfinate praterie pianeggianti ai colli coperti di abeti ai piedi delle Montagne Rocciose. E a poco a poco l’aria si è fatta più fredda e il paesaggio ha assunto un carattere più verticale. Le alture si sono mutate in colline, e le colline in montagne più alte e frastagliate a ogni chilometro. Noi avanzavamo minuscoli, sbuffando lungo il fondovalle, e le montagne incappucciate di neve incombevano tutt’attorno, enormi. L’aria era così tersa che si potevano vedere picchi distanti anche cento-duecento chilometri, e le montagne vicino a noi sembravano impennarsi sopra la nostra testa».

 

Da Banff mi addentrai sempre più nel cuore delle Montagne Rocciose canadesi. Qui tenni un diario particolarmente dettagliato, e in seguito lo sistemai ricavandone un brano che intitolai «Canada: Pausa, 1960».

 

 

 

CANADA: PAUSA, 1960

 

Quanta strada ho fatto! Ho viaggiato per quasi cinquemila chilometri in meno di due settimane.

Adesso c’è silenzio – un silenzio che non avevo mai sentito prima in tutta la mia vita. Fra poco mi rimetterò in movimento, e forse non mi fermerò più.

Sono sdraiato su un prato alpino, a circa duemilacinquecento metri sul livello del mare. Ieri ho vagabondato vicino al nostro rifugio insieme a tre signore di Calgary appassionate di botanica, magre e forti come Amazzoni, e ho imparato da loro i nomi di molti fiori.

Il prato è dominato dai camedri cervini, adesso in semenza, simili a enormi soffioni luminosi e fluttuanti sotto il sole mattutino. Pianticelle di Castilleja, il «pennello indiano», da un vago color crema a un vermiglio intenso. Anemoni, botton d’oro, valeriane e sassifraghe; Pedicularis contorta e Pluchea foetida (due piante tra le più belle, a dispetto del nome), lamponi artici e fragole selvatiche, che raramente fruttificano; le foglie delle fragole catturano e trattengono nel centro delle loro tre foglioline una luccicante goccia di rugiada. Arnica cordifolia, orchidee Calypso, cinquefoglie e aquilegie. Gigli glaciali e veroniche. Alcune rocce sono coperte da licheni dai colori brillanti, che luccicano da lontano come grandi masse di pietre preziose; altre sono costellate di un tipo di Sedum, una pianta succulenta, che scoppia lascivamente sotto la pressione delle dita.

Siamo ben al di sopra del territorio dei grandi alberi. Ci sono molti arbusti – salici e ginepri, mirtilli e Shepherdia –, ma sopra il limite della vegetazione arborea solo larici, con i tronchi chiarissimi e la chioma morbida.

Ci sono geomidi, ocotoni, scoiattoli e tamie; a volte, una marmotta all’ombra di una roccia. Gazze, parulidi, scriccioli e tordi. Tantissimi orsi, neri e bruni, anche se i grizzly sono rari. Nei pascoli più in basso, wapiti e alci. Ho visto un’enorme ombra alata attraversare il sole e ho capito subito che era un’aquila testabianca.

Salendo ancora e ancora, ogni forma di vita si spegne, tutto diventa di un grigio uniforme, finché muschi e licheni tornano a essere i signori del creato.

 

Ieri mi sono unito al Professore, alla sua famiglia e a un amico, «Old Marshall», che lui chiamava «fratello», e in effetti sembrano proprio fratelli benché siano soltanto amici e colleghi. Sono andato con loro a cavallo su un vasto altopiano, così alto che potevamo guardare giù e vedere nubi cumuliformi ammassate intorno a noi.

«Qui l’uomo non ha apportato alcun cambiamento!» gridò il Professore. «Ha solo allargato i sentieri delle capre». Non ho parole per descrivere quel sentimento – né l’avevo mai provato prima – che deriva dalla consapevolezza di trovarsi lontani dal resto dell’umanità, soli in un’area di oltre duemilacinquecento chilometri quadrati. Cavalcavamo in silenzio, perché parlare non avrebbe avuto senso. Sembrava di essere in cima al mondo. Più tardi scendemmo, con i cavalli che procedevano cauti nella sterpaglia, verso la serie di laghi glaciali dagli strani nomi: Sphinx, Scarab e Egypt. Ignorando i prudenti avvertimenti degli altri, mi sono tolto i vestiti fradici di sudore, mi sono tuffato nelle limpide acque dell’Egypt, restando lì a galleggiare sul dorso. Da un lato svettavano le Pharaoh Mountains, con le vecchie facce segnate da giganteschi geroglifici; gli altri picchi invece erano tutti senza nome, e va benissimo così.

Sulla via del ritorno siamo passati accanto a un vasto bacino glaciale pieno di depositi morenici levigati.

«Pensate!» gridò il Professore. «Questa conca straordinaria era ricoperta da cento metri di ghiaccio. E quando noi e i nostri figli saremo morti, dei semi avranno germogliato nel limo e su queste rocce stormirà una giovane foresta spazzata dal vento. Siamo di fronte alla scena di un dramma geologico, il passato e il futuro sono impliciti nel presente, e tutto sta nell’arco di un’unica generazione, contenuto nella sola memoria di un uomo».

Lanciai un’occhiata al Professore mentre se ne stava là in piedi, minuscola figura stagliata contro la parete di roccia e ghiaccio alta più di duecento metri; assurdo con il suo cappello e i suoi calzoni malconci, eppure pieno di dignità e compostezza. Si contempla la potenza dei ghiacciai e dei torrenti, eppure non sono nulla rispetto alla potenza di quell’insetto orgoglioso che li studia e li comprende.

Il Professore è stato un compagno magnifico. A livello strettamente pratico, mi ha insegnato a riconoscere i circhi glaciali e i diversi tipi di morene; a decifrare le tracce dell’alce e dell’orso, e i danni causati dagli istrici; a esaminare attentamente il terreno per individuare un suolo paludoso o insidioso; a fissare nella mente i punti di riferimento, in modo da non perdersi; a notare le sinistre nubi lenticolari, foriere di tempeste anomale. Ma il ventaglio delle sue competenze era enorme, forse onnicomprensivo. Parlava di legge, sociologia e politica; di economia, affari e pubblicità; di medicina, psicologia e matematica.

Non avevo mai conosciuto un uomo così profondamente in contatto con ogni aspetto del suo ambiente: fisico, sociale, umano; nondimeno, nel suo caso, era ulteriormente arricchito da una sarcastica consapevolezza della propria mente e delle proprie motivazioni, consapevolezza che dava equilibrio a tutto quello che diceva, rendendolo personale.

Avevo incontrato il Professore la sera prima, e gli avevo confidato la storia della mia fuga dalla famiglia e dall’Inghilterra, e anche le mie esitazioni sul proseguimento degli studi di medicina.

«La professione che mi sono scelto!?» esclamai pieno di amarezza. «Altri l’hanno scelta per me. Adesso voglio soltanto vagabondare e scrivere. Credo che per un anno farò il boscaiolo».

«Scordatelo!» tagliò corto il Professore. «Perderesti il tuo tempo. Vai a visitare le facoltà di medicina, le università, negli States. Gli States sono quello che fa per te. Nessuna prevaricazione, lì: se sei bravo fai carriera, se sei fasullo lo capiscono subito.

«Adesso viaggia, con qualsiasi mezzo – se hai tempo. Ma viaggia nel modo giusto, come faccio io. Io leggo e penso in continuazione alla storia e alla geografia di un luogo. Vedo la sua popolazione in questi termini, collocata nella cornice sociale del tempo e dello spazio. Prendi le praterie, per esempio: perderesti il tuo tempo se le visitassi senza conoscere la saga dei coloni, l’influenza della legge e della religione in epoche diverse, i problemi economici, le difficoltà di comunicazione e le conseguenze delle successive scoperte minerarie.

«Lascia perdere gli accampamenti dei boscaioli. Va’ in California. Va’ a vedere le sequoie. Va’ a vedere le missioni. Va’ a Yosemite. E a Palomar – è un’esperienza sublime per un uomo intelligente. Una volta ho parlato con Hubble e ho scoperto che aveva una conoscenza straordinaria del diritto. Lo sapevi che prima di passare allo studio delle stelle era un uomo di legge? E va’ a San Francisco! È una delle dodici città più interessanti del mondo. La California ha immensi contrasti: la ricchezza estrema e lo squallore più spaventoso. Ma dappertutto vedi bellezza e motivi di interesse.

«Ho attraversato l’America in lungo e in largo, più di un centinaio di volte. Ho visto tutto. Ti dirò io dove andare, se vuoi. Allora, che ne dici?».

«Sono senza soldi!».

«Ti presterò io quello che ti serve, e me lo restituirai quando vorrai».

Mi conosceva da un’ora soltanto.

 

Il Professore e Marshall amano le Montagne Rocciose, e ci vengono ogni estate, da vent’anni. Al nostro ritorno dal lago Egypt, abbandonato il sentiero, mi hanno portato nel profondo della foresta, finché non siamo arrivati a una capanna, una costruzione bassa e scura mezza seppellita nel terreno. Il Professore ha tenuto una breve, illuminante lezione.

«Questa è la capanna di Bill Peyto. Oltre a noi, solo altre tre persone al mondo sanno dov’è; ufficialmente è stata dichiarata distrutta dal fuoco. Peyto era un nomade e un misantropo, un abile cacciatore e un grande osservatore della fauna e della flora selvatiche, oltre che il padre di un numero incalcolabile di bastardi. Gli sono stati intitolati un lago e una montagna. Nel 1926 contrasse qualche malattia dal lento decorso, e alla fine non poté più vivere da solo. Così andò a cavallo giù a Banff: lui, straniero leggendario e selvaggio che tutti conoscevano ma che nessuno aveva mai visto. E morì là subito dopo».

Mi sono avvicinato alla capanna buia e fatiscente. La porta era sbilenca, e su di essa ho decifrato uno scarabocchio quasi cancellato: «TORNO FRA UN’ORA». Dentro c’erano utensili da cucina e vecchie conserve, i suoi campioni di minerali (controllava una piccola miniera di talco), frammenti del suo diario, e alcuni numeri dell’«Illustrated London News» dal 1890 al 1926. Uno spaccato della vita di un uomo, una sezione temporale definita dalle circostanze. Ho pensato alla Marie Celeste. Adesso è sera, ho passato tutto il giorno steso su questo grande prato, a masticare un filo d’erba e a guardare le montagne e il cielo. Ho riflettuto, e ho quasi riempito il mio taccuino.

In una tipica sera d’estate, a casa, il sole che tramonta illumina i malvoni e i paletti del cricket piantati nel prato sul retro. Oggi è venerdì, e quindi mia madre accenderà le candele dello Shabbath, mormorando una preghiera silenziosa di cui non ho mai saputo le parole, mentre protegge la fiamma con le mani a coppa. Mio padre metterà un piccolo cappello e, levando il vino, loderà Dio per la sua generosità.

Si è alzato un po’ di vento, spezzando infine il lungo silenzio della giornata e dando all’erba e ai fiori un brivido inquieto. È ora di alzarsi e muoversi, di andar via da qui, di rimettersi sulla strada. Non avevo promesso a me stesso che presto sarei andato in California?

 

 

 

Essendomi spostato in treno e in aereo, decisi di completare il mio viaggio verso ovest facendo l’autostop – e quasi immediatamente fui reclutato per spegnere un incendio. Scrissi ai miei genitori:

 

«Nella Columbia Britannica non piove da più di trenta giorni, e ovunque, nelle foreste, infuriano incendi (probabilmente ne avrete letto). Vige una specie di legge marziale, e la commissione per le foreste può reclutare chiunque ritenga idoneo. Sono stato felicissimo dell’esperienza e ho passato un giorno nelle foreste insieme ad altre reclute disorientate a trascinare avanti e indietro manichette antincendio e a cercare di rendermi utile. Ad ogni modo, avevano bisogno di me solo per un incendio, e quando alla fine abbiamo condiviso una birra sulle sue rovine fumanti ormai spente, ho provato un’autentica vampata di orgoglio fraterno per il fatto che il nostro gruppo l’avesse estinto.

«In questo periodo dell’anno la Columbia Britannica sembra sotto l’effetto di un incantesimo. Il cielo è basso e violaceo anche a mezzogiorno, per via del fumo degli innumerevoli incendi, e l’aria è di un calore e di un’immobilità terribili, che intontiscono. La gente sembra muoversi e strisciare con la flemma di un film al rallentatore, e non manca mai la sensazione di qualcosa che incombe. In tutte le chiese si prega per la pioggia, e dio sa quali strani riti siano praticati in privato per propiziarsela. Ogni notte i fulmini colpiscono da qualche parte, e altri ettari di legname prezioso conflagrano facendo da innesco. Oppure, a volte, c’è solo una combustione istantanea, in apparenza senza una fonte, che si propaga come un cancro multifocale in un’area condannata».

 

Non volendo essere nuovamente reclutato per l’estinzione degli incendi – farlo per un giorno mi era piaciuto, ma mi era anche bastato –, presi un bus della Greyhound per coprire i quasi mille chilometri che mancavano per Vancouver.

Da lì, andai all’isola di Vancouver in battello e mi sistemai in una pensione a Qualicum Beach (mi piaceva il nome «Qualicum», perché mi faceva venire in mente Thudichum, il biochimico dell’Ottocento, e Colchicum, il crocus autunnale). Qui mi concessi qualche giorno di riposo e scrissi una lettera di ottomila parole ai miei genitori, terminando con il racconto del momento presente:

 

«Dopo i laghi glaciali, l’Oceano Pacifico è caldo (circa 24°) e sfibrante. Oggi sono andato a pescare, qui, insieme a un oculista, un tizio di nome North, che ha lavorato al Mary’s e al National, e adesso esercita a Victoria. Definisce l’isola di Vancouver un “frammento di paradiso conservatosi chissà come”, e credo che in un certo senso abbia ragione. Ha foreste, montagne, corsi d’acqua, i laghi e l’oceano ... Ad ogni modo, ho preso sei salmoni, basta gettare la lenza e quelli abboccano, abboccano; magnifiche argentee bellezze con cui farò colazione domani mattina».

 

«Scenderò in California fra due o tre giorni,» aggiunsi «probabilmente con un bus della Greyhound, perché ho saputo che sono particolarmente severi con gli autostoppisti, e a volte gli sparano a vista».

 

Arrivai a San Francisco un sabato sera, e più tardi alcuni amici che avevo conosciuto a Londra mi portarono a cena. La mattina dopo vennero a prendermi e andammo in auto al Golden Gate Bridge, lungo le pendici coperte di pini di Mount Tamalpais, fino alla pace – una pace da cattedrale – di Muir Woods. Sotto le sequoie ammutolii per l’ammirazione, e fu in quel momento che decisi di restare a San Francisco, con i suoi meravigliosi dintorni, per il resto della mia vita.

C’erano infinite cose da fare: dovevo ottenere la carta verde; dovevo trovare un posto di lavoro, un ospedale che mi desse un impiego, in nero e senza un regolare stipendio, nei mesi che sarebbero occorsi per il rilascio della carta verde; volevo recuperare dall’Inghilterra tutte le mie cose – vestiti, libri, carte e (non ultimo) la mia fedele Norton; avevo bisogno di molti documenti; e di denaro.

Quando scrivevo ai miei genitori sapevo essere lirico e poetico, ma adesso dovevo essere concreto e pragmatico. Avevo terminato la mia lunghissima lettera da Qualicum Beach ringraziandoli:

 

«Se mi fermerò in Canada, avrò un salario ragionevolmente generoso e del tempo libero. Dovrei riuscire a risparmiare, e anche a restituirvi qualcosa di tutto il denaro che avete profuso per me in ventisette anni. Per quanto riguarda tutte le altre cose intangibili e incalcolabili che mi avete dato, posso ripagarle soltanto conducendo una vita relativamente utile e felice, tenendomi in contatto con voi, e venendo a trovarvi quando potrò».

 

Adesso, a distanza di una settimana soltanto, tutto era cambiato. Non ero più in Canada, non pensavo più a una vita nella RCAF, e nemmeno a tornare in Inghilterra. Scrissi nuovamente ai miei genitori – pieno di timore, di sensi di colpa, ma risoluto –, comunicando la mia decisione. Immaginavo la rabbia e la disapprovazione suscitate dalla mia decisione; non me n’ero andato in modo improvviso (e forse disonesto) voltando le spalle a loro, a tutti i miei amici e i miei familiari, all’Inghilterra stessa?

Risposero con magnanimità, ma espressero anche rammarico per la nostra separazione, con parole che, cinquant’anni dopo, trovo ancora straziante leggere – parole che dovettero costare molto a mia madre, perché raramente parlava dei suoi sentimenti.

 

13 agosto 1960

Mio caro Oliver,

Ti ringrazio tanto per le tue svariate lettere e cartoline. Le ho lette tutte: con orgoglio per la tua maestria letteraria, felicità per il fatto che ti stai godendo la vacanza, ma anche con una gran componente di dolore e tristezza al pensiero della tua prolungata assenza. Quando sei nato, tutti si congratulavano con noi per quella che consideravano una meravigliosa famiglia con quattro figli! Dove siete adesso, tutti quanti? Mi sento sola e abbandonata. Questa casa è abitata da fantasmi. Quando entro nelle diverse stanze, mi sento sopraffatta da un senso di perdita.

 

Mio padre, con uno stile differente, scriveva: «Ci siamo riconciliati, in una certa misura, con una casa relativamente vuota, qui a Mapesbury»; poi, però, aggiunse un post scriptum:

 

«Quando dico che ci siamo riconciliati con una casa vuota, naturalmente, è una mezza verità. Non occorre dire che ci manchi moltissimo, sempre. Ci manca la tua presenza allegra, i tuoi assalti rapaci al “frigo” e alla dispensa, tu che suoni il piano, tu che ti diverti con i pesi, nudo in camera tua, le tue visite inattese a mezzanotte sulla Norton. Questi e moltissimi altri ricordi della tua personalità così vitale resteranno sempre con noi. Quando contempliamo questa grande casa vuota, sentiamo una stretta al cuore e un profondo senso di perdita. E d’altra parte ci rendiamo conto che devi trovare la tua strada nel mondo e che la decisione ultima sta a te!».

 

 

 

Mio padre aveva scritto di una «casa vuota» e mia madre diceva «Dove siete adesso, tutti quanti? ... Questa casa è abitata da fantasmi».

Eppure, in casa c’era ancora una presenza significativa, molto reale, ed era mio fratello Michael. In un certo senso, Michael era stato fin da piccolo il figlio «strano». Era sempre sembrato che in lui vi fosse qualcosa di diverso: trovava difficile stabilire un contatto, non aveva amici, dava decisamente l’impressione di vivere in un mondo tutto suo.

Fin dalla più tenera età, il mondo preferito del nostro fratello maggiore Marcus era stato un mondo di lingue; a sedici anni ne parlava sei. Quello di David, invece, era un mondo di musica; avrebbe potuto fare il musicista di professione. Il mio, era un mondo di scienza. Ma nessuno di noi sapeva in che genere di mondo vivesse Michael. Eppure era intelligentissimo: leggeva in continuazione, aveva una memoria prodigiosa e sembrava attingere la sua conoscenza del mondo dai libri, invece che dalla «realtà». La sorella più anziana di mia madre, zia Annie, che per quarant’anni diresse una scuola a Gerusalemme, pensava che Michael fosse così straordinario da lasciare a lui tutta la sua biblioteca, anche se l’ultima volta che l’aveva visto era stato nel 1939, quando lui aveva solo undici anni.

All’inizio della guerra, Michael e io fummo evacuati insieme, e passammo diciotto mesi a Braefield nelle Midlands, in uno spaventoso collegio diretto da un preside sadico il cui massimo piacere nella vita consisteva nel percuotere sulle natiche i bambini che gli erano stati affidati.11 (Fu in quel periodo che Michael imparò a memoria Nicholas Nickleby e David Copperfield, benché non abbia mai paragonato esplicitamente la nostra scuola a Dotheboys Hall o il nostro preside al mostruoso Mr. Creakle di Dickens).

Nel 1941, Michael, ormai tredicenne, andò in un altro collegio, il Clifton, dove fu preso di mira, senza pietà, dai bulli. In Zio Tungsteno, ho scritto di come si sviluppò la sua prima psicosi:

 

«Zia Len, che stava da noi, osservò Michael mentre usciva seminudo dal bagno. “Guardate che schiena!” disse ai miei genitori. “È piena di lividi e di segni di frustate! Se questo sta accadendo al suo corpo,” continuò “che cosa starà succedendo alla sua mente?”. I miei genitori sembrarono sorpresi, dissero di non aver notato nulla di strano; pensavano che a Michael piacesse la scuola, che non avesse problemi, insomma che stesse bene.

«Subito dopo, Michael, quindicenne, divenne psicotico. Percepiva un mondo magico e maligno che si chiudeva intorno a lui ... Arrivò a convincersi di essere “il prediletto di un Dio maniaco della flagellazione”, soggetto alle particolari attenzioni di una “Provvidenza sadica” ... Contemporaneamente fecero la loro comparsa fantasie messianiche o deliri – veniva torturato o castigato, perché era (o avrebbe potuto essere) il Messia, quello da noi tanto atteso. Lacerato tra beatitudine e tormento, tra fantasia e realtà, Michael sentiva di essere sul punto di impazzire (o forse sapeva di essere già impazzito), e non riusciva più a dormire o riposare, ma andava avanti e indietro per tutta la casa, visitato dalle allucinazioni, pestando i piedi, con occhi furiosi, urlando.

«Io ero terrorizzato, da lui e per lui; terrorizzato dall’incubo che per lui stava diventando realtà ... Che cosa sarebbe successo a Michael? Sarebbe accaduto qualcosa di simile anche a me? Fu in quel periodo che allestii il mio laboratorio di chimica – e poi chiusi le porte, chiusi gli occhi, per proteggermi dalla follia di Michael ... Non è che fossi indifferente a Michael; sentivo per lui una fortissima compassione, e un poco sapevo anche che cosa stesse attraversando; ma dovevo ... mantenere le distanze, crearmi un mondo mio ... così da non essere scaraventato nel caos, nella follia e nella seduzione del suo».

 

L’effetto di tutto questo sui miei genitori fu devastante; provavano allarme, pietà, orrore e soprattutto sconcerto. Sapevano dare un nome alla cosa – «schizofrenia» –, ma perché aveva scelto Michael, e in così tenera età? Erano stati i terribili atti di bullismo al Clifton? Era qualcosa nei suoi geni? Non era mai sembrato un bambino normale; era goffo, ansioso, forse «schizoide» anche prima della sua psicosi. Oppure – la possibilità più dolorosa da prendere in considerazione per i miei genitori – il suo stato era una conseguenza del modo in cui lo avevano trattato, o maltrattato? Qualsiasi cosa fosse – natura o ambiente, chimica sbagliata o modo sbagliato di allevarlo –, la medicina poteva sicuramente andare in suo aiuto. A sedici anni, Michael fu ricoverato in un ospedale psichiatrico e subì dodici «trattamenti» con shock insulinico; questa terapia comportava che gli si abbassasse la glicemia al punto di fargli perdere conoscenza, per poi ripristinarla con un’infusione di glucosio. Nel 1944 questo era il trattamento d’elezione per la schizofrenia, ed era seguito, se necessario, dalla terapia elettroconvulsivante o dalla lobotomia. Mancavano ancora otto anni alla scoperta dei tranquillanti maggiori.

Che fosse il risultato dei coma insulinici o un naturale processo di risoluzione, tre mesi dopo Michael tornò dall’ospedale: non più psicotico ma profondamente scosso, convinto che non avrebbe mai potuto sperare in una vita normale. Mentre era in ospedale aveva letto Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie di Eugen Bleuler.

Marcus e David si erano trovati molto bene in una scuola a Hampstead, a pochi minuti a piedi da casa nostra, e adesso Michael fu felicissimo di continuare i suoi studi lì. Se la psicosi l’avesse cambiato o meno, non era cosa immediatamente visibile; i miei genitori decisero di considerarlo come un problema «clinico», qualcosa da cui fosse possibile guarire completamente. Michael, però, vedeva la sua psicosi in termini del tutto diversi; credeva che gli avesse aperto gli occhi su cose alle quali in precedenza non aveva mai pensato: in particolare, l’oppressione e lo sfruttamento dei lavoratori in tutto il mondo. Cominciò a leggere un giornale comunista, «The Daily Worker», e ad andare in una libreria comunista in Red Lion Square. Divorò Marx ed Engels e li considerava come i profeti, se non i messia, di una nuova èra mondiale.

Quando Michael compì diciassette anni, Marcus e David avevano ormai finito gli studi di medicina. Michael non voleva fare il medico, e ne aveva avuto abbastanza della scuola. Voleva lavorare – i lavoratori non erano forse il sale della terra? Uno dei pazienti di mio padre aveva un grande studio di contabilità a Londra e disse che sarebbe stato felice di prendere Michael come apprendista contabile o in qualsiasi altra posizione volesse. Michael fu chiarissimo sul ruolo che desiderava: voleva essere un corriere, consegnare lettere o plichi troppo importanti o urgenti per essere lasciati alla posta. In questo era quanto mai scrupoloso, insisteva per mettere qualsiasi messaggio o pacchetto gli fosse stato affidato direttamente nelle mani del destinatario designato, e di nessun altro. Gli piaceva girare a piedi per Londra e, se il tempo era bello, trascorrere le ore del pranzo su una panchina al parco, a leggere «The Daily Worker». Una volta mi disse che i messaggi in apparenza ordinari che consegnava potevano contenere significati nascosti, segreti, evidenti solo per il destinatario designato; ecco perché non potevano essere affidati a nessun altro. Secondo Michael, benché lui potesse sembrare un comune corriere latore di messaggi ordinari non era assolutamente così. Questo non lo disse mai a nessun altro – sapeva che, se non proprio folle, sarebbe suonato bizzarro – e aveva cominciato a pensare che i nostri genitori, i nostri fratelli e tutti i medici in blocco fossero determinati a svalutare o a medicalizzare ogni cosa che lui pensava e faceva: soprattutto se vi era un qualche accenno di misticismo, perché lo consideravano un segno di psicosi. Ma io ero il suo fratellino, avevo solo dodici anni, non ero ancora incline a medicalizzare, e sapevo ascoltare con sensibilità ed empatia tutto quello che lui diceva, benché non potessi comprenderlo appieno.

Ogni tanto – negli anni Quaranta e al principio del decennio successivo, quando io andavo ancora a scuola, accadde molte volte – diventava apertamente psicotico e delirante. In qualche caso c’era un avvertimento: non che dicesse «ho bisogno di aiuto», ma lo indicava compiendo un atto stravagante, per esempio scagliando un cuscino o un posacenere sul pavimento nello studio del suo psichiatra (era in cura dai tempi della psicosi iniziale). Questo significava, ed era in quei termini che veniva interpretato, «Sto perdendo il controllo – portatemi in ospedale».

Altre volte, invece, non dava alcun segnale di avvertimento ed entrava in uno stato di violenta agitazione in cui gridava, pestava i piedi e aveva allucinazioni – in un’occasione scagliò la bellissima pendola antica di mia madre contro una parete – e in quei momenti terrorizzava me e i miei genitori. Ci terrorizzava e ci gettava in un profondo imbarazzo: come potevamo invitare a casa nostra amici, parenti, colleghi, chiunque, con lui che delirava e imperversava al piano di sopra? E che cosa avrebbero pensato i pazienti dei miei genitori, che avevano entrambi lo studio in casa. Anche Marcus e David erano riluttanti a invitare i loro amici in (quello che a volte sembrava) un manicomio. Nella nostra vita si insinuò così un senso di vergogna, di stigma e di segretezza che rese ancora più difficile la realtà della situazione di Michael.

Per me era un gran sollievo quando mi prendevo dei fine settimana o delle vacanze lontano da Londra: vacanze che, oltre a tutto il resto, erano anche uno stacco da Michael, dalla sua presenza a volte intollerabile. E d’altra parte c’erano momenti in cui la sua originaria dolcezza di carattere, il suo essere affettuoso, il suo senso dell’umorismo tornavano a splendere. In quei momenti si capiva che il vero Michael, gentile e padrone di sé, era presente sotto la superficie della schizofrenia, anche quando stava delirando.

 

Benché io non sia certo di averlo capito sul momento, nel 1951, quando mia madre apprese della mia omosessualità e mi disse «Vorrei che non fossi mai nato», le sue non erano solo parole di accusa, ma di angoscia: l’angoscia di una madre che, sentendo di aver già perso un figlio per la schizofrenia, adesso temeva di perderne un altro per l’omosessualità, una «condizione» allora considerata vergognosa e stigmatizzante e con un gran potere di segnare e rovinare una vita. Io ero il suo preferito – da bambino, ero stato il suo «grande capo» e il suo «agnellino» – e adesso ero «uno di quelli», un peso crudele che andava ad aggiungersi alla schizofrenia di Michael.

 

 

 

Per Michael e per milioni di altri schizofrenici la situazione cambiò, nel bene e nel male, intorno al 1953, quando divenne disponibile il primo tranquillante maggiore, un farmaco chiamato Largactil in Inghilterra e Torazina negli Stati Uniti. I tranquillanti potevano smorzare e forse prevenire allucinazioni e deliri, in altre parole i «sintomi positivi» della schizofrenia; questo comportava tuttavia un costo personale enorme. Lo constatai per la prima volta, in modo scioccante, nel 1956, quando tornai a Londra dopo i mesi trascorsi in Israele e in Olanda e vidi Michael che camminava curvo e con passo strascicato.

«Ma è chiaramente parkinsoniano!» dissi ai miei genitori.

«Sì,» risposero loro «ma con il Largactil è molto più tranquillo. Ha passano un anno intero senza una psicosi». Dovevo chiedere a Michael, però, come si sentisse. Soffriva molto per i sintomi parkinsoniani – era stato un gran camminatore con una bella falcata –, ma a sconvolgerlo ancora di più erano gli effetti mentali del farmaco.

Era in grado di continuare il suo lavoro, ma aveva perso il sentimento mistico che prima dava profondità e significato al suo consegnare messaggi; aveva perso il nitore e la chiarezza con cui un tempo percepiva il mondo; adesso tutto sembrava «smorzato». «È come essere uccisi con delicatezza» concluse.12

Quando la dose di Largactil venne ridotta, i sintomi parkinsoniani si attenuarono e, fatto di maggiore importanza, Michael si sentì più vivo e riacquistò parte delle sue sensibilità mistiche – salvo riesplodere, qualche settimana dopo, in una psicosi conclamata.

Nel 1957, quando io stesso ormai studiavo medicina ed ero interessato al cervello e alla mente, telefonai allo psichiatra di Michael e gli chiesi un incontro. Il dottor N. era una brava persona, un uomo sensibile che conosceva Michael fin dai tempi della sua prima psicosi, quasi quattordici anni prima; anche lui era turbato dai nuovi problemi – riconducibili al farmaco – che stava incontrando con molti suoi pazienti in cura con il Largactil. Stava cercando di effettuare una titolazione, di trovare un dosaggio che fosse sufficiente senza essere troppo alto o troppo basso. In questo, confessava, non era del tutto ottimista.

Mi chiedevo se i sistemi cerebrali implicati nella percezione (o proiezione) del significato, della rilevanza e dell’intenzionalità, i sistemi alla base del senso di meraviglia e di mistero, i sistemi per l’apprezzamento della bellezza dell’arte e della scienza non smarrissero, nella schizofrenia, il loro equilibrio producendo un mondo mentale sovraccarico di intense emozioni e di distorsioni della realtà. Sembrava che perdessero la propria via di mezzo, così che ogni tentativo di titolarli, di smorzarli, poteva spingere la persona da uno stato di esaltazione patologica a uno stato di grande ottundimento, una sorta di morte mentale.

La mancanza di abilità sociali e di comuni capacità quotidiane di Michael (che non era in grado di prepararsi una tazza di tè da solo) richiedeva un approccio sociale ed «esistenziale». I tranquillanti hanno un effetto scarso o nullo sui sintomi «negativi» della schizofrenia, come la chiusura in se stessi, l’appiattimento dell’affettività, eccetera; sintomi che tuttavia, con il loro andamento cronico e insidioso, possono essere più debilitanti e più minacciosi di qualsiasi sintomo positivo. Quello che va affrontato non è un mero problema farmacologico, ma l’intera questione del vivere una vita ricca di significato e godibile grazie ai sistemi di sostegno, alla comunità, al rispetto di sé e al rispetto da parte degli altri. I problemi di Michael non erano esclusivamente «clinici».

 

Quando tornai a Londra per studiare medicina, avrei potuto, avrei dovuto, essere più amorevole con Michael, offrirgli più sostegno; sarei potuto uscire con lui per andare al ristorante, al cinema, a teatro, ai concerti (cosa che non faceva mai da solo); sarei potuto andare con lui al mare o in campagna. Ma non lo feci, e la vergogna per questo – sentire di essere stato un cattivo fratello, non disponibile per lui quando ne aveva tanto bisogno – mi brucia ancora dentro, sessant’anni dopo.

Non so come avrebbe reagito Michael se io avessi mostrato una maggiore iniziativa. Aveva la sua vita, rigidamente controllata e limitata, e non gradiva scostamenti.

Quella vita, adesso che prendeva i tranquillanti, era meno turbolenta ma, così mi sembrava, sempre più povera e limitata. Non leggeva più «The Daily Worker», non frequentava più la libreria in Red Lion Square. Una volta aveva sentito di appartenere, in un modo o nell’altro, a una collettività, di condividere una prospettiva marxista con altri, ma adesso che il suo ardore si era raffreddato si sentiva sempre più isolato e solo. Mio padre sperava che la nostra sinagoga potesse fornirgli un sostegno morale e pastorale, trasmettergli un senso della comunità. Da ragazzo Michael era stato molto religioso: dopo il suo bar mitzvah, portava ogni giorno tzitzit e tefillin, e ogni volta che poteva andava alla shul; ma anche questo ardore s’era raffreddato. Aveva perso interesse per la sinagoga, e la sinagoga – con la sua comunità sempre più ristretta, giacché un numero crescente di ebrei londinesi stava emigrando o si stava assimilando nella popolazione generale anche attraverso matrimoni misti – perse interesse per lui.

Le letture generali di Michael, che un tempo erano tanto intense e disparate – zia Annie non gli aveva forse lasciato tutta la sua biblioteca? –, si ridussero in modo impressionante; Michael smise quasi completamente di leggere libri e sfogliava solo saltuariamente i giornali.

Io credo che nonostante i tranquillanti, o forse proprio a causa loro, stesse sprofondando in uno stato di apatia e disperazione. Nel 1960, quando R.D. Laing pubblicò il suo splendido libro L’io diviso, Michael ebbe un breve rigurgito di speranza. Ecco un medico, uno psichiatra, che considerava la schizofrenia non come una malattia, quanto piuttosto come un intero modo di essere, addirittura privilegiato. Sebbene Michael stesso a volte definisse noi altri – il mondo non schizofrenico – «schifosamente normali» (in quest’espressione incisiva era racchiusa una rabbia enorme), ben presto si stancò del «romanticismo» di Laing, come lo chiamava lui; e finì per considerarlo come un idiota vagamente pericoloso.

Quando lasciai l’Inghilterra, il giorno del mio ventisettesimo compleanno, fra le altre ragioni lo feci anche per allontanarmi dal mio tragico fratello, mal gestito e senza speranza. Forse però, sotto altri aspetti, quel distacco sarebbe diventato un tentativo di esplorare la schizofrenia e gli altri disturbi affini del cervello e della mente nei miei pazienti e a modo mio.

 

 

 

10. Manifestazione organizzata annualmente a Calgary, durante la quale nell’arco di dieci giorni si tengono, oltre a un famoso rodeo, concerti, parate e spettacoli vari [N.d.T.].

11. Ho parlato di questa scuola e degli effetti che ebbe su di noi, in modo molto più dettagliato, in Zio Tungsteno.

12. Anni dopo, quando lavoravo al Bronx State Hospital, avrei visto grossolani disturbi motori e avrei sentito lamentare problemi mentali simili da centinaia di persone schizofreniche che erano state rallentate con dosi pesanti di farmaci come la Torazina, oppure con butirrofenoni come l’aloperidolo, una classe di farmaci allora di nuova introduzione.