RISVEGLI

Nell’autunno del 1966 cominciai a visitare i pazienti del Beth Abraham, un cronicario affiliato all’Albert Einstein College of Medicine. Mi accorsi subito che, tra i suoi cinquecento ricoverati, un’ottantina di pazienti, dispersi in vari reparti, erano i sopravvissuti della straordinaria pandemia di encefalite letargica dilagata in tutto il mondo al principio degli anni Venti. L’encefalite aveva ucciso immediatamente molte migliaia di persone, mentre quelle in apparenza guarite spesso contraevano, a volte a distanza di decenni, strane sindromi postencefalitiche. Molte erano come congelate in stati parkinsoniani profondi, alcune pietrificate in posture catatoniche: non incoscienti, ma con la coscienza sospesa, ferma al momento in cui la malattia aveva attaccato determinate parti del loro cervello. Rimasi sbalordito nell’apprendere che alcuni pazienti erano in quelle condizioni da trenta o quarant’anni e che, in effetti, l’ospedale era stato aperto nel 1920 per queste prime vittime dell’encefalite letargica.

Negli anni Venti e Trenta, per accogliere i pazienti postencefalitici, erano stati costruiti o convertiti interi ospedali in tutto il mondo: uno di questi, l’Highlands Hospital a nord di Londra, dotato di decine di padiglioni estesi su diversi ettari, era stato originariamente dedicato ai pazienti con malattie infettive ma in seguito venne utilizzato per ricoverare quasi ventimila postencefalitici. Verso la fine degli anni Trenta, però, la maggior parte delle persone colpite era morta, e anche la malattia – un tempo sulle prime pagine dei giornali – era quasi dimenticata. Nella letteratura medica, le pubblicazioni sulle strane sindromi postencefalitiche, che potevano manifestarsi anche dopo decenni, erano pochissime.

Le infermiere, che conoscevano bene questi pazienti, erano convinte che dietro il loro aspetto statuario – bloccato, imprigionato – vi fossero menti e personalità intatte. Raccontavano inoltre che in talune occasioni essi potevano essere liberati per brevissimo tempo dai loro stati congelati; la musica, per esempio, poteva animarli e metterli in condizione di ballare, benché fossero incapaci di camminare; o di cantare, anche se non erano in grado di parlare. In rari casi, poi, alcuni di loro potevano muoversi spontaneamente, all’improvviso e con velocità fulminea, nella cosiddetta cinesia paradossa.

Ad affascinarmi era lo spettacolo di una malattia mai uguale a se stessa in due pazienti diversi, una malattia che poteva assumere qualsiasi forma possibile, giustamente definita «fantasmagoria» da chi l’aveva studiata negli anni Venti e Trenta. Era una sindrome comprendente una gamma amplissima di disturbi a tutti i livelli del sistema nervoso; molto meglio di qualunque altra, poteva dunque mostrare sia l’organizzazione di quest’ultimo, sia le modalità di funzionamento più primitive del cervello e del comportamento.

A volte, quando mi muovevo tra i miei pazienti postencefalitici, mi sentivo come un naturalista in una giungla tropicale; anzi, talora, in una giungla antica, testimone di comportamenti preistorici, pre-umani. Li vedevo lisciarsi, artigliare, leccare, succhiare, respirare affannosamente, inscenare un intero repertorio di strani comportamenti respiratori e fonatori: «comportamenti fossili», vestigia darwiniane del passato fatte affiorare dal limbo fisiologico grazie alla stimolazione di sistemi primitivi del tronco encefalico, dapprima danneggiati e resi sensibili dall’encefalite, e adesso «risvegliati» dalla L-dopa.35

Passai un anno e mezzo a osservare i pazienti e prendere appunti, a volte filmandoli e registrandoli, e nel corso di quel periodo arrivai a conoscerli non solo come malati, ma come persone. Molti di loro erano stati abbandonati dai familiari e non avevano contatti con nessuno, a parte il personale sanitario. Fu solo scavando nelle cartelle cliniche risalenti agli anni Venti e Trenta che potei confermare le diagnosi, e a quel punto chiesi al direttore dell’ospedale il permesso di spostare alcuni di loro sistemandoli in un unico reparto, nella speranza che questo consentisse la formazione di una comunità.

Fin dal principio ebbi l’impressione di essere di fronte a individui in uno stato e in una situazione senza precedenti, mai descritti prima; nel 1966, qualche settimana dopo averli conosciuti, progettai di scrivere su di essi un libro: pensavo di adottare uno dei titoli di Jack London, Il popolo degli abissi. Durante i miei studi, questa percezione della dinamica tra malattia e vita, dell’organismo o del soggetto che lotta per sopravvivere a volte nelle circostanze più bizzarre e oscure, non era una prospettiva cui fosse data importanza, né l’avevo incontrata nella letteratura medica corrente. Ma, quando vidi questi pazienti postencefalitici, capii che si trattava di una prospettiva senza dubbio, e irresistibilmente, vera. La situazione che la maggior parte dei miei colleghi aveva liquidato con toni denigratori («i cronicari... da quelle parti non vedrai mai nulla di interessante») si rivelò esattamente l’opposto: l’ideale per osservare il dispiegarsi di intere esistenze.

 

Alla fine degli anni Cinquanta era stato stabilito che il cervello parkinsoniano era carente di un neurotrasmettitore – la dopamina – e che pertanto poteva essere «normalizzato» aumentandone i livelli. I tentativi di farlo somministrando la L-dopa (un precursore della dopamina) in quantità nell’ordine dei milligrammi producevano tuttavia effetti poco chiari; risultati terapeutici straordinari si osservarono solo quando George Cotzias, con grandissimo coraggio, somministrò dosi mille volte superiori a un gruppo di pazienti con malattia di Parkinson. Dopo la pubblicazione dei suoi risultati, nel febbraio del 1967, le prospettive dei parkinsoniani mutarono d’un colpo: il nuovo farmaco poteva trasformare persone che, fino a quel momento, non avevano avuto altra prospettiva se non quella di una disabilità penosa e sempre più profonda. L’atmosfera era elettrica per l’emozione, e io mi chiesi se la L-dopa non potesse aiutare anche i miei pazienti, peraltro diversissimi.

Dovevo dare la L-dopa ai nostri pazienti del Beth Abraham? Esitavo; essi infatti non avevano la comune malattia di Parkinson, ma un disturbo postencefalitico di gran lunga più complesso, grave e bizzarro. Come avrebbero reagito questi pazienti, con la loro malattia tanto diversa? Sentivo che dovevo essere prudente – in modo quasi esagerato. La L-dopa avrebbe potuto riaccendere i problemi neurologici che alcuni di loro avevano avuto nei primi anni della malattia, prima di essere imprigionati nel parkinsonismo?

Nel 1967, con una certa trepidazione, chiesi alla Drug Enforcement Administration la speciale autorizzazione necessaria per usare la L-dopa a scopo di ricerca, giacché all’epoca era ancora un farmaco sperimentale. Il rilascio dell’autorizzazione richiese diversi mesi, e per varie ragioni fu solo nel marzo del 1969 che iniziai uno studio clinico di novanta giorni, in doppio cieco, su sei pazienti: metà di essi avrebbe ricevuto un placebo, ma né loro né io avremmo saputo a chi fosse stato assegnato il farmaco attivo.

Nel giro di qualche settimana, però, la L-dopa produsse i suoi effetti, evidenti e spettacolari. Dalla percentuale di fallimento – esattamente il 50 per cento – era possibile dedurre l’assenza di qualsiasi effetto placebo significativo. In coscienza, non potevo più continuare la somministrazione del placebo, e decisi di mettere la L-dopa a disposizione di qualsiasi paziente desiderasse provarla.36

All’inizio, le reazioni furono quasi tutte positive; quell’estate, quando i pazienti esplosero tornando in modo dirompente alla vita dopo essere stati quasi inanimati per decenni, assistemmo a «risvegli» festosi e stupefacenti.

Poi, però, quasi tutti andarono incontro a tribolazioni, sviluppando non solo «effetti collaterali» specifici della L-dopa, ma anche certi schemi generali di criticità: fluttuazioni improvvise e imprevedibili della risposta, e un’estrema sensibilità alla L-dopa. Alcuni pazienti reagivano in modo diverso al farmaco ogni volta che glielo somministravamo. Provai a modificare le dosi, titolandole scrupolosamente, ma questo ormai non funzionava più; adesso, sembrava che il «sistema» avesse una dinamica tutta sua. Per molti pazienti, pareva non esserci alcun margine utile fra una dose di L-dopa troppo alta e una troppo bassa.

Mentre tentavo di titolare i miei pazienti e – nell’affrontare sistemi cerebrali che evidentemente avevano perso le consuete caratteristiche di flessibilità o di tolleranza – mi scontravo con le limitazioni non emendabili di qualsiasi approccio puramente clinico o farmacologico, pensavo a Michael e ai suoi problemi con i tranquillanti (farmaci che smorzano i sistemi dopaminergici, là dove la L-dopa li attiva).37

 

Quando ero uno specializzando all’UCLA, la neurologia e la psichiatria erano presentate come discipline quasi prive di relazione, ma, una volta emerso dal periodo di formazione per affrontare l’autentica realtà dei pazienti, mi ritrovai spesso a dover essere simultaneamente psichiatra e neurologo. Avevo percepito tutto questo, in modo molto intenso, con in miei pazienti emicranici, e nel caso dei postencefalitici trovai impossibile resistere a quell’impressione, giacché questi ultimi presentavano una miriade di disturbi «neurologici» e «psichiatrici»: parkinsonismo, mioclono, corea, tic, strane compulsioni, impulsi, ossessioni, «crisi» improvvise e accessi di passione. Con pazienti simili, un approccio esclusivamente neurologico o esclusivamente psichiatrico non portava da nessuna parte; i due aspetti dovevano essere messi in relazione.

I postencefalitici erano rimasti in uno stato di sospensione per decenni: una sospensione della memoria, della percezione e della coscienza. Ora stavano tornando alla vita, alla piena coscienza e alla mobilità. Si sarebbero ritrovati – al pari di Rip Van Winkle – come presenze anacronistiche in un mondo nel frattempo andato avanti?

Quando somministravo loro la L-dopa, i «risvegli» cui assistevo non erano solo fisici, ma anche intellettuali, percettivi ed emotivi. Un risveglio o un’animazione così totale era in contraddizione con la neuroanatomia degli anni Sessanta, secondo la quale le funzioni motorie, intellettuali e affettive erano localizzate in compartimenti cerebrali perfettamente separati e non comunicanti. L’anatomista che era in me, ossequiente a questa concezione, diceva: «Non può essere. Un “risveglio” del genere non dovrebbe verificarsi».

Chiaramente, però, stava accadendo.

La Drug Enforcement Administration chiedeva la compilazione di moduli standard per la valutazione dei sintomi e delle risposte al farmaco, ma quello che stava accadendo era talmente complesso, in termini neurologici e umani, che quegli strumenti non potevano neanche lontanamente dare spazio alla realtà di quanto stavo osservando. Sentii il bisogno, come lo sentirono anche alcuni pazienti, di tenere appunti e diari dettagliati. Cominciai a portarmi dietro un registratore a nastro e una macchina fotografica, e in seguito anche una piccola cinepresa Super 8, perché sapevo che probabilmente quanto stavo osservando non sarebbe stato visto mai più; era fondamentale avere una documentazione visiva.

Alcuni pazienti dormivano per gran parte del giorno ma di notte erano sveglissimi, e questo significava che anch’io dovevo avere un orario di lavoro articolato sulle ventiquattr’ore. Questo mi privò del sonno, tuttavia mi diede la sensazione di essere vicino ai pazienti, e mi consentì anche di essere reperibile, di notte, per tutti i cinquecento ricoverati al Beth Abraham: poteva rendersi necessario l’intervento su un paziente con un’insufficienza cardiaca acuta, l’invio di un altro a un pronto soccorso, o la richiesta di un’autopsia se un degente moriva. Benché normalmente vi fosse un medico reperibile diverso ogni notte, io pensai di poter dare una reperibilità costante, e mi offrii volontario.

Agli amministratori del Beth Abraham l’idea piacque e così mi offrirono, a un costo decisamente simbolico, un appartamento in una casa adiacente all’ospedale, di norma riservato al medico reperibile. La situazione andava bene a tutti: la maggior parte degli altri medici detestava le reperibilità e io ero felicissimo di avere un appartamento sempre aperto ai miei pazienti. I membri dello staff – psicologi, assistenti sociali, fisioterapisti, logopedisti, musicoterapeuti, tra gli altri – passavano spesso da me per parlare dei pazienti. Quasi ogni giorno c’erano discussioni stimolanti e feconde sugli eventi mai visti prima che si dispiegavano davanti a tutti noi imponendoci di adottare approcci mai tentati in precedenza.

James Purdon Martin, un insigne neurologo di Londra che aveva deciso di trascorrere gli anni del pensionamento osservando i pazienti postencefalitici dello Highlands Hospital e lavorando con loro, aveva pubblicato nel 1967 un libro straordinario sulle anormalità posturali e sui problemi di equilibrio di quei soggetti. Nel settembre del 1969 fece un viaggio a New York appositamente per vedere i miei pazienti; non dovette essere facile per lui, che allora aveva passato i settantacinque anni. Rimase affascinato nel vedere i pazienti in terapia con la L-dopa e disse di non aver mai visto nulla del genere dai tempi dell’epidemia acuta, cinquant’anni prima. «Deve scrivere tutto questo, nei minimi dettagli» insistette.

Nel 1970 cominciai a scrivere sui postencefalitici nella forma che mi è sempre stata più congeniale, la lettera all’editore. In una settimana, inviai a «The Lancet» quattro lettere che furono immediatamente accettate per la pubblicazione. Il mio capo, però, il direttore medico del Beth Abraham, non era soddisfatto. «Ma perché pubblichi queste cose in Inghilterra?» mi disse. «Tu sei qui in America; devi scrivere qualcosa per il “Journal of the American Medical Association”. E non queste lettere su singoli individui, ma un’indagine statistica su tutti i pazienti e sul loro decorso».

Nell’estate del 1970, in una lettera al «JAMA», esposi quindi i miei risultati descrivendo tutti gli effetti della L-dopa nei sessanta pazienti ai quali l’avevo somministrata per un anno. Al principio, osservavo, quasi tutti avevano reagito bene, ma prima o poi, con poche eccezioni, erano tutti sfuggiti al controllo, entrando in stati complessi, a volte bizzarri e imprevedibili. Stati che – scrivevo – non potevano essere considerati «effetti collaterali», ma andavano interpretati come parti integranti di un complesso in evoluzione.

Il «JAMA» pubblicò la mia lettera, tuttavia – mentre quelle uscite su «The Lancet» avevano ricevuto moltissime reazioni positive da parte dei colleghi – questa fu accolta da un silenzio strano e un po’ minaccioso.

Silenzio che fu interrotto qualche mese dopo, quando, su uno dei numeri di ottobre del «JAMA», l’intera sezione delle lettere fu dedicata alle risposte, fortemente critiche e a volte irritate, da parte di vari medici. In sostanza dicevano: «Sacks è fuori di testa. Noi stessi abbiamo visitato decine di pazienti ma non abbiamo mai osservato nulla del genere». Uno dei miei colleghi di New York affermò di aver visto più di cento pazienti parkinsoniani in terapia con la L-dopa, ma di non aver mai assistito alle reazioni complesse che descrivevo io. Gli risposi dicendo: «Caro dottor M., quindici dei suoi pazienti sono ora affidati alle mie cure al Beth Abraham. Le piacerebbe venire a visitarli e a vedere come stanno?». Non ricevetti risposta.

All’epoca mi sembrò che alcuni miei colleghi stessero minimizzando certi effetti negativi della L-dopa. Una lettera diceva che, quand’anche ciò che avevo descritto fosse stato reale, non avrei dovuto pubblicarlo, perché avrebbe avuto un «impatto negativo sull’atmosfera di ottimismo necessaria per ottenere una reazione terapeutica alla L-dopa».

Io pensavo che, da parte del «JAMA», non fosse stato corretto pubblicare quegli attacchi senza darmi l’opportunità di rispondere sullo stesso numero della rivista. Se l’avessi avuta, avrei messo bene in chiaro l’estrema sensibilità dei pazienti postencefalitici, una sensibilità che li faceva reagire alla L-dopa molto prima, e in modo ben più drammatico, dei soggetti con il parkinsonismo comune. Ecco perché io osservavo nei miei pazienti, dopo qualche giorno o qualche settimana, effetti che i miei colleghi, curando la malattia di Parkinson comune, avrebbero visto soltanto dopo anni.

Vi erano tuttavia anche questioni più profonde. Nella mia lettera al «JAMA» non mi ero limitato a gettare un’ombra di dubbio su quella che inizialmente era sembrata la questione, estremamente semplice, di somministrare un farmaco e tenerne sotto controllo gli effetti: io avevo gettato l’ombra del dubbio sull’idea stessa di prevedibilità, presentando la contingenza come un fenomeno essenziale e inevitabile, emergente con la somministrazione protratta della L-dopa.

Sapevo di aver avuto un’opportunità più unica che rara; e sapevo di avere qualcosa di importante da dire, ma non capivo come dirla, come essere fedele alle mie esperienze senza rinunciare alla «pubblicabilità» in ambito medico o all’accettazione da parte dei miei colleghi. Avvertii tutto questo in modo acutissimo quando «Brain» – la più antica e stimata rivista di neurologia – respinse un mio lungo articolo sui pazienti postencefalitici e sulle loro risposte alla L-dopa.

 

 

 

Nel 1958, quando studiavo ancora medicina, il grande neuropsicologo sovietico A.R. Lurija venne a Londra per tenere una conferenza sullo sviluppo del linguaggio in una coppia di gemelli identici; nel suo discorso combinò capacità di osservazione, profondità teorica e calore umano in un modo che trovai rivelatore.

Una volta arrivato a New York, nel 1966, lessi due suoi libri, Le funzioni corticali superiori nell’uomo e Human Brain and Psychological Processes. Quest’ultimo, che conteneva la descrizione completa di casi di pazienti con danni ai lobi frontali, mi riempì di ammirazione.38

Due anni dopo mi imbattei in Una memoria prodigiosa. Lessi le prime trenta pagine pensando che fosse un romanzo, poi capii che in realtà era la descrizione di un caso clinico: la più dettagliata e profonda che avessi mai letto, con la potenza drammatica, il sentimento e la struttura di un romanzo.

Lurija aveva raggiunto la fama internazionale come fondatore della neuropsicologia; era tuttavia convinto che le sue storie di casi clinici, con la loro profonda dimensione umana, non fossero meno importanti dei suoi grandi trattati. L’impresa di Lurija – la combinazione del classico e del romantico, della scienza e della narrazione di storie – divenne così anche la mia, e il suo «libretto», come lo chiamava sempre (Una memoria prodigiosa conta poco più di un centinaio di pagine), modificò l’obiettivo e l’orientamento della mia vita, divenendo il modello non solo per Risvegli, ma per tutto quello che avrei scritto in seguito.

Nell’estate del 1969, dopo aver lavorato diciotto ore al giorno con i postencefalitici, me ne andai a Londra in uno stato di esaurimento ed esaltazione. Ispirato dal «libretto» di Lurija, trascorsi sei settimane dai miei genitori, dove scrissi i primi nove casi di Risvegli. Quando glieli proposi, i miei editori della Faber & Faber dissero di non essere interessati.

Scrissi poi anche un lavoro di quarantamila parole sui comportamenti e i tic dei postencefalitici e progettai inoltre un trattato intitolato «Subcortical Functions in Man», le funzioni sottocorticali nell’uomo, complementare a quello di Lurija, Le funzioni corticali superiori nell’uomo. Faber respinse anche questi.

Ai tempi in cui arrivai al Beth Abraham, nel 1966, la struttura ospitava, oltre a un’ottantina di pazienti postencefalitici, centinaia di ricoverati con altre patologie neurologiche: pazienti più giovani con la malattia del motoneurone (ALS), la siringomielia, la malattia di Charcot-Marie-Tooth, eccetera; e pazienti più anziani con malattia di Parkinson, ictus, tumori cerebrali o demenza senile (a quei tempi, il termine «malattia di Alzheimer» era riservato ai rari pazienti con demenza pre-senile).

Il primario di neurologia dell’Einstein mi chiese di usare questa straordinaria popolazione di pazienti per introdurre i suoi studenti alla materia. Otto o nove studenti alla volta, con un particolare interesse per la neurologia, venivano da me ogni venerdì pomeriggio per due mesi (c’erano anche incontri fissati in altri giorni per andare incontro a studenti ortodossi che non potevano partecipare il venerdì). Imparavano non solo a conoscere i disturbi neurologici, ma anche che cosa significasse essere ricoverati in una struttura per lungodegenti e vivere con una disabilità cronica. Di settimana in settimana passavamo dai disturbi del sistema nervoso periferico e del midollo spinale a quelli del tronco encefalico e del cervelletto, poi proseguivamo con i disturbi del movimento per arrivare infine a quelli della percezione, del linguaggio, del pensiero e del giudizio.

Cominciavamo sempre con l’insegnamento in corsia, raccogliendoci intorno al letto di un paziente per far affiorare la sua storia, porgli delle domande ed esaminarlo. Io stavo accanto a lui, in genere senza intervenire ma assicurandomi che fosse sempre trattato con rispetto e cortesia e ricevesse un’attenzione totale.

I malati che presentavo agli studenti erano esclusivamente quelli che conoscevo bene e che avevano accettato di essere interrogati ed esaminati. Alcuni di loro erano insegnanti nati. Tanto per fare un esempio, Goldie Kaplan, affetta da una rara patologia congenita del midollo spinale, era solita dire agli studenti: «Non cercate di memorizzare “siringomielia” dai vostri libri di testo: pensate a me. Osservate questa grande bruciatura sul mio braccio sinistro, dove mi sono appoggiata a un calorifero senza sentire calore o dolore. Ricordate come sto seduta tutta contorta, e le mie difficoltà a parlare, perché ormai la siringe sta raggiungendo il tronco encefalico. Io esemplifico la siringomielia!». Goldie diceva: «Ricordate me!». Tutti gli studenti seguirono l’esortazione e alcuni, scrivendomi molti anni dopo, accennavano a lei affermando di poterla ancora vedere con l’occhio della mente.

Dopo tre ore passate a visitare i pazienti, facevamo una pausa per il tè, servito nel mio affollato studiolo; le pareti erano tappezzate da un palinsesto di carte fissate con puntine da disegno: articoli, appunti, pensieri, disegni grandi come poster. Poi, se le condizioni del tempo lo permettevano, attraversavamo la strada e andavamo all’orto botanico, dove ci sistemavamo sotto un albero e parlavamo di filosofia e della vita in generale. Nel corso dei nostri nove venerdì pomeriggio arrivavamo a conoscerci bene.

A un certo punto, il dipartimento di neurologia mi chiese di esaminare i miei studenti e di valutarli. Io consegnai il modulo richiesto dopo aver assegnato a tutti loro il massimo punteggio. Il mio superiore era indignato. «Come possono aver preso tutti il massimo?» chiese. «È forse una specie di scherzo?».

Io risposi che no, non era uno scherzo: ma più conoscevo ciascuno studente, e più mi sembrava che fosse speciale. I miei punteggi massimi non erano un tentativo di affermare una qualche artificiosa uguaglianza, ma piuttosto il riconoscimento dell’unicità di ognuno. Credevo che uno studente non potesse essere ridotto a un numero o al risultato di un test, non più di quanto lo si potesse fare con un paziente. Come avrei potuto giudicare gli studenti senza valutarli in molte situazioni diverse relativamente a qualità quali empatia, interesse, responsabilità, giudizio, cui non era possibile attribuire punteggi?

Alla fine, non mi chiesero più di formulare valutazioni.

In qualche occasione, mi capitò di seguire uno studente per periodi più lunghi. Uno di essi, Jonathan Kurtis, è venuto recentemente a trovarmi e mi ha detto che a distanza di oltre quarant’anni l’unica cosa che adesso ricorda di quand’era studente è quel periodo di tre mesi trascorso con me. A volte gli dicevo di andare a visitare una paziente – poniamo – con la sclerosi multipla: di entrare nella sua stanza e di passare con lei un paio d’ore. Poi doveva farmi la descrizione più completa possibile non solo dei suoi problemi neurologici e del suo modo di conviverci, ma anche di aspetti quali la personalità, gli interessi, la famiglia e tutta la storia della donna.39

Parlavamo del paziente e della sua «condizione» in termini più generali, e poi gli consigliavo letture di approfondimento; Jonathan era rimasto colpito dal fatto che spesso gli raccomandavo fonti originali (sovente ottocentesche). Nessun altro, all’università, mi confidò Jonathan, gli aveva mai suggerito di leggere quelle descrizioni: ammesso che se ne facesse mai menzione, erano comunque liquidate come «roba vecchia», obsoleta, irrilevante, di nessuna utilità o interesse per chiunque non fosse uno storico.

 

Al Beth Abraham (come accadeva ovunque, negli ospedali), accompagnatori, inservienti e infermieri di diverso livello facevano turni molto pesanti ed erano mal pagati, così nel 1972 il loro sindacato, Local 1199, indisse uno sciopero. Certi membri del personale lavoravano lì da molti anni e avevano sviluppato un forte attaccamento nei confronti dei loro pazienti. Parlai con alcuni manifestanti mentre erano schierati lungo la linea del picchetto, e mi raccontarono di quanto si sentissero combattuti ad abbandonare i loro pazienti; c’era chi piangeva.

Io temevo per alcuni ricoverati, soprattutto quelli immobilizzati a letto, che dovevano essere girati spesso per evitare le piaghe da decubito e dovevano eseguire esercizi passivi per la mobilità delle articolazioni, altrimenti destinate a bloccarsi. In questi pazienti un solo giorno senza essere girati e senza fare esercizi bastava ad avviare il declino, e sembrava che lo sciopero potesse durare una settimana o anche di più.

Telefonai a un paio di miei studenti, spiegando la situazione e chiedendo loro se potevano dare una mano. Acconsentirono a convocare una riunione del consiglio studentesco per discutere la questione e mi richiamarono due ore dopo, dicendo con un tono di scusa che il consiglio, come tale, non poteva legittimare il crumiraggio. Tuttavia, aggiunsero, i singoli studenti potevano agire secondo coscienza: i due che avevo interpellato sarebbero venuti subito.

Attraversai il picchetto insieme a loro – i lavoratori in sciopero ci lasciarono passare – e trascorremmo le quattro ore successive a girare i pazienti, a far loro eseguire gli esercizi per le articolazioni, e a occuparci dei loro bisogni fisiologici; dopo di che, altri due studenti diedero il cambio ai primi. Era un lavoro da spezzare la schiena, ventiquattr’ore su ventiquattro, e ci fece capire quanto fossero duri i normali turni di infermieri, aiuto infermieri e inservienti; ad ogni modo, riuscimmo a evitare piaghe o altri problemi agli oltre cinquecento ricoverati.

Le questioni di lavoro e salario furono infine risolte, e dieci giorni dopo il personale tornò al lavoro. L’ultima sera, però, mentre andavo alla macchina, trovai il parabrezza rotto. Sopra c’era un grande cartello scritto a mano che diceva: «Dottor Sacks, le vogliamo bene. Lei però ha fatto il crumiro». Avevano aspettato la fine dello sciopero, così da consentire a me e agli studenti di prenderci cura dei ricoverati.40

 

 

 

Quando si invecchia gli anni sembrano confondersi gli uni con gli altri, ma il 1972 rimane inciso con chiarezza nella mia memoria. I tre anni precedenti erano stati un periodo di enorme intensità, con i risvegli e le tribolazioni dei miei pazienti; un’esperienza del genere non capita due volte – di solito, nemmeno una – nell’arco di una vita. Il valore, la profondità, l’intensità e la portata di quegli eventi mi fecero capire che in un modo o nell’altro dovevo raccontarli, ma non riuscivo a immaginare una forma appropriata, una forma che potesse combinare da un lato l’obiettività della scienza e dall’altro l’intensa sensazione di contatto umano, la vicinanza tra me e i pazienti e l’autentica meraviglia (e a volte la tragedia) di tutta la vicenda. Iniziai il 1972 con un acuto senso di frustrazione, senza sapere se avrei mai trovato un modo per imbrigliare l’esperienza e plasmarla in qualcosa che avesse unità e forma organiche.

Consideravo ancora l’Inghilterra come casa mia, e vedevo i dodici anni trascorsi negli States alla stregua di una visita protratta, o poco più. Mi sembrava che, per scrivere, dovessi andare – tornare – a casa. «Casa» significava molte cose: Londra; la grande casa di Mapesbury Road, con la sua struttura incoerente, dove ero nato e dove i miei genitori ormai ultrasettantenni vivevano ancora con Michael; e Hampstead Heath, dove ero solito giocare da bambino.

Decisi di tenermi l’estate libera, e trovai un appartamento ai margini di Hampstead Heath, a breve distanza sia dai sentieri, dai boschi pieni di funghi, e dai laghetti in cui mi piaceva nuotare, sia da Mapesbury Road. In giugno i miei genitori avrebbero celebrato le nozze d’oro, e le nostre famiglie si sarebbero riunite: non solo i miei tre fratelli e io, ma anche i fratelli e le sorelle dei miei genitori, come pure nipoti e cugini alla lontana.

Io, però, avevo una ragione più specifica per stare lì vicino: mia madre aveva la stoffa della narratrice. Raccontava storie di argomento medico a colleghi, studenti, pazienti e amici; le aveva raccontate anche a noi – a me e ai miei tre fratelli – fin dalla più tenera età: storie a volte cupe e terrificanti, ma sempre evocative delle qualità personali, del particolare valore e coraggio del paziente. Anche mio padre era un gran narratore di storie mediche, e il senso di meraviglia che i miei genitori provavano di fronte alle bizzarrie della vita, il loro combinare una forma mentis clinica e narrativa, erano trasmessi con grande forza a tutti noi. Il mio stesso impulso a scrivere – non narrativa o poesia, ma cronache e descrizioni – sembra essermi arrivato direttamente da loro.

Mia madre era rimasta affascinata quando le avevo raccontato dei pazienti postencefalitici: dei risvegli e delle tribolazioni cui erano andati incontro quando avevo somministrato loro la L-dopa. Aveva continuato a esortarmi a scrivere le loro storie, e nell’estate del 1972 disse: «Adesso! Questo è il momento».

Trascorrevo sempre la mattina camminando e nuotando a Hampstead Heath, e il pomeriggio a scrivere o a dettare le storie di Risvegli. Ogni sera facevo una passeggiata da Frognal lungo Mill Lane e poi fino al 37 di Mapesbury Road, dove leggevo a mia madre l’ultima puntata. Quand’ero bambino aveva letto lei a me, per ore: fu attraverso la sua voce che conobbi Dickens, Trollope e D.H. Lawrence; adesso voleva che fossi io a leggere per lei, che dessi una forma narrativa completa alle storie che aveva già ascoltato in modo frammentario. Mi stava a sentire concentrata, sempre partecipando emotivamente, ma anche con un forte senso critico acuito dalla percezione di ciò che era reale dal punto di vista clinico. Tollerava, con sentimenti contrastanti, le mie digressioni e le mie riflessioni, ma il valore fondamentale, per lei, era il «suonar vero». «Questo non sa di vero!» mi diceva a volte; poi, però, sempre più spesso: «Adesso ci sei. Adesso suona vero».

In un certo senso, quindi, quell’estate scrivemmo le storie di Risvegli insieme, io e lei, con la sensazione che il tempo si fosse fermato, la sensazione di vivere un incantesimo, una sospensione dal ritmo frenetico della vita quotidiana, un tempo privilegiato e speciale consacrato alla creazione.

Dal mio appartamento di Hampstead Heath potevo andare a piedi anche allo studio di Colin Haycraft, in Gloucester Crescent. Ricordo di aver conosciuto Colin nel 1951, quando io ero matricola al Queen’s e lui era all’ultimo anno: una figura tarchiata e piena di energia nella toga accademica, già con la sicurezza e i manierismi di un Gibbon, ma agile e scattante nei movimenti; si diceva fosse brillante nei giochi con la racchetta non meno che nello studio dei classici. Tuttavia, fu solo vent’anni dopo che ci conoscemmo davvero.

Nell’estate del 1969 avevo scritto i primi nove casi clinici di Risvegli, che però Faber & Faber aveva respinto: un rifiuto che mi aveva turbato, facendomi dubitare che sarei stato ancora in grado di finire o pubblicare un libro.41 Avevo messo via quel manoscritto, e in seguito lo persi.

A quel tempo ormai Colin Haycraft aveva una casa editrice molto rispettata, la Duckworth, proprio di fronte alla casa di Jonathan Miller. Verso la fine del 1971, vedendo le mie difficoltà, Jonathan gli aveva portato una copia carbone dei primi nove casi clinici; io mi ero completamente dimenticato che lui l’avesse.

Colin apprezzò le mie storie di casi e mi esortò a scriverne altre, il che, al tempo stesso, mi esaltò e mi spaventò. Lui premeva, con garbo; io tergiversavo; lui arretrava, aspettava e poi tornava alla carica; era molto sensibile, molto delicato nei confronti della mia diffidenza e delle mie ansie. Per sei mesi, mi comportai in modo elusivo.

Percependo che avevo bisogno di una spinta ulteriore, Colin – nel modo impulsivo e intuitivo con cui spesso faceva le cose – mandò in bozza il dattiloscritto che gli aveva portato Jonathan; lo fece a luglio, senza avvertire, senza consultarmi. Se non proprio un gesto di prodigalità fu comunque un atto molto generoso – che garanzia aveva che avrei continuato a scrivere? – e anche, fondamentalmente, un atto di fede. Questo accadde infatti prima dell’avvento della fotocomposizione, e Colin aveva affrontato spese considerevoli per produrre quelle prime bozze. Per me quella fu la dimostrazione che veramente, secondo lui, il libro era buono.

Mi procurai una stenodattilografa: avevo subito una lesione da colpo di frusta quando, salendo di corsa le scale della cantina, avevo sbattuto la testa contro una trave bassa, e l’incidente aveva causato una tale compromissione della mano destra da impedirmi di reggere la penna. Mi imposi di lavorare e dettare ogni giorno: compito che ben presto divenne un piacere, mentre mi addentravo sempre di più nel lavoro. «Dettare» non è proprio la parola giusta. Mi sistemavo sul divano indossando il collare, esaminavo i miei appunti, e poi raccontavo le mie storie alla dattilografa, osservando attentamente le espressioni del suo volto mentre le trascriveva. Le sue reazioni erano fondamentali: non stavo parlando a una macchina, ma a lei; la scena era una sorta di Shahrazade al contrario. Ogni mattina, lei mi portava le trascrizioni del giorno precedente, impeccabilmente dattiloscritte, e la sera io le leggevo a mia madre.

Quasi tutti i giorni, poi, inviavo a Colin le parti finite del dattiloscritto, che avremmo quindi esaminato nei minimi dettagli. Quell’estate passammo ore e ore, confinati insieme, a lavorare. Eppure, rileggendo la nostra corrispondenza, vedo che conservavamo ancora una notevole formalità: lui era sempre «Mr. Haycraft»; e io ero sempre il «Dottor Sacks». Il 20 agosto 1972 gli scrissi:

 

Caro Mr. Haycraft,

accludo alla presente la storia di altri cinque casi. Le sedici storie scritte finora, nel complesso, ammontano a 240 pagine, che dovrebbero essere 50/60.000 parole ... Sto pensando di aggiungerne altri quattro ... ma in questo, naturalmente, mi rimetto al suo giudizio sulla questione...

Ho cercato di passare da raccolte e compilazioni di dati clinici a delle storie, ovviamente senza riuscirci del tutto. Lei ha assolutamente ragione quando parla della forma dell’Arte e della mancanza di forma della Vita: forse avrei dovuto mantenere in tutte le storie una linea o un tema più incisivi, più espliciti, ma sono talmente complesse ... come arazzi. In una certa misura sono minerali grezzi, che altri (io compreso) potranno estrarre e purificare in seguito.

Con i migliori saluti,
Oliver Sacks

 

Una settimana dopo, scrissi:

 

Caro Mr. Haycraft,

ho lavorato diversi giorni a un’introduzione ... che allego alla presente. Sembra che io riesca a trovare la via giusta solo dopo aver preso ogni possibile cantonata, una volta esaurite tutte le possibili vie sbagliate ... Ho bisogno di riparlare con lei presto ... come sempre, perché lei mi aiuta a fare ordine.

 

Nell’estate del 1972, Mary-Kay Wilmers – vicina di Colin in Gloucester Crescent e editor di «The Listener», un settimanale pubblicato dalla BBC – mi invitò a scrivere un articolo sui miei pazienti e i loro «risvegli». Mai nessuno, in precedenza, mi aveva commissionato un articolo, e «The Listener» aveva un’eccellente reputazione, perciò mi sentivo onorato ed emozionato: sarebbe stata la mia prima opportunità di trasmettere a un pubblico generale la meraviglia di quell’esperienza nella sua globalità. E invece dei rifiuti censori che mi arrivavano dalle riviste di neurologia, qui mi si invitava a scrivere, mi si offriva la possibilità di pubblicare in modo completo e libero quello che, tanto a lungo trattenuto, era andato crescendo e accumulandosi.

Il mattino seguente scrissi l’articolo da cima a fondo e lo inviai a Mary-Kay con un corriere. Nel pomeriggio, però, ebbi qualche ripensamento e le telefonai per dirle che credevo di poter fare un lavoro migliore. Lei rispose che l’articolo inviato era buono, ma che, se desideravo fare aggiunte o revisioni, sarebbe stata lieta di leggerle. «Tuttavia» sottolineò «l’articolo non ha bisogno di revisione. È molto chiaro, scorre benissimo: saremmo felici di pubblicarlo così com’è».

Io però avevo la sensazione di non aver detto tutto quello che volevo dire, e invece di armeggiare sul pezzo originale, ne scrissi un altro, con un approccio molto diverso dal primo. Mary-Kay ne fu ugualmente soddisfatta; entrambi i pezzi erano pubblicabili così com’erano, disse.

La mattina dopo ero ancora insoddisfatto e scrissi una terza bozza, e nel pomeriggio una quarta. Nel corso di una settimana, in tutto, inviai a Mary-Kay nove bozze. A quel punto lei partì per la Scozia dicendo che avrebbe cercato di fonderle in qualche modo, ma dopo qualche giorno tornò dichiarando che trovava impossibile unificarle. Ciascun pezzo aveva un carattere diverso, era scritto da una prospettiva differente: non erano versioni parallele, disse, bensì «ortogonali» l’una all’altra. Avrei dovuto sceglierne una, e se non ci fossi riuscito, l’avrebbe fatto lei. Alla fine scelse la settima versione (o forse era la sesta?), e sul numero del 26 ottobre 1972 di «The Listener» comparve quella.

 

A me sembra di scoprire i miei pensieri attraverso la scrittura, nell’atto di scrivere. In qualche caso, un pezzo mi viene subito perfettamente; più spesso, però, i miei scritti hanno bisogno di un esteso lavoro di potatura e editing, perché posso esprimere lo stesso pensiero in molti modi diversi. Pensieri e associazioni marginali possono dirottarmi proprio a metà di una frase, e questo porta al fiorire di parentesi, di subordinazioni e di frasi lunghe come paragrafi. Non uso mai un solo aggettivo se, nel loro effetto cumulativo, sei mi sembrano migliori e più incisivi. Sono tormentato dalla densità della realtà e cerco di catturarla con «descrizioni dense» (per usare un’espressione di Clifford Geertz). Tutto questo mi crea problemi di organizzazione. A volte sono come inebriato dal flusso veloce dei pensieri e divento troppo impaziente di metterli nel giusto ordine. D’altra parte, una mente fredda e qualche intervallo di sobrietà non sono meno necessari dell’esuberanza creativa.

Come a Mary-Kay, anche a Colin toccò scegliere tra molte versioni, contenere la mia prosa a volte sovrabbondante e creare una continuità. In qualche caso, indicando un passaggio, diceva: «Questo non va qui»; poi girava qualche pagina e indicava «va qui». Appena lo diceva, capivo che aveva ragione, ma – misteriosamente – non riuscivo ad accorgermene da solo.

A quel tempo non chiedevo a Colin soltanto di fare ordine, ma anche un supporto emotivo quando mi bloccavo o tutte le volte che il mio stato d’animo e la mia fiducia venivano meno, come accadeva, quasi al punto del crollo, dopo che il primo slancio si era esaurito.

 

 

19 settembre 1972

Caro Mr. Haycraft,

a quanto pare mi trovo in una di quelle fasi di arido e totale scoramento in cui l’unica possibilità è di non far nulla o di procedere inutilmente in cerchio. Quello che mi fa dannare è che per finire il libro mi occorrerebbero solo tre giorni di lavoro come si deve, ma allo stato attuale non so se ne sarò capace.

In questo momento, sono in uno stato d’animo così difficile e pieno di sensi di colpa, da credere di non poter sopportare l’idea che, in Risvegli, uno qualsiasi dei miei pazienti venga esposto in modo da essere identificabile, o che lo stesso ospedale sia riconosciuto: può darsi che questo sia uno dei motivi che mi stanno impedendo di finire il libro.

 

 

 

Ormai il Labor Day era passato, l’America era di nuovo al lavoro e anch’io dovevo riprendere la mia quotidiana routine newyorkese. Avevo terminato altri undici casi, ma non avevo idea di come chiudere il libro.

Tornai al mio vecchio appartamento adiacente al Beth Abraham, dove abitavo dal 1969, ma il mese dopo il direttore dell’ospedale mi disse, di punto in bianco, che dovevo liberarlo: ne aveva bisogno lui per la vecchia madre malata. Io replicai che comprendevo le necessità della signora, ma che – così avevo inteso – l’appartamento era riservato al medico reperibile e, a quel titolo, negli ultimi tre anni e mezzo l’avevo occupato io. La mia risposta irritò il direttore: poiché stavo mettendo in dubbio la sua autorità, mi disse che potevo lasciare l’appartamento e anche l’ospedale. Così, in un colpo solo, fui privato del lavoro, di un’entrata, dei miei pazienti e di un posto in cui stare (continuai, comunque, a visitare i miei malati in forma non ufficiale fino al 1975, quando fui reintegrato a tutti gli effetti al Beth Abraham).

Una volta spogliato di tutto, l’appartamento – che avevo riempito con tutte le mie cose, compreso un pianoforte – sembrava un luogo desolato; il 13 novembre mi trovavo lì, nella mia casa ormai vuota, quando telefonò mio fratello David per dirmi che nostra madre era deceduta: durante un viaggio in Israele aveva avuto un infarto ed era morta mentre camminava nel deserto del Negev.

Presi il primo aereo per l’Inghilterra e al funerale portai la bara insieme ai miei fratelli. Mi chiedevo come mi sarei sentito a fare la shiva: stare seduto tutto il giorno, per sette giorni di fila, su uno sgabello basso insieme ai miei cari in lutto, ricevendo un flusso costante di visitatori – e parlare, parlare, parlare incessantemente della defunta. Non sapevo se sarei riuscito a tollerarlo. Poi, invece, trovai quella totale condivisione di emozioni e ricordi un’esperienza cruciale e costruttiva, mentre quando restavo da solo mi sentivo completamente annientato dalla morte di mia madre.

Soltanto sei mesi prima avevo consultato la dottoressa Margaret Seiden, una neurologa della Columbia, poiché salendo di corsa le scale della cantina di casa mia avevo battuto la testa contro una trave, riportando una lesione al collo. Dopo avermi visitato, la dottoressa Seiden mi chiese se mia madre fosse una certa «Miss Landau». Io risposi di sì, e lei allora mi raccontò di essere stata una delle sue studentesse; all’epoca era in condizioni di indigenza, e mia madre le aveva pagato gli studi di medicina. Fu solo al funerale di mamma, quando conobbi un gran numero di suoi ex studenti, che appresi come ne avesse aiutati molti, a volte sostenendo tutti i costi dei loro studi. Mia madre non mi aveva mai detto (forse non lo aveva detto a nessuno) di quanto si fosse adoperata per i suoi studenti bisognosi. Avevo sempre pensato a lei come a una persona frugale, addirittura parsimoniosa, ma non avevo mai capito quanto fosse generosa. Mi accorsi, troppo tardi, che c’erano interi aspetti del suo carattere dei quali non avevo mai saputo nulla.

Il fratello più grande di mia madre, lo zio Dave (noi lo chiamavamo zio Tungsteno, e fu lui a introdurmi alla chimica, quando ero bambino), mi raccontò molti aneddoti di quando mamma era più giovane: storie che mi affascinarono, mi confortarono e in qualche caso mi fecero ridere. Verso la fine della settimana mi disse: «Quando torni in Inghilterra, vieni da me, così facciamo una bella chiacchierata. Io sono l’unico, ormai, che abbia dei ricordi di tua madre quand’era bambina».42

Mi commosse soprattutto vedere un così gran numero di pazienti e studenti di mia madre, e come la ricordassero in modo intenso, spiritoso, con affetto: vederla attraverso i loro occhi, nella sua veste di medico, docente e narratrice di storie. Mentre parlavano di lei, io ricordavo anche la mia identità di medico, docente e narratore di storie, e come questo ci avesse avvicinati aggiungendo, nel corso degli anni, una nuova dimensione al nostro rapporto. Ciò mi fece anche capire che dovevo completare Risvegli, come ultimo tributo a lei. Crebbe allora in me, diventando più intenso a ogni giorno del lutto, uno strano senso di pace e compostezza, un senso di ciò che realmente contava, delle dimensioni allegoriche della vita e della morte.

La morte di mia madre fu la perdita più devastante che avessi mai subito: la perdita del rapporto più profondo e forse, in un certo senso, più vero della mia vita. Trovavo impossibile leggere cose di argomento terreno; ogni sera, quando finalmente me ne andavo a letto, potevo accostarmi solo alla Bibbia o alle Devozioni di Donne.

Una volta concluso il periodo di lutto formale, rimasi a Londra e ricominciai a scrivere, e tutti i miei pensieri erano dominati dal senso della vita e della morte di mia madre, e dalle Devozioni di Donne. In quello stato d’animo, scrissi le ultime parti, le più allegoriche, di Risvegli: con un sentimento, una voce, che non mi ero mai conosciuto prima.

 

Colin fece ordine e lenì i miei stati d’animo più cupi, sciogliendo anche tutti i dettagli intricati, convoluti e a volte labirintici del libro, così che per dicembre era finalmente terminato. Poiché non potevo sopportare la casa di Mapesbury orfana e vuota, nell’ultimo mese di scrittura, poco mancò che mi trasferissi nella sede della Duckworth, alla Old Piano Factory – anche se la sera tornavo a Mapesbury per cenare con papà e Lennie (Michael, dopo la morte di mamma, avendo percepito il riaffiorare della psicosi, si era fatto ricoverare in ospedale). Colin mi diede una piccola stanza alla Duckworth, e poiché in quel periodo il mio impulso a cincischiare o a cancellare quello che avevo appena scritto era fortissimo, stabilimmo che gli avrei passato sotto la porta ogni pagina subito dopo averla terminata. Colin non mi offriva solo il suo acume critico, ma anche un senso di protezione e sostegno – in ultima analisi, quasi una casa –, del quale all’epoca avevo altrettanto bisogno.

A dicembre, dunque, il libro era scritto.43 Avevo passato a Colin l’ultima pagina, ed era tempo che tornassi a New York. Presi un taxi per l’aeroporto, con la sensazione che il libro fosse ormai completo; ma poi, in auto, all’improvviso mi accorsi di avere omesso qualcosa di assolutamente fondamentale – qualcosa la cui assenza avrebbe mandato in pezzi l’intera struttura. Lo scrissi precipitosamente, e quello fu l’inizio di un periodo di scrittura febbrile di note, che continuò per due mesi. Tutto questo accadde molto prima dell’èra del fax, ma a febbraio 1973 avevo ormai inviato a Colin più di quattrocento note per espresso postale.

Lennie era rimasta in contatto con Colin, il quale le raccontò che stavo «cincischiando» sul manoscritto, sommergendolo di note da New York; questo spinse mia zia ad ammonirmi severamente: «No, no, no» scrisse. «Smettila di intervenire sul testo o di aggiungerci altre note!».

Colin mi disse: «Le note sono tutte interessanti, ma nell’insieme sono lunghe tre volte il libro, e lo affonderanno». Potevo tenerne una dozzina – concesse.

«Va bene» replicai io. «Le scelga lei».

Ma lui (saggiamente) disse: «No, sarà lei a farlo, altrimenti poi se la prenderà con me per la mia scelta».

E così la prima edizione uscì con una dozzina di note soltanto. Insieme, Lennie e Colin salvarono Risvegli dalla mia tendenza alla sovrabbondanza.

Vedere le prime bozze del libro, al principio del 1973, fu un’emozione. Un paio di mesi dopo erano pronte quelle impaginate, ma Colin non me le mandò: temeva infatti che avrei colto l’occasione per apportare innumerevoli cambiamenti e aggiunte, come avevo fatto sulle prime, e questo avrebbe fatto slittare la pubblicazione.

Paradossalmente, qualche mese dopo, fu Colin a proporre di rimandare l’uscita del libro in modo che alcune parti potessero essere pubblicate in anteprima sul «Sunday Times»; io però ero fortemente contrario, perché volevo vederlo pubblicato per il mio compleanno, a luglio o prima. Avrei compiuto quarant’anni e volevo poter dire: «Avrò anche quarant’anni, avrò anche perso la mia giovinezza, ma almeno ho fatto qualcosa, ho scritto questo libro». Colin pensava che mi stessi comportando in modo irrazionale, ma comprese il mio stato d’animo e acconsentì ad attenersi alla data di pubblicazione prevista, per la fine di giugno (in seguito ricordò che Gibbon aveva fatto di tutto per pubblicare l’ultimo volume di Declino e caduta il giorno del suo compleanno).

 

 

 

Poiché dopo la laurea ero rimasto a Oxford, e alla fine degli anni Cinquanta ci tornavo spesso, mi capitò a volte di incappare in W.H. Auden. Era stato nominato visiting professor di poesia e, quando era in città, andava ogni mattina al Cadena Café a chiacchierare con chiunque volesse passare a trovarlo. Era molto cordiale, ma io ero troppo timido per farmi avanti. Nel 1967, comunque, ci conoscemmo a un cocktail party a New York.

Mi invitò a fargli visita, e a volte mi recavo nel suo appartamento a St. Mark’s Place per il tè: un’ora perfetta, perché alle quattro aveva finito la sua giornata di lavoro, ma non aveva ancora cominciato le bevute serali. Auden fu sempre un gran bevitore, anche se si dava una gran pena a spiegare che non era un alcolizzato ma, appunto, un bevitore. Una volta gli chiesi quale fosse la differenza, e lui mi disse: «Un alcolizzato ha un cambiamento di personalità dopo uno-due bicchieri, ma un bevitore può bere quanto gli pare. Io sono un bevitore». Di sicuro beveva moltissimo; a cena – che fosse a casa sua o da qualcun altro – se ne andava alle nove e mezzo portandosi via tutte le bottiglie sul tavolo. Ma, per quanto bevesse, la mattina dopo alle sei era sveglio e al lavoro (Orlan Fox, l’amico che ci presentò, lo definiva l’uomo meno pigro che avesse mai incontrato).

Wystan, come me, era cresciuto in una famiglia di medici. Suo padre, George Auden, era un medico di Birmingham e aveva prestato servizio come ufficiale sanitario durante la grande epidemia di encefalite letargica (il dottor Auden era particolarmente interessato al modo in cui la malattia poteva alterare la personalità dei bambini e pubblicò diversi articoli sull’argomento). A Wystan piaceva parlare di medicina e aveva un debole per i medici (nel suo libro Epistle to a Godson ci sono quattro poesie dedicate a medici, compresa una dedicata a me). Poiché lo sapevo, nel 1969 lo invitai a visitare il Beth Abraham e a conoscere i miei pazienti postencefalitici (in seguito scrisse una poesia intitolata Old People’s Home, ma non ho mai saputo con certezza se si riferisse al Beth Abraham o a qualche altra casa di cura).

Nel 1971 aveva scritto una bella recensione di Emicrania, e io mi ero molto emozionato; ebbe anche un’importanza fondamentale, per me, mentre scrivevo Risvegli, soprattutto quando mi disse: «Dovrai andare oltre l’aspetto clinico ... Sii metaforico, sii mistico, sii qualsiasi cosa devi essere».

 

All’inizio del 1972 Wystan aveva ormai deciso di lasciare l’America per passare i giorni che gli restavano in Inghilterra e in Austria. Aveva trovato molto difficile l’inizio di quell’inverno, gravato da un senso di malessere e solitudine, unito ai sentimenti complessi e contraddittori suscitati dalla decisione di lasciare l’America, dove aveva vissuto tanto a lungo e che tanto profondamente aveva amato.

La prima vera interruzione di questo stato d’animo ci fu il giorno del suo compleanno, il 21 febbraio. A Wystan erano sempre piaciuti i compleanni e i festeggiamenti di ogni genere, e quello fu particolarmente importante e commovente. Aveva sessantacinque anni; sarebbe stato il suo ultimo compleanno in America, e i suoi editori gli avevano preparato una festa speciale, in cui si ritrovò circondato da una sorprendente quantità di amici vecchi e nuovi (ricordo Hannah Arendt, seduta vicino a lui). Fu solo allora, in quello straordinario raduno, che compresi appieno la ricchezza della sua personalità, il suo talento per l’amicizia, di qualsiasi genere essa fosse. Sedeva raggiante, in mezzo ai suoi amici, completamente a suo agio. O così parve a me: non lo avevo mai visto più felice. E però, mescolata a tutto questo, c’era anche una sensazione di tramonto, di addio.

Subito prima che Wystan lasciasse definitivamente l’America, Orlan Fox e io lo stavamo aiutando a smistare e imballare i suoi libri, un’incombenza penosa. Passammo ore a sfacchinare e accatastare volumi, poi facemmo una pausa per una birra e ci sedemmo un momento senza parlare. Dopo un po’, Wystan si alzò e mi disse: «Prendi un libro, qualche libro, quello che ti pare». Si fermò e, vedendomi paralizzato, aggiunse: «Va bene, allora deciderò io. Questi sono i miei libri preferiti: quanto meno, due dei miei preferiti!».

Mi porse il suo libretto del Flauto Magico e un volume sbrindellato delle lettere di Goethe, che aveva preso dal comodino. Il vecchio Goethe era pieno di scarabocchi, annotazioni e commenti amorevoli.44

Alla fine della settimana – era un sabato, il 15 aprile 1972 – Orlan e io portammo Wystan all’aeroporto. Arrivammo con circa tre ore di anticipo, perché lui era d’una puntualità ossessiva e aveva un vero e proprio terrore di perdere treni o aeroplani. (Una volta mi raccontò di un suo sogno ricorrente: si stava affrettando per prendere un treno, in uno stato di estrema agitazione; credeva che la sua vita – tutto – dipendesse dal riuscire a prenderlo. Sorgevano poi degli ostacoli, uno dopo l’altro, facendolo sprofondare nel panico, come un urlo muto. E poi, all’improvviso, capiva che era troppo tardi, che aveva perso il treno, e che la cosa non aveva la minima importanza. A quel punto era pervaso da un senso di rilassamento che raggiungeva la beatitudine, eiaculava e si svegliava sorridente).

Arrivammo in anticipo, dunque, e ammazzammo il tempo perdendoci in una conversazione divagante; soltanto dopo, quando se ne fu andato, capii che quell’andare alla deriva e quelle digressioni convergevano su un unico punto, e che il centro della conversazione era l’addio: a noi e a quei trentatré anni – metà della sua vita – che aveva trascorso negli Stati Uniti (era solito autodefinirsi, scherzando solo per metà, un Goethe transatlantico). Subito prima che annunciassero il suo volo, spuntò un perfetto sconosciuto che farfugliò: «Lei dev’essere Mr. Auden ... È stato un onore, per noi, averla nel nostro paese, signore. Se tornerà, sarà sempre accolto come un ospite stimato e come un amico». Poi l’uomo gli tese la mano dicendo: «Arrivederci Mr. Auden, che Dio la benedica per tutto!», e Wystan gliela strinse con grande cordialità. Era molto commosso; aveva gli occhi lucidi. Mi volsi verso di lui e gli chiesi se quegli incontri fossero comuni.

«Comuni, sì,» disse «ma mai comuni. C’è un affetto genuino in questi incontri casuali». Mentre il cortese sconosciuto si allontanava con discrezione, chiesi a Wystan come percepisse il mondo, se lo vedesse come un luogo molto piccolo o molto grande.

«Né l’uno né l’altro» replicò. «Né grande né piccolo. Accogliente, accogliente». E poi aggiunse, a bassa voce: «Come una casa».

Non disse altro; non c’era altro da dire. L’annuncio impersonale risuonò a tutto volume, e Wystan si affrettò al cancello di imbarco. Lì si voltò e ci baciò entrambi: il bacio di un padrino che stringe con affetto i suoi figliocci, un bacio di benedizione e di addio. All’improvviso sembrava terribilmente vecchio e fragile, e tuttavia conservava la nobile solennità di una cattedrale gotica.

 

Nel febbraio del 1973 mi trovavo in Inghilterra, così andai a Oxford per fare visita a Wystan, che ormai alloggiava a Christ Church. Volevo portargli le prime bozze di Risvegli (me le aveva chieste lui, e in effetti fu l’unica persona che le lesse, a parte Colin e zia Len). Era una bellissima giornata, e invece di prendere un taxi dalla stazione, decisi di camminare. Arrivai da lui un po’ in ritardo, e quando lo vidi stava facendo dondolare un orologio da polso. «Sei in ritardo di diciassette minuti» disse.

Passammo moltissimo tempo a discutere un articolo pubblicato su «Scientific American» che lo aveva molto emozionato: Prematurity and Uniqueness in Scientific Discovery, di Gunther Stent. Wystan aveva scritto una replica all’articolo, contrapponendo le storie intellettuali della scienza e dell’arte (replica che venne pubblicata sulla rivista nel febbraio del 1973).

Di ritorno a New York, ricevetti una sua lettera. Era datata 21 febbraio, «il mio compleanno» aveva aggiunto; era breve e molto, molto cara:

 

Caro Oliver,

moltissime grazie per la tua bella lettera. Ho letto Risvegli e penso sia un capolavoro. Mi congratulo davvero. La mia sola riserva – se vuoi che lo leggano i profani, come dovrebbero – è che faresti bene ad aggiungere un glossario per i termini tecnici di cui fai uso.

Con affetto,
Wystan

 

Quando ricevetti la lettera di Auden, piansi. Un grande scrittore, per nulla incline a usare le parole in modo superficiale o adulatorio, giudicava il mio libro «un capolavoro». Ma il suo era un giudizio puramente «letterario»? Risvegli aveva anche un valore scientifico? Io speravo di sì.

Qualche tempo dopo, quella primavera, Wystan mi riscrisse, dicendo che il suo cuore stava «facendo un po’ i capricci» e che sperava potessi andare a trovarlo in Austria, nella casa che condivideva con Chester Kallman. Per una ragione o per l’altra, tuttavia, non ci andai, e rimpiango moltissimo di non avergli fatto visita quell’estate, perché il 29 settembre morì.

 

Il 28 giugno 1973 (il giorno dell’uscita di Risvegli) «The Listener» pubblicò una splendida recensione del libro scritta da Richard Gregory e, nello stesso numero, un mio articolo su Lurija (ero stato invitato a recensire Un mondo perduto e ritrovato e a estendere poi il discorso, in modo da comprendervi l’intera opera dell’autore). Il mese dopo provai la grande emozione di ricevere una lettera da Lurija in persona.

Lurija raccontò in seguito di quando, diciannovenne, aveva fondato l’Associazione psicoanalitica di Kazan, dal titolo pretenzioso, e aveva ricevuto una lettera di Freud (che non si era reso conto di avere a che fare con un adolescente). Lurija provò un’enorme emozione nel ricevere una lettera da Freud, e io provai un’esaltazione simile nel riceverne una da lui.

Mi ringraziava per il mio articolo e prese in esame tutti i punti che avevo sollevato, affermando in modo molto cortese, ma senza mezzi termini, che riteneva io fossi, sotto molti aspetti, decisamente in errore.45

Alcuni giorni dopo, mi arrivò un’altra sua lettera in cui mi diceva di aver ricevuto la copia di Risvegli inviatagli da Richard:

 

Mio caro dottor Sacks,

ho ricevuto Risvegli e l’ho letto d’un fiato e con gran piacere. Sono sempre stato consapevole e sicuro del fatto che una buona descrizione clinica dei casi sia di primaria importanza in medicina, specialmente in neurologia e in psichiatria. Purtroppo, la capacità di descrivere che era tanto comune tra i grandi neurologi e psichiatri dell’Ottocento oggi si è esaurita, forse a causa di un madornale errore, pensare cioè che gli strumenti meccanici ed elettrici possano sostituire lo studio della personalità. Il suo ottimo libro dimostra che l’importante tradizione di studio dei casi clinici può essere portata a nuova vita, e con grande successo. Grazie infinite per il bellissimo libro!

A.R. Lurija

 

Io ammiravo Lurija come fondatore della neuropsicologia e della «scienza romantica», e la sua lettera mi diede una gioia immensa e una sorta di rassicurazione intellettuale che non avevo mai ricevuto prima.

 

 

 

Il 9 luglio 1973 era il mio quarantesimo compleanno. Mi trovavo a Londra, Risvegli era appena uscito, e stavo festeggiando con una nuotata in uno dei laghetti di Hampstead Heath, quello in cui mio padre mi aveva immerso quando avevo solo qualche mese.

Mi allontanai dalla riva verso una delle boe e, mentre ero aggrappato ad essa e contemplavo lo scenario – esistono pochi luoghi più belli per nuotare –, mi sentii palpare sott’acqua. Io trasalii, e il molestatore, un bel giovane con un sorriso malizioso stampato in faccia, venne in superficie.

Gli sorrisi anch’io, e ci mettemmo a parlare. Era uno studente di Harvard, mi disse, e quella era la prima volta che veniva in Inghilterra. Londra gli piaceva in modo particolare: era stato tutti i giorni a visitare i monumenti e tutte le sere a teatro o a qualche concerto. Le sue notti, aggiunse, erano state alquanto solitarie. Doveva tornare negli States di lì a una settimana. Un amico, adesso fuori città, gli aveva prestato il suo appartamento. Avevo voglia di andarlo a trovare?

Ci andai – allegramente, senza il mio consueto carico di inibizioni e di paure –, felice che lui avesse un aspetto così piacevole, che avesse preso l’iniziativa, che fosse così diretto e sincero; e felice, anche, che fosse il mio compleanno e che potessi considerare lui e il nostro incontro come un perfetto regalo per l’occasione.

Andammo da lui, facemmo l’amore, pranzammo, di pomeriggio visitammo la Tate, di sera andammo alla Wigmore Hall e poi ce ne tornammo a letto.

Passammo insieme una settimana gioiosa – le giornate piene, le notti intime: una settimana felice, festosa e piena di passione –, prima che lui dovesse tornare negli States. Non ci furono sentimenti profondi o angosciosi; ci piacevamo, godemmo della reciproca compagnia e, quando la settimana finì, ci separammo senza dolore e senza promesse.

Fu una buona cosa che io non avessi alcuna premonizione del futuro, perché dopo la bella avventura di quel compleanno non avrei più fatto sesso per i successivi trentacinque anni.46

 

 

 

Al principio del 1970 «The Lancet» aveva pubblicato le mie quattro lettere all’editore sui pazienti postencefalitici e sulle loro reazioni alla L-dopa. Avevo dato per scontato che sarebbero state lette solo da colleghi e fui sorpreso, un mese dopo, quando la sorella di Rose R., una delle mie pazienti, mi mostrò una copia del «Daily News» di New York, il quale aveva ristampato una delle mie lettere, dandole grande rilievo sotto un titolone.

«È questa la sua discrezione professionale?» mi chiese agitandomi il giornale davanti. Benché solo un intimo amico o un parente potesse riconoscere la paziente dalla descrizione, io ne fui scioccato non meno di lei – non avevo pensato che «The Lancet» potesse cedere un articolo a un’agenzia di stampa –, credevo che uno scritto specialistico avrebbe avuto una circolazione molto limitata, assolutamente non in ambito pubblico.

A metà degli anni Sessanta avevo scritto diversi articoli un po’ più tecnici per riviste come «Neurology» e «Acta Neurologica», e in quei casi i contenuti non erano trapelati all’esterno. Ma adesso, con i «risvegli» dei miei pazienti, ero entrato in un’arena molto più vasta e questo fu il mio ingresso in un territorio assai delicato e a volte ambiguo: una linea o una terra di confine tra ciò che può, e non può, essere detto.

Naturalmente non avrei potuto scrivere Risvegli senza l’incoraggiamento e l’autorizzazione degli stessi pazienti, che avevano la nettissima sensazione di essere stati esclusi dalla società, messi da parte, dimenticati, e che volevano si raccontasse la loro storia. Nondimeno, dopo l’episodio con il «Daily News», esitavo a pubblicare Risvegli negli Stati Uniti. In un modo o nell’altro, però, una delle mie pazienti sentì parlare della pubblicazione inglese e scrisse a Colin, il quale le inviò una copia del libro. E poi il libro uscì.

 

A differenza di Emicrania, che aveva avuto riscontri favorevoli sia presso i recensori generalisti, sia presso i medici, la pubblicazione di Risvegli ebbe un’accoglienza sconcertante. Fu recensito molto bene dalla stampa non specialistica: anzi, nel 1974 il libro ricevette il premio Hawthornden, un riconoscimento tenuto in grande considerazione per la «imaginative literature» (la qual cosa mi emozionò, visto che andavo a unirmi a un elenco comprendente tra gli altri Robert Graves e Graham Greene – per non parlare di James Hilton con il suo Orizzonte perduto, un libro che da ragazzo avevo adorato).

Dai miei colleghi medici, però, non arrivò nemmeno un sussurro. Nessuna rivista scientifica recensì il volume. Alla fine, nel gennaio del 1974, l’editor del «British Clinical Journal», una rivista che ebbe vita breve, scrisse che secondo lui due dei fenomeni più strani avvenuti in Inghilterra l’anno precedente erano la pubblicazione di Risvegli e la completa assenza di una reazione da parte del mondo scientifico, quello che definì lo «strano mutismo» dei medici.47

Nondimeno, il libro fu votato come Libro dell’Anno da cinque insigni scrittori, e nel dicembre del 1973 Colin organizzò una pubblicazione congiunta e un party di Natale. Alla festa c’erano molte persone delle quali avevo sentito parlare e che ammiravo ma che non avevo mai conosciuto né pensato di conoscere. Mio padre, che si stava riprendendo proprio allora da un anno di lutto per la morte di mia madre, venne alla festa; lui, che all’inizio era stato tanto preoccupato per il fatto che pubblicassi i miei libri, in quell’occasione vide molte persone insigni e ne fu rassicurato. Io stesso, che mi ero sentito perduto e ignorato, ora provavo la sensazione di essere esaltato e festeggiato. Alla festa c’era anche Jonathan Miller, che mi disse: «Adesso sei famoso».

Non sapevo che cosa significasse veramente; nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere.

 

Una recensione uscita in Inghilterra mi irritò, benché fosse per molti versi decisamente positiva. Naturalmente nel libro avevo usato degli pseudonimi per i pazienti e per il Beth Abraham. Avevo chiamato l’ospedale Mount Carmel, collocandolo nel paese fittizio di Bexley-on-Hudson. Il recensore scriveva qualcosa del genere: «Questo è un libro sorprendente, a maggior ragione se si pensa che Sacks sta parlando di pazienti che non esistono, ricoverati in un ospedale che non esiste, affetti da una malattia che non esiste, perché negli anni Venti non vi fu alcuna epidemia mondiale di encefalite letargica». Feci vedere la recensione ad alcuni dei miei pazienti, e molti di loro dissero: «Ci mostri, altrimenti nessuno crederà mai al libro».

Così chiesi a tutti i pazienti che cosa pensassero di un documentario. In precedenza mi avevano incoraggiato sulla pubblicazione del libro: «Vada avanti; racconti la nostra storia – altrimenti non sarà mai conosciuta». E adesso dissero: «Vada avanti; ci filmi. Lasci che siamo noi a parlare di noi stessi».

Io non ero sicuro che fosse corretto mostrare i miei pazienti in un film. Quello che passa fra medico e paziente è confidenziale e perfino scriverne costituisce, in un certo senso, una violazione di questa fiducia; la scrittura, d’altra parte, consente di cambiare nomi, luoghi e altri dettagli. Questo tipo di mascheramento è invece impossibile in un documentario, dove tutto è in bella vista: i volti, le voci, le vite reali, le identità.

Avevo dunque dei dubbi, ma fui avvicinato da diversi produttori di documentari e rimasi particolarmente impressionato da uno di essi, Duncan Dallas della Yorkshire Television, soprattutto per la combinazione di competenza scientifica e umanità. Duncan venne a visitare il Beth Abraham nel settembre del 1973 e si incontrò con tutti i pazienti. Ne riconobbe molti per aver letto le loro storie nel libro. «Io la conosco» disse a diversi di loro. «Mi sento come se l’avessi già incontrata».

E poi chiese anche: «Dov’è la musicoterapeuta? Sembra che qui sia la persona più importante». Si riferiva a Kitty Stiles, terapeuta di insolito talento. A quei tempi era decisamente inconsueto avere un musicoterapeuta: gli effetti della musica, ammesso che ve ne fossero, erano considerati tutt’al più marginali; ma Kitty, che lavorava al Beth Abraham dai primi anni Cinquanta, sapeva che pazienti di ogni genere possono presentare intense risposte alla musica e che perfino i postencefalitici, sebbene spesso incapaci di iniziare spontaneamente i movimenti, potevano rispondere in modo involontario al ritmo, proprio come facciamo tutti noi.48

Quasi tutti i pazienti presero a benvolere Duncan e capirono che li avrebbe rappresentati con obiettività, compassione e discrezione, raccontando la loro vita senza eccedere nel distacco scientifico o nel sentimentalismo. Quando vidi che si erano rapidamente stabiliti una reciproca comprensione e un mutuo rispetto, acconsentii alle riprese, e il mese dopo Duncan tornò con la sua troupe. Naturalmente alcuni pazienti non vollero essere filmati, ma i più credevano fosse importante mostrare se stessi come esseri umani costretti ad abitare in un mondo tremendamente strano.

Duncan incorporò nel documentario alcuni spezzoni in Super 8 girati da me nel 1969 – nei quali mostravo i pazienti risvegliarsi sotto l’effetto della L-dopa, e poi andare incontro a bizzarre tribolazioni di ogni genere – e aggiunse commoventi interviste nelle quali i pazienti ripensavano a quegli eventi e descrivevano come fosse vivere dopo essere stati per tanti anni fuori dal mondo.

Il documentario di Risvegli fu proiettato per la prima volta in Inghilterra all’inizio del 1974. È l’unico filmato che mostri questi ultimi sopravvissuti di un’epidemia dimenticata, e che testimoni come un nuovo farmaco abbia temporaneamente trasformato la loro vita; l’unico che mostri la profonda umanità di queste persone in tutte le loro vicissitudini.

 

 

 

35. Macdonald Critchley, nella sua biografia di William R. Gowers, neurologo (e botanico dilettante) di epoca vittoriana, scrive: «Per lui i pazienti neurologici erano come la flora di una giungla tropicale». Al pari di Gowers, anch’io a volte considero i miei pazienti con disturbi insoliti come esseri – forme di vita – straordinari e diversi.

36. All’incirca in quel periodo, ebbi una discussione con Labe Scheinberg, il mio superiore all’Einstein. «Quanti pazienti stai trattando con la L-dopa?» mi chiese.
«Tre, signore» replicai pieno di entusiasmo.
«Perbacco, Oliver» disse Labe. «Io ne ho in terapia trecento».
«Sì, ma io, su ciascun paziente, imparo cento volte quello che impara lei» risposi, ferito dal suo sarcasmo.
I grandi numeri sono necessari, perché quando si lavora su popolazioni è possibile compiere ogni tipo di generalizzazione; d’altra parte, occorre anche il concreto, il particolare, il personale, ed è impossibile trasmettere la natura e l’impatto di una qualsiasi condizione neurologica senza entrare nella vita dei singoli pazienti e senza descriverla.

37. Nell’agosto del 1969, i «risvegli» dei miei pazienti postencefalitici finirono sul «New York Times» sotto forma di un lungo articolo illustrato. Israel Shenker, l’autore, descriveva le improvvise oscillazioni degli effetti del farmaco che avevo osservato in alcuni soggetti e avevo chiamato «effetto yo-yo»: un fenomeno che non fu riportato da altri colleghi, o in altri pazienti, se non diversi anni dopo (e che in seguito fu chiamato «effetto on-off»). Benché la L-dopa fosse presentata come un «farmaco miracoloso», nell’articolo io sottolineavo quanto fosse essenziale prestare attenzione alla vita e alla situazione dei pazienti nel loro complesso, e non soltanto agli effetti di un farmaco sul loro cervello.

38. E anche di paura, perché quando lo lessi pensai: che spazio è rimasto, per me, nel mondo? Lurija ha già visto, detto, scritto e pensato tutto quello che io potrei mai dire, o scrivere o pensare. Ero talmente sconvolto che strappai il libro in due (dovetti acquistarne una nuova copia per la biblioteca, e una anche per me).

39. Forse, in questo, ero stato influenzato da ciò che William James aveva scritto a proposito del suo maestro Louis Agassiz, ovvero di come questi «fosse solito chiudere a chiave uno studente in una stanza piena di carapaci di tartaruga, gusci di aragoste o valve di ostriche, senza un libro o una parola che lo aiutasse, e che non lo facesse uscire finché non aveva scoperto tutte le verità contenute in quegli oggetti».

40. Le cose andarono diversamente in uno sciopero del 1984, quando per quarantasette giorni non fu consentito a nessuno di oltrepassare il picchetto. Molti pazienti ne soffrirono; come scrissi a mio padre, in quel periodo trenta di essi morirono per essere stati trascurati, benché fossero comunque accuditi da dipendenti temporanei e dal personale amministrativo.

41. Raymond Greene (che aveva recensito calorosamente Emicrania quando era uscito, al principio del 1971) voleva commissionarmi per la Heinemann un libro sul parkinsonismo, «proprio come» Emicrania. Questo mi rincuorò e mi scoraggiò allo stesso tempo, perché non volevo ripetermi; sentivo che era necessario un libro del tutto diverso, ma non avevo idea di che tipo di libro dovesse essere.

42. Alcuni mesi dopo, tuttavia, quando tornai a Londra, anche lo zio Dave era in punto di morte. Lo visitai nella sua stanza d’ospedale, ma ormai era troppo debole per parlare a lungo e così quella fu, purtroppo, una visita di addio a uno zio che per me, durante l’infanzia, era stato importantissimo, un vero mentore; e non seppi mai come fosse mia madre durante la sua infanzia.

43. Dopo la morte di mia madre e la chiusura di Risvegli (che ancora non aveva un titolo), sentii una particolare compulsione a leggere le opere di Ibsen e a vederle rappresentate; Ibsen parlava a me, parlava alla mia condizione, e la sua era l’unica voce che riuscivo a sopportare.
Una volta tornato a New York, andai a vedere tutti i suoi lavori teatrali, ma non mi riuscì di trovare una rappresentazione di quello che mi premeva di più, Quando noi morti ci destiamo. Alla fine, a metà gennaio, scoprii che era in programma in un piccolo teatro nel Massachusetts settentrionale e, senza esitare, ci andai in auto: il tempo era terribile, e le strade secondarie insidiose. Non fu la migliore delle performance, ma io mi identificai in Rubek, l’artista tormentato dai sensi di colpa. In quel momento decisi che dovevo intitolare il mio libro Risvegli.

44. Wystan lasciò a New York il suo stereo e tutti i suoi dischi – un numero enorme di 78 giri e di LP – chiedendomi se potevo «badare io a loro». Io li conservai e li ascoltai per molti anni, benché diventasse sempre più difficile sostituire le valvole dell’amplificatore. Nel 2000 li diedi all’archivio Auden presso la Public Library di New York.

45. La sua lettera prendeva poi un tono diverso, e descriveva l’incredibile storia del suo incontro con Pavlov: il vecchio scienziato (che all’epoca aveva più di ottant’anni), somigliante a un Mosè, aveva strappato in due il primo libro di Lurija, e poi, gettati i pezzi ai suoi piedi, aveva gridato: «E voi vi definite uno scienziato!». Lurija raccontò questo episodio sorprendente con una vivacità e uno spirito tali da farne affiorare, allo stesso modo, gli aspetti comici e quelli terrificanti.

46. Nel 2007, all’inizio di un incarico di cinque anni come professore di neurologia alla Columbia, dovetti sostenere un colloquio medico per essere autorizzato a lavorare in ospedale. Kate, mia amica e assistente, era con me, e a un certo punto l’infermiera che stava conducendo il colloquio disse: «Dovrei farle una domanda piuttosto personale. Preferisce che la signora Edgar lasci la stanza?».
«Non occorre» dissi io. «È al corrente di tutto ciò che mi riguarda». Pensavo che stesse per chiedermi della mia vita sessuale, e così senza aspettare che lo facesse, sparai: «Non ho rapporti sessuali da trentacinque anni».
«Oh, poverino!» rispose lei. «Dovremo far qualcosa per porre rimedio!». Scoppiammo tutti a ridere; l’infermiera stava semplicemente per chiedermi il numero della previdenza sociale.

47. Fu solo alcuni anni dopo che i curiosi stati instabili cui avevo assistito nei miei soggetti postencefalitici furono osservati anche nei pazienti con malattia di Parkinson «comune» in terapia con L-dopa. Questi ultimi, con il loro sistema nervoso più stabile, potevano mostrare tali effetti anche dopo diversi anni (mentre i postencefalitici li sviluppavano nell’arco di settimane o mesi).

48. Nel 1978 Kitty aveva ormai deciso di andare in pensione; pensavamo che avesse raggiunto la consueta età del pensionamento, e cioè sessantacinque anni, ma venimmo a sapere che in realtà aveva superato i novanta, benché fosse sorprendentemente vivace e giovanile (era forse stata la musica a conservarla così giovane?). Kitty fu sostituita da Connie Tomaino, una giovane donna piena di energia, con una specializzazione in musicoterapia, che in seguito organizzò un programma di vasta portata esplorando quali fossero gli approcci musicali più adatti ai pazienti con demenza, a quelli con amnesia, o a quelli con afasia. Connie e io abbiamo collaborato per molti anni, e lei lavora ancora al Beth Abraham, attualmente come direttrice dell’Institute for Music and Neurologic Function.