IN MOVIMENTO

Da bambino, nel collegio dov’ero stato mandato durante la guerra, provavo una sensazione di prigionia e impotenza, e desideravo con tutto me stesso movimento ed energia, libertà di muovermi e poteri sovrumani. Godevo fugacemente di queste cose quando sognavo di volare e, in modo diverso, quando andavo a cavalcare nel villaggio vicino alla scuola. Mi piacevano la forza e l’agilità del mio cavallo, e posso ancora evocare quel suo procedere fluido e gioioso, il suo tepore e il suo buon odore di fieno.

Soprattutto, però, mi piacevano le moto. Prima della guerra mio padre ne aveva avuta una, una Scott Flying Squirrel con un grosso motore raffreddato ad acqua e uno scappamento da urlo, e anch’io desideravo possedere una moto potente. Immagini di motociclette, aeroplani e cavalli si fondevano nella mia mente come quelle di motociclisti, cowboy e piloti, che io fantasticavo avessero un controllo precario e al tempo stesso trionfante sulle loro potenti cavalcature. La mia immaginazione di bambino si nutriva di western e film su eroici duelli aerei, dove i piloti rischiavano la vita a bordo degli Hurricane e degli Spitfire, protetti dalle loro pesanti giacche da aviatori, proprio come i motociclisti lo erano da giacche di pelle e caschi.

Quando tornai a Londra – nel 1943, a dieci anni –, mi piaceva sedere in salotto sulla panca sotto la finestra e stare a guardare, cercando di identificarle, le motociclette che passavano sfrecciando (dopo la guerra, quando era più facile trovare la benzina, divennero molto più comuni). Riuscivo a riconoscere una buona decina di marche: AJS, Triumph, BSA, Norton, Matchless, Vincent, Velocette, Ariel e Sunbeam, e anche certe rare moto straniere come le BMW e le Indian.

Da adolescente, andavo spesso a Crystal Palace insieme a un cugino che aveva interessi simili ai miei, per veder gareggiare le moto. Spesso facevo l’autostop fino a Snowdonia per un’arrampicata, oppure al Lake District per nuotare, e a volte riuscivo a farmi dare un passaggio da una moto. Viaggiare in sella dietro al pilota mi emozionava, facendomi sognare a occhi aperti la moto filante e potente che avrei avuto un giorno.

La mia prima moto, a diciott’anni, fu una BSA Bantam di seconda mano con un piccolo motore a due tempi e, come scoprii poi, freni difettosi. Per il suo battesimo della strada la portai a Regent’s Park, il che si rivelò una fortuna, e probabilmente mi salvò la vita, perché la manetta si inceppò proprio mentre stavo andando a tutto gas e i freni non riuscirono a fermarla, e neppure a rallentarla, se non in misura minima. Regent’s Park è costeggiato da una strada, e io mi ritrovai a girarci e rigirarci intorno su una moto che non avevo modo di fermare. Per avvertire i pedoni di togliersi dalla mia traiettoria, suonavo il clacson o urlavo, ma dopo due o tre giri tutti mi davano strada e mi lanciavano grida di incoraggiamento mentre continuavo a passar loro accanto. Sapevo che a un certo punto, esaurita la benzina, la moto si sarebbe fermata e alla fine, dopo decine di giri del parco, percorsi mio malgrado, il motore diede qualche colpo di tosse e morì.

Fin dall’inizio, mia madre era stata molto contraria al fatto che comprassi una moto, e io me l’aspettavo; a sorprendermi, invece, fu l’opposizione di mio padre, visto che lui stesso ne aveva avuta una. Entrambi avevano cercato di dissuadermi acquistandomi una piccola automobile, una Standard del 1934 che faceva a malapena sessantacinque chilometri all’ora. Io avevo finito per odiare quella macchinetta e un giorno, impulsivamente, la vendetti e utilizzai il ricavato per acquistare la Bantam. Adesso mi toccava spiegare ai miei che un’automobile o una moto piccole e senza nerbo erano pericolose perché non avevano la forza di tirarsi fuori dagli impicci, e che sarei stato molto più al sicuro con una moto più grossa e potente. Acconsentirono con riluttanza e mi finanziarono l’acquisto della mia prima Norton.

In sella alla nuova moto, una 250, sfiorai un paio di incidenti. Il primo capitò quando arrivai troppo veloce a un semaforo rosso e, rendendomi conto di non poter frenare o sterzare senza correre rischi, tirai dritto e in qualche modo riuscii – miracolosamente – a passare fra due colonne di auto che si muovevano in direzioni opposte. La reazione arrivò un minuto dopo: percorso un altro isolato, parcheggiai la moto in una strada laterale... e svenni.

Il secondo incidente mi capitò in una notte di pioggia battente, su una tortuosa strada di campagna. Un’auto che veniva dalla direzione opposta non abbassò i fari e mi abbagliò. Pensai che avremmo fatto un frontale, ma all’ultimo momento saltai giù dalla moto (espressione di un’assurda moderazione per descrivere una manovra che poteva salvarmi la vita, ma anche risultare fatale). Lasciai che la moto andasse da una parte (mancò l’auto ma si fracassò) e io mi buttai dall’altra. Per fortuna indossavo casco, stivali, guanti e tutto l’abbigliamento in pelle, e benché avessi fatto una scivolata di una ventina di metri sulla strada bagnata e sdrucciolevole, ero così ben protetto che non mi feci un graffio.

I miei genitori rimasero scioccati, ma erano felicissimi che fossi tutto intero, e stranamente sollevarono poche obiezioni al mio acquisto di un’altra moto più potente: una Norton Dominator 600 cc. Ormai a Oxford avevo finito ed ero in procinto di andare a Birmingham, dove avevo trovato un posto come interno di chirurgia per i primi sei mesi del 1960; così non mancai di osservare che con l’autostrada M1 appena inaugurata tra Birmingham e Londra, e con un mezzo veloce, sarei potuto tornare a casa ogni fine settimana. A quell’epoca in autostrada non c’erano limiti di velocità e quindi potevo essere dai miei in poco più di un’ora.

A Birmingham frequentavo un gruppo di motociclisti, e assaporai il piacere di farne parte, di condividere una passione; fino a quel momento ero sempre stato un centauro solitario. La campagna intorno a Birmingham era pressoché intatta e andare in moto a Stratford-on-Avon per assistere a qualsiasi opera di Shakespeare fosse in programma era particolarmente piacevole.

Nel giugno del 1960 andai al Tourist Trophy, la grande gara motociclistica disputata ogni anno sull’Isola di Man. Riuscii a procurarmi una fascia dell’Emergency Medical Service da tenere al braccio, il che mi permise di visitare i box e di conoscere alcuni piloti. Presi appunti meticolosi, meditando di scrivere un romanzo sulle corse motociclistiche ambientato all’Isola di Man – feci moltissime ricerche allo scopo –, ma la cosa non decollò mai.1

 

Negli anni Cinquanta non c’erano limiti di velocità nemmeno sulla North Circular Road, la tangenziale nord di Londra: una cosa molto invitante per chi amava la velocità; e c’era un famoso locale, l’Ace Café, che fondamentalmente era un ritrovo per i motociclisti dotati di mezzi veloci. Doing the ton – fare cento miglia all’ora – era un requisito minimo per essere ammessi nella cerchia ristretta dei Ton-Up Boys.

Anche in quegli anni c’erano molte moto in grado di fare le cento miglia orarie, soprattutto se si elaboravano un po’, si alleggerivano del peso non indispensabile (compresi i tubi di scarico) e si alimentavano con benzina ad alto numero di ottani. Più eccitante era il «burn-up», una gara che si svolgeva su strade secondarie; non appena si metteva piede nel Café si rischiava la sfida. Prove di coraggio come «la corsa del coniglio», però, non erano viste di buon occhio; già allora, a volte, sulla North Circular il traffico era pesante.

Io non feci mai giochi simili, ma mi godetti qualche corsa su strada; la mia «Dommie» 600 cc aveva un motore un po’ truccato ma non poteva reggere il confronto con le Vincent 1000 favorite dall’élite dell’Ace. Una volta provai una Vincent, ma mi sembrò spaventosamente instabile, soprattutto a bassa velocità: diversissima dalla mia Norton, che aveva un telaio molto confortevole ed era meravigliosamente stabile a qualsiasi velocità. (Mi chiedevo se non si potesse montare il motore di una Vincent sul telaio di una Norton, e anni dopo scoprii che queste «Norvin» erano state effettivamente prodotte). Con l’introduzione dei limiti di velocità, non ci fu più modo di fare le cento miglia all’ora; il divertimento era finito, e l’Ace Café cessò di essere il luogo che era stato un tempo.

 

 

 

Quando avevo dodici anni, un insegnante sensibile scrisse nella sua valutazione: «Sacks andrà lontano, purché non vada troppo lontano», cosa che peraltro accadeva spesso. Da bambino, capitò sovente che mi spingessi troppo in là con i miei esperimenti di chimica, riempiendo la casa di gas nocivi; per fortuna non incenerii mai l’edificio.

Mi piaceva sciare, e a sedici anni andai in Austria con un gruppo scolastico per provare lo sci da discesa. L’anno dopo andai da solo nel Telemark a fare un po’ di fondo. Lo sci andò bene, e prima di prendere il traghetto per tornare in Inghilterra acquistai due litri di acquavite al duty-free; e poi passai la frontiera norvegese. Per quanto riguardava i doganieri scandinavi, potevo portare con me tutte le bottiglie che volevo, ma (mi informarono) in Inghilterra potevo introdurne soltanto una, e la dogana britannica avrebbe confiscato l’altra. Mi imbarcai stringendo le mie due bottiglie, e salii sul ponte superiore. Era una bella giornata tersa e freddissima, ma, avvolto nel caldo abbigliamento da sci, non lo consideravo un problema; gli altri passeggeri stavano all’interno, e il ponte superiore era tutto mio.

Avevo con me l’Ulisse – lo stavo leggendo molto lentamente – e la mia acquavite da sorseggiare: non c’è nulla che ti scaldi dentro come l’alcol. Cullato dal movimento dolce e ipnotico della nave, bevendo un goccio di tanto in tanto, rimasi seduto sul ponte superiore assorto nel mio libro. A un certo punto fui sorpreso scoprendo che, a piccolissimi sorsi, avevo bevuto quasi metà dell’acquavite. Non notavo alcun effetto, e così continuai a leggere e a sorseggiare dalla bottiglia, capovolgendola sempre di più adesso che era mezza vuota. Quando mi accorsi che stavamo attraccando, fui colto alla sprovvista: l’Ulisse mi aveva assorbito a tal punto che non avevo fatto caso al passare del tempo. La bottiglia adesso era vuota. Ancora non avvertivo alcun effetto; quella roba doveva essere molto più leggera di quanto dicevano, pensai, anche se sull’etichetta c’era scritto «57 gradi». Non notai nulla di strano, finché non mi alzai in piedi e subito caddi a faccia in giù. Ero molto sorpreso: forse la nave aveva fatto una brusca sbandata? Mi rialzai e caddi immediatamente un’altra volta.

Solo a quel punto cominciò a sfiorarmi l’idea di essere ubriaco – molto, molto ubriaco –, benché, a quanto pare, l’alcol fosse andato direttamente al cervelletto, lasciando stare il resto. Un uomo dell’equipaggio, salito sul ponte per controllare che tutti i passeggeri fossero scesi dalla nave, mi trovò impegnato nel tentativo di camminare usando le bacchette da sci come appoggio. Chiamò qualcuno che lo aiutasse, e i due, uno per lato, mi scortarono a terra. Sebbene barcollassi terribilmente e attirassi l’attenzione (perlopiù divertita) degli astanti, sentivo di averla avuta vinta sul sistema, lasciando la Norvegia con due bottiglie ma arrivando a casa con una sola: l’altra l’avevo abilmente sfilata ai doganieri britannici che – immaginavo – l’avrebbero molto volentieri tenuta per sé.

 

 

 

Il 1951 fu un anno denso di avvenimenti e, per certi versi, di sofferenza. La mia cara zia Birdie, che era stata una presenza costante nella mia vita, morì a marzo; viveva a casa nostra da sempre ed era incondizionatamente amorevole con tutti noi. (Era una donna molto gracile e di intelligenza limitata, l’unica tra i fratelli e le sorelle di mia madre che avesse difficoltà del genere. Non mi fu mai ben chiaro che cosa le fosse accaduto da piccola; si parlava di una lesione alla testa nella prima infanzia, ma anche di un deficit tiroideo congenito. Per noi, nulla di tutto questo aveva importanza; lei era semplicemente zia Birdie, una componente essenziale della famiglia). La morte di Birdie fu un duro colpo per me, e forse solo allora capii davvero quanto permeasse profondamente il tessuto della mia vita, della vita di tutti noi. Alcuni mesi prima, quando avevo ottenuto una borsa di studio per Oxford, era stata Birdie a consegnarmi il telegramma, ad abbracciarmi e a congratularsi con me – e anche a versare qualche lacrima, perché sapeva che quel telegramma significava che io, il più giovane dei suoi nipoti, avrei lasciato la casa.

Dovevo andare a Oxford verso la fine dell’estate. Avevo appena compiuto diciotto anni, e mio padre pensava che fosse ora di fare una chiacchierata con me da uomo a uomo, da padre a figlio. Parlammo di denaro e del mio assegno: non un grosso problema, perché ero abbastanza frugale nelle mie abitudini e il mio solo lusso erano i libri. Poi mio padre proseguì, arrivando a ciò che realmente lo preoccupava.

«Non sembra che tu abbia molte ragazze» disse. «Non ti piacciono?».

«Ma sì, mi vanno benissimo» risposi io, desideroso di chiudere la conversazione.

«Preferisci forse i ragazzi?» insistette lui.

«Sì – ma è solo una sensazione – non ho mai “fatto” niente». E poi aggiunsi, timoroso: «Non dirlo a mamma, non lo sopporterebbe».

Invece mio padre glielo disse, e il mattino dopo lei scese con la faccia stravolta dalla collera, una faccia che non le avevo mai visto prima. «Sei abominevole» disse. «Vorrei che non fossi mai nato». Poi se ne andò e non mi parlò più per diversi giorni. Quando riaprì bocca, non fece alcun cenno a ciò che aveva detto (né fece mai più riferimento alla questione), ma qualcosa si era messo tra noi. Mia madre, che per moltissimi versi era tanto aperta e fonte di sostegno, su questo tema era dura e inflessibile. Lettrice della Bibbia come mio padre, amava i Salmi e il Cantico dei Cantici, ma era tormentata dalle terribili parole del Levitico: «Non avrai con un uomo relazioni carnali come si hanno con una donna: è cosa abominevole».

Essendo dottori, i miei genitori avevano molti libri di medicina, compresi alcuni sulla «patologia sessuale», e io a dodici anni avevo già dato una scorsa a Krafft-Ebing, Magnus Hurschfeld e Havelock Ellis. Trovavo difficile, però, credere di avere un «disturbo», che la mia identità potesse essere ridotta a un termine o una diagnosi. A scuola i miei amici sapevano che ero «diverso», se non altro perché evitavo le feste che sarebbero prevedibilmente finite in carezze e sbaciucchiamenti.

Sepolto nella chimica e poi nella biologia, non ero troppo consapevole di quello che stava accadendo intorno a me – o dentro di me – e a scuola non mi presi nessuna cotta (benché mi eccitassi per una copia a grandezza naturale, posta in cima alle scale, della famosa statua di un Laocoonte nudo e splendidamente muscoloso, che cerca di salvare i propri figli dai serpenti marini). Sapevo che in alcune persone l’idea stessa dell’omosessualità suscitava orrore; sospettavo che per mia madre potesse essere così, ed è per questo che avevo detto a mio padre «Non dirlo a mamma, non lo sopporterebbe». Forse, non avrei dovuto dirlo neanche a lui; in generale, consideravo la mia sessualità come un affare esclusivamente mio – non un segreto, ma nemmeno qualcosa di cui parlare. I miei amici più stretti, Eric e Jonathan, lo sapevano, ma non discutemmo quasi mai della faccenda. Jonathan diceva che mi considerava «asessuato».

Siamo tutti creature della nostra educazione, della nostra cultura e dei nostri tempi. E io ho avuto più volte bisogno di ricordare a me stesso che mia madre era nata negli anni Novanta dell’Ottocento, che aveva avuto un’educazione ortodossa e che nell’Inghilterra degli anni Cinquanta il comportamento omosessuale era trattato non solo come una perversione, ma come un reato perseguibile. Devo anche ricordare che il sesso è una di quelle materie – come la religione e la politica – in cui persone altrimenti moderate e razionali possono nutrire sentimenti intensi e irrazionali. Mia madre non intendeva essere crudele, o augurarmi la morte. Adesso mi rendo conto che era stata presa alla sprovvista e sopraffatta, e che probabilmente rimpianse le parole che aveva pronunciato o forse le segregò in una parte isolata della sua mente.

Esse però mi tormentarono per buona parte della mia vita ed ebbero un ruolo fondamentale nell’inibirmi e permeare di sensi di colpa quella che avrebbe dovuto essere un’espressione libera e gioiosa della sessualità.

 

 

 

Quando seppero che non avevo avuto esperienze sessuali, mio fratello David e sua moglie Lili credettero di poter attribuire la cosa alla mia timidezza e che una buona donna, così come una bella scopata, potessero raddrizzarmi. Intorno al Natale del 1951, dopo il primo trimestre a Oxford, mi portarono a Parigi con l’intenzione non solo di visitare la città – il Louvre, Notre-Dame, la Torre Eiffel –, ma anche di portarmi da una puttana garbata che valutasse la situazione e che mi insegnasse, con abilità e pazienza, che cosa fosse il sesso.

Fu scelta una prostituta di età e carattere adatti – David e Lili le parlarono preventivamente, spiegandole il problema – e poi io entrai nella sua stanza. Ero talmente terrorizzato che il pene mi si afflosciò dalla paura e i testicoli cercarono di battere in ritirata nella cavità addominale.

Alla prostituta, che somigliava a una delle mie zie, bastò uno sguardo per comprendere la situazione. Parlava un buon inglese (era stato uno dei criteri per la sua selezione) e disse: «Non preoccuparti... adesso ci facciamo una bella tazza di tè». Tirò fuori il servizio e dei petits fours, mise sul fuoco un bollitore e mi chiese che tipo di tè mi piacesse. «Il Lapsang» feci io. «Mi piace l’aroma affumicato». A quel punto, recuperate voce e sicurezza, chiacchierai a mio agio con lei, mentre gustavamo il nostro tè affumicato.

Rimasi lì una mezzora, poi me ne andai; mio fratello e sua moglie stavano aspettando fuori, in apprensione. «Com’è andata, Oliver?» chiese David. «Fantastico» risposi, togliendomi le briciole dalla barba.

 

 

 

Quando avevo quattordici anni, ormai si era «capito» che avrei fatto il medico. Mia madre e mio padre erano entrambi dottori, come pure i miei due fratelli più grandi.

Io però non ero sicuro di voler fare il medico. Non potevo più nutrire ambizioni di diventare un chimico: la materia era progredita ben oltre la chimica inorganica del Sette-Ottocento che io tanto amavo. Ma a quattordici o quindici anni, ispirato dal mio insegnante di biologia e da Vicolo Cannery di Steinbeck, pensavo che mi sarebbe piaciuto fare il biologo marino.

Quando ottenni la borsa di studio per Oxford, mi trovai di fronte a una scelta: sarei rimasto fedele alla zoologia, oppure sarei diventato uno studente «pre-med» e avrei seguito i corsi preparatori agli studi di medicina, come anatomia, biochimica e fisiologia? Era soprattutto la fisiologia dei sensi ad affascinarmi – come facciamo a vedere il colore, la profondità, il movimento? Come facciamo a riconoscere qualsiasi cosa? Come riusciamo a farci un’idea del mondo sul piano visivo? Avevo sviluppato questi interessi fin dalla più tenera età, per via delle mie emicranie visive; oltre alle luminose figure a zig-zag che annunciavano un attacco, infatti, nel corso di un’aura emicranica potevo perdere il senso del colore o della profondità o del movimento o perfino la capacità di riconoscere qualsiasi cosa. Davanti ai miei occhi, ciò che vedevo poteva essere smontato, decostruito, in un modo spaventoso ma affascinante, e poi essere rimontato, ricostruito, il tutto nello spazio di qualche minuto.

Il mio piccolo laboratorio di chimica casalingo adesso mi serviva anche da camera oscura, ed ero attirato in modo particolare dalla fotografia a colori e dalla stereoscopia; anch’esse mi inducevano a chiedermi come il cervello riuscisse a costruire colore e profondità. La biologia marina mi era piaciuta, proprio come mi era piaciuta la chimica, ma adesso volevo capire il funzionamento del cervello umano.

 

Anche se ero considerato intelligente, dal punto di vista intellettuale non ero mai stato molto sicuro di me. Come Jonathan Miller ed Eric Korn, i miei due amici più cari dei tempi di scuola, ero completamente assorbito dalla scienza e dalla letteratura. Ammiravo moltissimo l’intelligenza di Jonathan ed Eric, e non riuscivo a capire come mai perdessero tempo con me; tutti e tre, comunque, ottenemmo delle borse di studio per l’università. Poi io incappai in qualche problema.

Per entrare a Oxford occorreva superare un esame «preliminare»; nel mio caso, visto che avevo già una borsa di studio aperta, era considerato una mera formalità, ma non lo superai. Lo feci una seconda volta, e lo fallii ancora. Provai il test una terza volta, e fui nuovamente bocciato; a quel punto Mr. Jones, il rettore, mi prese da parte e disse: «Sacks, lei ha scritto degli splendidi saggi per la borsa. Perché continua a farsi bocciare a questo stupido esame?». Risposi che non lo sapevo, e lui mi disse «Be’, questa è la sua ultima possibilità». Così feci il test per la quarta volta e finalmente lo passai.

Quando ero alla St. Paul’s School con Eric e Jonathan, avevo a mia disposizione tutto un insieme di materie umanistiche e scientifiche. Ero presidente della nostra società letteraria e allo stesso tempo segretario del Field Club. A Oxford coltivare interessi misti di quel genere era più difficile, perché il dipartimento di anatomia, i laboratori di scienze e la Radcliffe Science Library erano tutti raggruppati in South Parks Road, lontani dalle aule e dai college dell’università: c’era una separazione al tempo stesso fisica e sociale tra quelli di noi che facevano scienze o seguivano i corsi propedeutici a medicina e il resto dell’università.

Lo percepii nettamente nel corso del mio primo trimestre a Oxford. Dovevamo scrivere dei saggi e presentarli ai nostri tutor, e questo implicava che passassimo molte ore alla Radcliffe Science Library leggendo articoli di ricerca e reviews, selezionando ciò che sembrava più importante ed elaborandolo in modo personale. Trascorrere moltissimo tempo leggendo testi di neurofisiologia era piacevole, perfino emozionante – all’epoca sembrava che si stessero aprendo nuove vaste aree –, ma io divenni sempre più consapevole di quello che adesso mi mancava. Non stavo quasi più leggendo altri testi generali a parte Essays in Biography di Maynard Keynes, e desideravo scrivere i miei personali «Essays in Biography», benché con un taglio clinico: saggi che presentassero individui con insolite debolezze o punti di forza, e mostrassero l’influenza di queste particolari caratteristiche sulla loro vita. In breve sarebbero state delle biografie cliniche o, per certi versi, delle storie di casi.

Il primo soggetto (e, in definitiva, l’unico) di questi miei saggi fu Theodore Hook, nel cui nome mi ero imbattuto leggendo una biografia di Sydney Smith, il grande umorista del primo periodo vittoriano. Anche Hook era stato un grande umorista e conversatore, dieci o vent’anni prima di Smith; e aveva impareggiabili capacità di invenzione musicale. Si diceva che avesse composto più di cinquecento opere, sedendo al pianoforte, improvvisando e cantando tutte le parti. Si trattava di fiori che sbocciavano al momento – sorprendenti, bellissimi ed effimeri; erano creati estemporaneamente, mai ripetuti, mai scritti, e ben presto dimenticati. Ero affascinato dalle descrizioni del genio improvvisatore di Hook: che genere di cervello poteva consentire una cosa simile?

Cominciai a leggere tutto quello che potevo su di lui, insieme ad alcuni dei suoi stessi libri; questi sembravano stranamente noiosi e pesanti, in contrasto con le descrizioni delle sue improvvisazioni, così fulminee e liberamente inventive. Pensai moltissimo a Hook e verso la fine del trimestre autunnale scrissi un saggio su di lui, sei grandi fogli dattiloscritti, in tutto quattro-cinquemila parole fittissime.

Recentemente ho ritrovato questo saggio in una scatola, insieme ad altri dei miei primi scritti. Leggendolo, mi colpiscono la sicurezza, l’erudizione, la pomposità e la pretenziosità: non sembra scritto da me. Forse l’avevo copiato di sana pianta, oppure l’avevo attinto da cinque o sei fonti, o in effetti era proprio la mia scrittura, tessuta in uno stile erudito, professorale, adottato per bilanciare il fatto che ero una matricola diciottenne?

Hook fu una digressione; per la maggior parte, i miei saggi vertevano su temi di fisiologia e dovevano essere letti settimanalmente al mio tutor. Quando affrontai l’argomento dell’udito, ero così emozionato, e feci una tal quantità di letture e riflessioni, che non ebbi proprio il tempo per scrivere il saggio. Il giorno della presentazione, portai un blocco per appunti e finsi di leggere da quello, voltando le pagine mentre improvvisavo. A un certo punto Carter (il dottor C.W. Carter, mio tutor al Queen’s) mi fermò.

«Non riesco proprio a seguirti, qui» disse. «Potresti rileggerlo?». Un po’ nervoso, cercai di ripetere le ultime due frasi. Carter sembrava sconcertato. «Fammi vedere» disse. Io gli porsi il blocco bianco. «Notevole, Sacks» ammise. «Decisamente notevole. Ma in futuro, desidero che tu scriva i tuoi saggi».

 

Come studente di Oxford avevo accesso non solo alla Radcliffe Science Library, ma anche alla Bodleian, una splendida biblioteca generalista le cui origini risalgono al 1602. Fu lì che mi imbattei nelle opere, oggi sconosciute e dimenticate, di Hook. Nessun’altra biblioteca – a parte quella del British Museum – avrebbe potuto fornirmi i materiali di cui avevo bisogno; la tranquilla atmosfera della Bodleian, poi, era perfetta per scrivere.

Tuttavia, a Oxford la biblioteca che amavo di più era la nostra, al Queen’s College. Il suo splendido edificio, ci dissero, era stato progettato da Christopher Wren; sotto di esso, in un labirinto di tubi per il riscaldamento e scaffali, era custodito il suo enorme patrimonio sotterraneo.

Per me, tenere fra le mani libri antichi e incunaboli fu un’esperienza nuova; ero incantato soprattutto dall’Historiae animalium (1551) di Conrad Gesner, riccamente illustrato (in particolare, conteneva il famoso disegno di un rinoceronte di Albrecht Dürer), e dall’opera in cinque volumi sui pesci fossili di Louis Agassiz. Fu in quelle grandi scaffalature che vidi tutte le opere di Darwin nelle loro edizioni originali, e sempre lì mi innamorai di tutte quelle di Sir Thomas Browne – il suo Religio Medici, l’Hydriotaphia e The Garden of Cyrus or The Quincunciall Lozenge. Quanto erano assurde alcune di esse, eppure che splendido linguaggio! E se la classica magniloquenza di Browne a volte era eccessiva, si poteva sempre passare alle lapidarie schermaglie di Swift, i cui scritti, ovviamente, erano tutti presenti nelle edizioni originali. Benché fossi cresciuto leggendo le opere ottocentesche predilette dai miei genitori, furono le catacombe della biblioteca del Queen’s che mi introdussero alla letteratura del Seicento e del Settecento: Johnson, Hume, Gibbon e Pope. Tutti questi libri erano liberamente accessibili: non in uno spazio speciale, tenuto sotto chiave, per i libri rari, ma semplicemente disposti sugli scaffali; ed erano lì, immaginavo io, fin dai tempi della loro pubblicazione originale. Fu nelle cripte sotterranee del Queen’s College che acquisii davvero il senso della storia e della mia lingua.

Mia madre, chirurga e anatomista, aveva accettato il fatto che fossi troppo goffo per seguire le sue orme in chirurgia; si aspettava però, almeno, che eccellessi a Oxford in anatomia. Dissezionavamo corpi, assistevamo a delle lezioni e, in capo a un paio di anni, dovevamo sostenere un esame finale. Quando furono pubblicati i risultati, vidi che ero arrivato penultimo del mio corso. Temevo molto la reazione di mia madre e decisi che, viste le circostanze, fosse necessario qualche bicchiere. Così andai al mio pub preferito, il White Horse in Broad Street, e mandai giù quattro o cinque pinte di sidro, che era più forte e anche più a buon mercato della maggior parte delle birre.

Barcollando ubriaco fuori dal White Horse, fui preso da un’idea folle e sfrontata. Avrei provato a compensare la mia spaventosa prestazione agli esami finali di anatomia facendo un tentativo a un premio universitario molto prestigioso, il Theodore Williams, per il conseguimento di una borsa in anatomia umana. L’esame era già cominciato ma io, reso audace dalla sbornia, entrai vacillando, mi sedetti in un banco vuoto e studiai il testo d’esame.

C’erano sette domande a cui rispondere; mi fiondai su una di esse («Il differenziamento strutturale implica un differenziamento funzionale?») e per due ore scrissi senza fermarmi, inserendo tutte le conoscenze di zoologia e botanica che mi riuscì di raccogliere per dare sostanza alla mia discussione. Poi uscii, un’ora prima della fine, ignorando le altre sei domande.

I risultati furono pubblicati sul «Times» quel fine settimana; io, Oliver Wolf Sacks, avevo vinto il premio. Tutti erano esterrefatti – come poteva uno arrivato penultimo agli esami finali di anatomia vincere come se niente fosse il premio Theodore Williams? Quanto a me, non ero del tutto sorpreso, perché quella fu una sorta di ripetizione, all’inverso, di quanto accaduto in occasione dei test preliminari per entrare a Oxford. Sono un disastro negli esami che verificano conoscenze fattuali, con domande sì/no, ma se mi chiedono di scrivere un saggio riesco a dare il meglio.

Con il premio Theodore Williams arrivarono cinquanta sterline: 50! Non avevo mai avuto una somma simile tutta insieme. Questa volta non andai al White Horse ma – alla porta accanto – alla libreria Blackwell’s, dove acquistai per quarantaquattro sterline i dodici volumi dell’Oxford English Dictionary: per me, l’opera più desiderata e desiderabile al mondo. Durante i miei studi di medicina avrei letto l’intero dizionario, e ancora adesso, di tanto in tanto, mi piace prendere un volume dallo scaffale, come lettura prima di addormentarmi.

 

A Oxford il mio più caro amico era un borsista della fondazione Rhodes, un giovane studioso di logica matematica di nome Kalman Cohen. Prima di lui, non avevo mai conosciuto un logico, ed ero affascinato dalla sua capacità di concentrazione. Sembrava in grado di fissarsi su un problema ininterrottamente, per settimane di fila, e aveva una vera passione per il pensiero: l’atto stesso del pensare sembrava emozionarlo, a prescindere dai concetti cui poi perveniva.

Benché diversissimi, andavamo molto d’accordo. Lui era attratto dalla mia mente, a volte capace di associazioni originali, proprio come io lo ero dalla sua, così concentrata. Kalman mi introdusse a Hilbert e a Brouwer, i giganti della logica matematica, e io introdussi lui a Darwin e ai grandi naturalisti dell’Ottocento.

Noi pensiamo alla scienza come scoperta e all’arte come invenzione, ma esiste forse un «terzo mondo», un mondo della matematica, che in qualche modo, misteriosamente, è entrambe le cose? I numeri – i numeri primi, per esempio – esistono in un regno platonico eterno? O invece sono stati inventati, come credeva Aristotele? E che pensare dei numeri irrazionali, come π? O di quelli immaginari, come la radice quadrata di –2? Di tanto in tanto, io mi tormentavo inutilmente su questi interrogativi, ma per Kalman essi erano quasi una questione di vita e di morte. La sua speranza era di riuscire in qualche modo a conciliare l’intuizionismo platonico di Brouwer con il formalismo aristotelico di Hilbert, le loro concezioni diversissime eppure complementari della realtà matematica.

Quando parlai di Kal ai miei genitori, loro immediatamente pensarono a quanto fosse lontano da casa, e lo invitarono a trascorrere da noi a Londra un tranquillo fine settimana con cucina casalinga. Furono felici di conoscerlo, ma la mattina dopo mia madre si indignò scoprendo uno dei lenzuoli del suo letto coperto di scritte a inchiostro. Quando le spiegai che Kal era un genio e che aveva usato il lenzuolo per elaborare una nuova teoria di logica matematica (qui esagerai un pochino), la sua indignazione si mutò in ammirato rispetto, e insistette per conservare il lenzuolo – senza lavarlo, senza cancellarlo – casomai, in una visita futura, Kalman avesse voluto tornare a consultarlo. Lo mostrò anche piena di orgoglio a Selig Brodetsky, già Senior Wrangler a Cambridge (e ardente sionista): l’unico matematico di sua conoscenza.

In Oregon Kalman aveva studiato al Reed College – università nota, mi raccontò, per l’intelligenza dei suoi studenti – ed era stato il laureato con il miglior punteggio da molti anni. Lo diceva con naturalezza, senza affettazione, come uno potrebbe parlare del tempo: era semplicemente un dato di fatto. Sembrava pensare che fossi intelligente anch’io, nonostante l’evidente disordine e l’illogicità della mia mente. Era convinto che le persone intelligenti dovessero sposarsi tra loro, così da avere figli altrettanto intelligenti, e con quest’idea in mente mi organizzò l’incontro con un’altra borsista Rhodes, anche lei americana, una certa Miss Isaac. Rael Jean era tranquilla e schiva, ma (come aveva detto Kal) tagliente al pari del diamante, e durante tutta la cena parlammo di alte astrazioni. Ci salutammo amichevolmente ma non ci rivedemmo mai più, né Kalman cercò più di trovarmi una compagna.

Nell’estate del 1952, in occasione della nostra prima lunga vacanza, Kalman e io facemmo l’autostop in Francia e in Germania, dormendo negli ostelli lungo il percorso. Da qualche parte ci beccammo i pidocchi, e dovemmo rasarci la testa. Un amico piuttosto elegante del Queen’s College, Gerhart Sinzheimer, ci aveva invitati a fermarci da lui; stava passando l’estate con i suoi nella loro casa sulle sponde del lago Titisee nella Foresta Nera. Quando io e Kalman arrivammo da loro, sporchissimi, con la testa rasata e una storia di pidocchi alle spalle, imposero a entrambi di fare un bagno e sottoposero a fumigazione i nostri vestiti. Dopo un breve imbarazzante soggiorno presso gli eleganti Sinzheimer, puntammo verso Vienna (all’epoca molto simile, pensammo, alla Vienna del Terzo uomo) e là sperimentammo ogni singolo alcolico noto all’umanità.

 

Anche se non mi stavo laureando in psicologia, a volte andavo a qualche lezione presso quella facoltà. Fu lì che incontrai J.J. Gibson, un audace teorico e sperimentatore nel campo della psicologia della visione, arrivato a Oxford dalla Cornell per un periodo sabbatico. Gibson aveva recentemente pubblicato il suo primo libro, The Perception of the Visual World, ed era ben lieto di farci sperimentare certe lenti speciali che invertivano (in un occhio o in entrambi) quello che si vede normalmente. Nulla era più bizzarro di vedere il mondo capovolto, eppure, nell’arco di qualche giorno, il cervello si adattava, e riorientava il mondo visivo (per poi vederlo nuovamente capovolto non appena si toglievano gli occhiali).

Anche le illusioni ottiche mi affascinavano; chiarivano come la comprensione intellettuale, l’intuito e perfino il buon senso comune fossero impotenti contro la forza delle distorsioni percettive. Gli occhiali di Gibson mostravano la capacità della mente di rettificare le distorsioni ottiche, mentre le illusioni mostravano la sua incapacità di correggere le distorsioni percettive.

 

 

 

Richard Selig. Sono passati sessant’anni, ma ho ancora davanti agli occhi la sua faccia, il suo portamento – si muoveva come un leone – quando lo vidi la prima volta a Oxford, fuori dal Magdalene College, nel 1953. Ci mettemmo a parlare; credo che a cominciare la conversazione fosse stato lui, perché io ero sempre troppo riservato per prendere l’iniziativa e la sua grande bellezza mi rendeva ancora più timido. In quella prima conversazione seppi che aveva una borsa della fondazione Rhodes, che era un poeta e che aveva fatto una quantità di lavori occasionali in giro per gli States. Anche considerando la differenza di età (lui aveva ventiquattro anni, io venti), la sua conoscenza del mondo era di gran lunga superiore alla mia, molto superiore a quella della maggior parte degli studenti entrati all’università direttamente dalle scuole superiori senza fare prima alcuna esperienza di vita reale. Trovò qualcosa di interessante in me, e diventammo subito amici – e anche qualcosa di più, giacché io mi innamorai di lui. Era la prima volta in vità mia che succedeva.

Mi innamorai della sua faccia, del suo corpo, della sua mente, della sua poesia, di tutto quanto lo riguardasse. Spesso mi portava poesie appena scritte e io in cambio gli mostravo alcuni dei miei saggi di fisiologia. Non credo di essere stato l’unico a innamorarsi di lui; ce n’erano altri, sia uomini che donne – era inevitabile, considerando la sua grande bellezza, i suoi grandi doni, la sua vitalità e il suo amore per la vita. Parlava senza reticenze di se stesso – del suo apprendistato con il poeta Theodore Roethke, delle sue amicizie con molti pittori, e dell’anno che lui stesso passò a dipingere prima di capire che, a prescindere dal talento, la sua reale passione era la poesia. Spesso portava con sé, nella sua mente, immagini, parole, versi di poesie, e ci lavorava in modo più o meno consapevole per mesi di fila, finché quelli non sbocciavano come poesie finite, oppure venivano abbandonati. Aveva pubblicato poesie su «Encounter», «The Times Literary Supplement», «Isis» e «Granta» e aveva un grande sostenitore in Stephen Spender. Io pensavo che fosse un genio, o un genio in fieri.

Facevamo lunghe camminate, insieme, discutendo di poesia e di scienza. A Richard piaceva ascoltarmi mentre mi entusiasmavo parlando di chimica e biologia, e quando lo facevo perdevo la mia timidezza. Benché sapessi di essere innamorato di Richard, ero molto restio ad ammetterlo; le parole di mia madre sull’«abominio» mi avevano convinto che non avrei mai dovuto rivelarmi. E d’altra parte, in modo misterioso e meraviglioso, essere innamorati – e innamorati di un essere come Richard – era per me una fonte di gioia e di orgoglio; così un giorno, con il cuore in mano e senza sapere come avrebbe reagito, gli dissi che lo amavo. Mi abbracciò, mi prese per le spalle e disse: «Lo so. Io non sono così, ma il tuo amore è molto importante per me, e anch’io ti voglio bene, a modo mio». Non mi sentii respinto, né con il cuore spezzato. Aveva detto quello che doveva dire con gran delicatezza, e la nostra amicizia continuò, adesso resa più semplice dal fatto che avevo abbandonato certi desideri penosi e senza speranza.

Credevo che avremmo potuto essere amici per tutta la vita, e forse lo pensava anche lui. Ma un giorno venne nella mia camera con un’aria sconvolta. Aveva notato un gonfiore all’inguine; al principio non ci aveva fatto troppo caso, pensando che se ne sarebbe andato, ma invece si era ingrossato e stava diventando fastidioso. Io frequentavo i corsi preparatori a medicina, disse lui, potevo dargli un’occhiata? Si tirò giù calzoni e mutande, ed eccolo lì, grosso come un uovo, nella parte sinistra dell’inguine. Al tatto era fermo e duro. La prima cosa a cui pensai fu un cancro. «Devi andare da un medico,» gli dissi «probabilmente ci vorrà una biopsia – non aspettare».

Fu eseguita una biopsia della ghiandola, e venne diagnosticato un linfosarcoma; dissero a Richard che non poteva aspettarsi più di due anni di vita. Dopo avermelo riferito, non mi parlò mai più; ero stato il primo a capire la mortale gravità del suo tumore, e forse adesso vedeva in me una sorta di messaggero, o di simbolo, di morte.

Era tuttavia determinato a vivere il tempo che gli restava nel modo più intenso possibile; sposò l’arpista e cantante irlandese Mary O’Hara, andò con lei a New York, e morì quindici mesi dopo. In quegli ultimi mesi scrisse gran parte delle sue opere poetiche più belle.

 

 

 

A Oxford, dopo tre anni, bisogna sostenere gli esami finali. Io rimasi per fare ricerca, e per la prima volta mi sentii molto isolato, perché quasi tutti i miei compagni di corso se n’erano andati.

Quando avevo vinto la borsa Theodore Williams, mi era stato offerto un posto da ricercatore al dipartimento di anatomia; io però declinai l’offerta, nonostante la mia ammirazione per il professore di quella disciplina, il notissimo Wilfrid Le Gros Clark, di cui era pure assai nota la cordialità.

Le Gros Clark era un docente meraviglioso che presentava tutta l’anatomia umana da un punto di vista evolutivo, e all’epoca era famoso per il ruolo che aveva avuto nello smascherare la frode di Piltdown. Io però declinai la sua offerta perché ero stato sedotto da una serie di conferenze molto intriganti sulla storia della medicina tenute da H.M. Sinclair, docente in scienza della nutrizione umana.

La storia mi era sempre piaciuta, e anche ai tempi della mia infanzia chimica volevo avere informazioni sulla vita e sulla personalità dei chimici, come pure su tutte le controversie e i conflitti che a volte accompagnavano scoperte o teorie nuove. Volevo capire in che modo la chimica si fosse dispiegata come impresa umana. E adesso, nelle lezioni di Sinclair, a prendere vita era la storia della fisiologia, le idee e le personalità dei fisiologi.

Gli amici, e perfino il mio tutor al Queen’s, cercarono di mettermi in guardia, di distogliermi da quello che pensavano sarebbe stato un errore. Ma io non avevo intenzione di lasciarmi dissuadere, benché avessi sentito alcune voci su Sinclair: nulla di troppo specifico, semplici commenti sul fatto che fosse un tipo «particolare», una figura un po’ isolata nell’ambiente accademico; e anche che l’università fosse in procinto di chiudere il suo laboratorio.

Capii il mio errore non appena cominciai a lavorare all’LHN, il Laboratory of Human Nutrition.

Sinclair aveva conoscenze enciclopediche, quanto meno in campo storico, e mi indirizzò a lavorare su qualcosa di cui avevo sentito parlare soltanto vagamente. La cosiddetta jake paralysis, o paralisi dello zenzero, aveva causato danni neurologici invalidanti durante il proibizionismo, quando i bevitori – ai quali erano state negate forme legali di alcol – ricorrevano a un estratto alcolico molto forte di zenzero giamaicano, o «jake», all’epoca liberamente accessibile come «tonico per i nervi». Quando divenne evidente il suo potenziale d’abuso, il governo lo modificò aggiungendovi un composto dal gusto molto spiacevole, il triortocresilfosfato o TOCP. La cosa non agì da deterrente sui bevitori, e ben presto si capì che il TOCP era di fatto una neurotossina pericolosa, benché ad azione lenta. Quando ciò venne compreso, ormai più di cinquantamila americani avevano subito danni neurali estesi e spesso irreversibili. Le persone colpite presentavano una caratteristica paralisi delle braccia e delle gambe e sviluppavano un’andatura peculiare, facilmente riconoscibile, denominata jake walk.

Benché fosse stato ipotizzato che il TOCP colpisse in modo particolare le guaine mieliniche delle fibre nervose, il meccanismo preciso con cui causava il danno neurale era ancora ignoto e, sosteneva Sinclair, non esistevano antidoti conosciuti. Mi sfidò quindi a sviluppare un modello animale della malattia. Visto il mio amore per gli invertebrati, pensai immediatamente ai lombrichi: avevano fibre mieliniche giganti, che mediavano la loro capacità di arrotolarsi immediatamente quando subivano lesioni o erano minacciati. Queste fibre erano relativamente facili da studiare, e non ci sarebbero mai stati problemi a ottenere tutti i vermi che mi servivano. Pensavo che avrei potuto integrare i lombrichi con polli e rane.

Una volta discusso il progetto, Sinclair si chiuse nel suo studio tappezzato di libri e divenne pressoché inaccessibile: non solo per me, ma per chiunque altro al Laboratory of Human Nutrition. Gli altri ricercatori erano uomini fatti, ben felici di esser lasciati in pace, liberi di svolgere il proprio lavoro. Io, invece, ero un novizio, e avevo un disperato bisogno di consigli e indicazioni; cercai di vedere Sinclair, ma dopo cinque o sei tentativi capii che era un’impresa senza speranza.

Il lavoro andò male fin dall’inizio. Non sapevo quale dovesse essere la quantità di TOCP, in quale mezzo andasse somministrato, né se fosse necessario addolcirlo per mascherarne il gusto amaro. Vermi e rane inizialmente rifiutarono le prelibatezze a base di TOCP che preparavo loro; i polli, a quanto pareva, trangugiavano qualsiasi cosa: un brutto spettacolo. Nonostante tutto quel loro trangugiare, beccare e starnazzare, io cominciai a essere entusiasta dei miei polli, a nutrire un certo orgoglio per la loro rumorosità e il loro vigore, e a riconoscerne i comportamenti e le caratteristiche distintivi. Nel giro di qualche settimana, il TOCP fece effetto, e le zampe degli uccelli cominciarono a indebolirsi. A questo punto, pensando che il TOCP potesse avere qualche somiglianza con i gas nervini (che disturbano il metabolismo del neurotrasmettitore acetilcolina), diedi a metà dei miei uccelli semiparalizzati dei farmaci anticolinergici come antidoto. Valutando male la dose, però, ottenni di ucciderli tutti. Nel frattempo, le galline a cui non avevo dato l’antidoto diventarono sempre più deboli, uno spettacolo che trovavo quasi intollerabile. A decretare la fine, per me e per la mia ricerca, fu la vista della mia gallina preferita – non aveva nome, ma la numero 4304 era un animale dal carattere insolitamente dolce e mansueto – che cadeva a terra sulle zampe paralizzate, pigolando in modo straziante. Quando la sacrificai (usando del cloroformio) trovai che le guaine mieliniche dei nervi periferici e gli assoni delle cellule nervose nel midollo spinale erano danneggiati come quelli delle vittime umane sulle quali era stata eseguita l’autopsia.

Scoprii anche che, nei lombrichi, il TOCP aboliva il riflesso di arrotolamento immediato ma non gli altri loro movimenti, e che danneggiava le fibre mieliniche, ma non le altre. Pensavo tuttavia che nel complesso la mia ricerca fosse un fallimento, e che non avrei mai potuto sperare di essere uno scienziato ricercatore. Preparai una descrizione colorita e molto personale del mio lavoro e, con quella, cercai di rimuovere dalla mente tutto lo sciagurato episodio.

 

 

 

Depresso per via di questi eventi e isolato perché tutti i miei amici avevano ormai lasciato l’università, mi sentii sprofondare in uno stato di disperazione controllata ma per certi versi agitata. Non riuscivo a trovare alcun sollievo se non nell’esercizio fisico, e ogni sera andavo a fare una lunga corsa sull’alzaia lungo l’Isis. Dopo aver corso all’incirca per un’ora, mi tuffavo e nuotavo e poi, fradicio e un po’ infreddolito, me ne tornavo di corsa al mio squallido alloggio davanti a Christ Church. Trangugiavo una cena fredda (non potevo più sopportare di mangiare pollo) e poi scrivevo fino a notte fonda. Questi scritti, intitolati «Nightcaps», erano sforzi frenetici e fallimentari di dar forma a una sorta di filosofia, una qualche ricetta di vita, una ragione per andare avanti.

Il mio tutor al Queen’s, che aveva cercato di dissuadermi dal lavorare per Sinclair, percepì la situazione (trovai la cosa sorprendente e rassicurante; fino a quel momento non ero nemmeno sicuro che sapesse della mia esistenza) e manifestò ai miei genitori le sue preoccupazioni. Tra di loro, decisero che avevo bisogno di essere portato via da Oxford e collocato in una comunità amichevole e solidale in seno alla quale lavorare sodo dall’alba al tramonto. I miei genitori pensarono che un kibbutz rispondesse ai requisiti e, per quanto fossi privo di qualsiasi sentimento religioso o sionista, l’idea piacque anche a me. Così partii per Ein HaShofet, un kibbutz «anglosassone» nei pressi di Haifa dove si sarebbe parlato inglese finché – si sperava – il mio ebraico non fosse diventato fluente.

Trascorsi nel kibbutz l’estate del 1955. Mi diedero un’alternativa: potevo lavorare nel vivaio o con i polli. Poiché di questi ultimi ormai avevo orrore, optai per il vivaio. Ci alzavamo prima dell’alba, facevamo un’abbondante colazione comunitaria e poi ci mettevamo al lavoro.

Rimasi sbalordito dalle enormi ciotole di fegato sminuzzato servite a ogni pasto, colazione compresa. Nel kibbutz non c’era bestiame, e non capivo come i polli, da soli, potessero fornire i circa 45 chili di fegato che consumavamo ogni giorno. Quando indagai, ci fu una gran risata, e mi dissero che quelle che avevo scambiato per fegato in realtà erano melanzane a dadini, qualcosa che non avevo mai assaggiato in Inghilterra.

Ero in buoni termini con tutti, perlomeno a livello di conversazione, ma non avevo rapporti stretti con nessuno. Il kibbutz era pieno di famiglie o piuttosto costituiva in effetti un’unica superfamiglia in cui i tutti i genitori badavano a tutti i bambini. Io spiccavo come unica persona single, senza alcuna intenzione di farmi una vita in Israele (come molti dei miei cugini programmavano invece di fare). Non ero bravo a chiacchierare del più e del meno e nei miei primi due mesi, nonostante l’immersione intensiva nell’ulpan, imparai pochissimo ebraico; all’improvviso, però, alla decima settimana cominciai a capirlo e a pronunciare delle frasi. La vita di duro lavoro fisico e la presenza intorno a me di persone amichevoli e premurose servirono da analgesico per i mesi di solitaria tortura trascorsi al laboratorio di Sinclair, quando ero stato completamente chiuso in me stesso.

E poi ci furono anche importanti effetti fisici: al mio arrivo al kibbutz ero pallido e fuori forma, e pesavo più di 113 chili; ma quando ripartii, tre mesi dopo, ne avevo persi quasi 27 e mi sentivo più a mio agio nel mio corpo, in un senso profondo.

Una volta lasciato il kibbutz, trascorsi qualche settimana in viaggio attraverso altre parti di Israele, per farmi un’idea di quello stato giovane, idealista, pieno di problemi. Durante il servizio della Pasqua ebraica, ricordando l’esodo dall’Egitto, dicevamo sempre: «il prossimo anno, a Gerusalemme»; adesso, finalmente, vedevo la città in cui, un migliaio di anni prima di Cristo, Salomone aveva costruito il suo tempio. All’epoca, però, Gerusalemme era divisa e non si poteva entrare nella città vecchia.

Esplorai altri luoghi di Israele: il vecchio porto di Haifa, che mi piacque molto; Tel Aviv; e le miniere di rame nel Negev, che si diceva fossero quelle di re Salomone. Ero rimasto affascinato da quanto avevo letto sul giudaismo cabalistico – soprattutto la sua cosmogonia – e così feci il mio primo viaggio, in un certo senso un pellegrinaggio, a Safed, dove il grande Isaac Luria aveva vissuto e insegnato nel Cinquecento.

E poi puntai verso la mia destinazione reale, il Mar Rosso. All’epoca Eilat aveva una popolazione di qualche centinaio di anime, sistemata in tende, capanne e poco più (adesso è un lungomare scintillante di alberghi, con una popolazione di cinquantamila abitanti). Praticamente facevo snorkeling tutto il giorno, ed ebbi le mie prime esperienze di immersione con le bombole, a quei tempi ancora relativamente primitive. (Alcuni anni dopo, quando presi il mio brevetto di subacqueo in California, tutto era diventato molto più semplice ed efficiente).

Mi chiedevo ancora, come già avevo fatto quando ero andato a Oxford, se veramente volessi diventare un medico. Ormai ero molto interessato alla neurofisiologia, ma mi piaceva anche la biologia marina, soprattutto quella degli invertebrati. Non potevo forse combinare le due cose, magari studiando la neurofisiologia degli invertebrati, soprattutto il sistema nervoso e il comportamento di quei geni tra loro che sono i cefalopodi?2

A una parte di me sarebbe piaciuto restare a Eilat per il resto della vita, a nuotare, fare snorkeling, immersioni, studiare la biologia marina e la neurofisiologia degli invertebrati. I miei genitori, però, cominciavano a dare segni di impazienza; mi ero gingillato abbastanza in Israele; adesso ero «guarito»; era tempo di tornare alla medicina, di cominciare il lavoro clinico, di visitare dei pazienti a Londra. Io però dovevo fare anche un’altra cosa, qualcosa prima inconcepibile. Avevo ventidue anni, pensai: ero prestante, abbronzato, snello, e ancora vergine.

 

 

 

Ero stato ad Amsterdam un paio di volte con Eric; ci piacevano i musei e il Concertgebouw (fu lì che sentii per la prima volta il Peter Grimes di Benjamin Britten, in olandese). E ci piacevano anche i canali bordati di case alte, con i frontoni a gradini; l’antico Hortus Botanicus e la splendida sinagoga portoghese del Seicento; la Rembrandtplein con i suoi caffè all’aperto; le aringhe fresche vendute per le strade e mangiate sul posto; e la generale atmosfera di cordialità e di apertura che sembrava caratteristica della città.

Adesso, però, fresco di Mar Rosso, decisi di andare ad Amsterdam da solo, con l’intenzione di perdermici – specificamente, di perderci la verginità. Ma da che parte cominciare per farlo? Non c’erano manuali sull’argomento. Forse mi occorreva un bicchiere, diversi bicchieri, per mettere a tacere la mia timidezza, le mie ansie, i miei lobi frontali.

Vicino alla stazione ferroviaria, in Warmoesstraat, c’era un bar molto piacevole; Eric e io ci eravamo andati spesso a bere un bicchiere insieme. Ma stavolta, da solo, bevvi moltissimo: gin olandese per «coraggio olandese».3 Bevvi fin quando il bar cominciò a entrare e uscire dal piano della mia messa a fuoco e i suoni sembrarono dilatarsi e contrarsi. Finché non mi alzai in piedi, non mi accorsi di essere instabile: così instabile che il barista disse «Genoeg! Basta!» e mi chiese se mi servisse aiuto per tornare all’albergo. Risposi di no, l’albergo era proprio dall’altra parte della strada, e uscii barcollando.

Poi devo essere svenuto, perché quando tornai in me, il mattino dopo, non ero nel mio letto, ma in quello di qualcun altro. Sentii l’odore familiare del caffè sul fuoco, al quale seguì la comparsa del mio ospite, il mio salvatore, in vestaglia, con una tazza di caffè in ciascuna mano.

Disse che mi aveva visto giacere, ubriaco fradicio, in un canale di scolo, così mi aveva portato a casa... e mi aveva sodomizzato. «È stato bello?» chiesi io.

«Sì» rispose lui. «Molto bello». Gli dispiaceva che fossi stato troppo sbronzo per godermelo anch’io.

Durante la colazione parlammo ancora – delle mie paure, delle mie inibizioni sessuali, e della pericolosa atmosfera di minaccia che c’era in Inghilterra, dove l’omosessualità era trattata alla stregua di un crimine. Ad Amsterdam era completamente diverso, mi disse. L’attività omosessuale tra adulti consenzienti era accettata, non era illegale, né era considerata riprovevole o patologica. C’erano molti bar, caffè e club dove uno poteva conoscere altre persone gay (non avevo mai sentito, prima, la parola «gay» usata in quell’accezione). Sarebbe stato felice di accompagnarmi in alcuni di essi, oppure di darmi i loro nomi e gli indirizzi lasciando che me la cavassi da solo.

«Non c’è alcun bisogno» mi disse diventando improvvisamente serio «di sbronzarsi, di perdere conoscenza e di stramazzare in un canale di scolo. Questa è una cosa molto triste – e anche pericolosa. Spero che tu non lo faccia mai più».

Piansi di sollievo mentre parlavamo e sentii che un peso immenso, un peso che consisteva soprattutto nell’autocondanna, mi era stato tolto dalle spalle, o almeno si era alleggerito di molto.

 

 

 

Nel 1956, dopo i miei quattro anni a Oxford e le mie avventure in Israele e in Olanda, tornai a casa e cominciai gli studi di medicina clinica. In circa trenta mesi passai a rotazione attraverso medicina, chirurgia, ortopedia, pediatria, neurologia, psichiatria, dermatologia, infettivologia, e altre specialità indicate solo con le sigle – GI, GU, ENT, OB/GYN.4

Con mia sorpresa (ma per mia madre fu gratificante) avevo un’attrazione particolare per ostetricia. A quei tempi, si partoriva a casa (io stesso, come tutti i miei fratelli, ero nato così). I parti erano in larga misura nelle mani delle levatrici e noi, come studenti di medicina, le assistevamo. Arrivava una telefonata, spesso nel cuore della notte; l’operatrice dell’ospedale mi dava un nome, un indirizzo, e a volte aggiungeva: «Muoviti!».

La levatrice e io, in sella alle nostre biciclette, convergevamo sulla casa, andavamo in camera da letto e a volte in cucina, perché in certi casi era più facile far partorire la donna su un tavolo. Il marito e i familiari aspettavano nella stanza adiacente, con le orecchie pronte a cogliere il primo vagito del bambino. A emozionarmi era l’umanità insita in tutto questo; c’era una concretezza che mancava al lavoro in ospedale e, fuori di esso, era la nostra unica possibilità di fare qualcosa e di avere un ruolo.

Come studenti di medicina, non eravamo sovraccarichi di lezioni o nozioni formali; l’insegnamento fondamentale era impartito al letto del paziente, e la lezione più importante consisteva nell’ascoltare, nell’ottenere dal paziente stesso la «storia della sua condizione attuale», e nel porre le domande giuste per completare i dettagli. Ci insegnavano a usare occhi e orecchie, a toccare, a palpare, perfino ad annusare. L’auscultazione del battito cardiaco, la percussione del torace, la palpazione di un addome e altre forme di contatto fisico non erano meno importanti dell’ascolto e della parola. Potevano stabilire un legame di tipo fisico, profondo; le mani potevano diventare esse stesse strumenti terapeutici.

 

Mi laureai il 13 dicembre del 1958 e avevo a disposizione un paio di settimane; il mio internato al Middlesex non sarebbe cominciato prima di gennaio.5 Ero emozionato e stupito di scoprirmi dottore, di avercela fatta, finalmente (non avevo mai pensato di riuscirci, e a volte anche adesso, nei miei sogni, sono impantanato in un’eterna condizione di studente). Ero emozionato, ma anche spaventato, sicuro com’ero che avrei sbagliato tutto, che mi sarei reso ridicolo e sarei stato considerato un pasticcione irrecuperabile e perfino pericoloso. Pensai che un breve internato nelle settimane precedenti il mio ingresso al Middlesex potesse darmi la necessaria fiducia e competenza, e riuscii a trovare un posto adatto a qualche chilometro da Londra, a St. Albans, presso un ospedale dove mia madre aveva lavorato come chirurga di emergenza durante la guerra.

La prima notte, fui chiamato all’una; avevano ricoverato un bambino con la bronchiolite. Mi precipitai in reparto per visitare il mio primo paziente: quattro mesi, colorito bluastro intorno alle labbra, febbre alta, respiro rapido e sibilante. Potevamo salvarlo, la caposala e io? C’era una speranza? Capendo che ero terrorizzato, l’infermiera mi diede il sostegno e la guida di cui avevo bisogno. Il bambino si chiamava Dean Hope e noi – assurdamente e superstiziosamente – lo prendemmo come un buon auspicio, come se il suo stesso nome potesse rabbonire il destino. Lavorammo senza sosta per tutta la notte, e quando fece giorno, una pallida grigia alba invernale, Dean era fuori pericolo.

 

Il primo gennaio cominciai a lavorare al Middlesex Hospital, che aveva un’ottima reputazione pur non potendo vantare l’età veneranda del «Barts», il St. Bartholomew’s, un ospedale che risale al dodicesimo secolo. Mio fratello David, più grande di me, era stato studente di medicina al Barts. Il Middlesex – che al confronto era un nuovo arrivato, essendo stato fondato nel 1745 – aveva sede, all’epoca, in un moderno edificio degli anni Venti. Il nostro fratello maggiore, Marcus, si era formato lì, e adesso io stavo seguendo le sue orme.

Al Middlesex feci un internato di sei mesi all’unità di medicina e altri sei mesi a quella di neurologia, dove i miei superiori erano Michael Kremer e Roger Gilliatt, una coppia straordinaria ma di un’incongruità quasi comica.

Kremer era cordiale, affabile, garbato. Aveva un sorriso strano, una vaga smorfia, e non seppi mai per certo se dipendesse da una sua visione del mondo abitualmente ironica, o da una vecchia paralisi di Bell. Sembrava avere tutto il tempo del mondo per i suoi interni e i suoi pazienti.

Gilliatt era molto più minaccioso: tagliente, con poca pazienza, nervoso, irritabile, con una sorta di furia repressa che poteva esplodere in qualsiasi momento (perlomeno così a volte mi sembrava). Un bottone slacciato, pensavamo noi interni, poteva mandarlo fuori dai gangheri. Aveva sopracciglia enormi, aggressive, nere come l’inchiostro: per noi giovani medici, strumenti di terrore. Di nomina recente, Gilliatt – che non aveva ancora quarant’anni – era uno degli specialisti più giovani d’Inghilterra.6 Questo non sminuiva il suo aspetto formidabile, può darsi anzi che lo accentuasse. Aveva ricevuto una Military Cross per esemplari atti di valore durante la guerra, e aveva un portamento militaresco. Gilliatt mi terrorizzava e quando mi serviva una domanda ero quasi paralizzato dalla paura. Molti dei suoi interni, scoprii in seguito, avevano reazioni simili.

Kremer e Gilliatt avevano un approccio completamente diverso all’esame dei pazienti. Gilliatt ci faceva avanzare metodicamente passo per passo: nervi cranici (senza ometterne nessuno), sistema motorio, sistema sensoriale, eccetera, in un ordine fisso dal quale non si doveva mai deviare. Non saltava mai avanti prematuramente, non puntava mai dritto su una pupilla dilatata, una fascicolazione, un riflesso addominale assente o qualsiasi altra cosa.7 Per lui, il processo diagnostico era l’applicazione sistematica di un algoritmo.

Gilliatt era più che altro uno scienziato, un neurofisiologo per formazione e temperamento. Sembrava gli rincrescesse di dover avere a che fare con pazienti (o interni): come avrei appreso in seguito, però, quando si trovava con i suoi studenti ricercatori era una persona del tutto diversa, cordiale e comprensiva. I suoi interessi reali, le sue passioni, erano tutti legati all’indagine elettrofisiologica dei disturbi dei nervi periferici e dell’innervazione del muscolo, campi in cui stava diventando un’autorità di levatura mondiale.

Kremer, d’altro canto, era estremamente intuitivo; ricordo che una volta formulò una diagnosi su un paziente appena ricoverato nel momento stesso in cui mettemmo piede in reparto. Individuato il paziente a una trentina di metri di distanza, mi strinse il braccio tutto eccitato e mi sussurrò all’orecchio: «sindrome del forame giugulare!». Essendo una sindrome straordinariamente rara, ero sbalordito dal fatto che potesse riconoscerla, da un capo all’altro del reparto, con un colpo d’occhio.

Kremer e Gilliatt mi facevano pensare al confronto di Pascal tra intuito e analisi, all’inizio delle Pensées. Kremer era essenzialmente intuitivo; coglieva ogni cosa con uno sguardo, spesso più di quanto riuscisse a esprimere a parole. Gilliatt era prima di tutto analitico, osservava i fenomeni uno alla volta, ma di ciascuno vedeva in profondità gli antecedenti o le conseguenze fisiologici.

La comprensione, o empatia, di Kremer era straordinaria. Sembrava leggere nella mente dei pazienti, conoscere intuitivamente le loro paure e le loro speranze. Osservava i loro movimenti e le loro posture come un regista teatrale fa con i propri attori. Uno dei suoi articoli – uno dei miei preferiti – si intitolava Sitting, Standing, and Walking. Dimostrava quanto egli osservasse e capisse ancor prima di fare un esame neurologico, ancor prima che il paziente aprisse bocca.

Nei suoi ambulatori del venerdì pomeriggio, Kremer era capace di visitare anche trenta pazienti diversi, ma ciascuno di essi riceveva la sua attenzione intensa, esclusiva e compassionevole. I pazienti lo amavano moltissimo, parlavano tutti della sua gentilezza e di come trovassero terapeutica la sua stessa presenza.

Kremer continuava a interessarsi ai suoi interni anche molto tempo dopo che erano passati ad altri posti di lavoro e spesso rimaneva attivamente coinvolto nella loro vita. A me consigliò di andare in America, mi diede alcune lettere di presentazione, e a distanza di venticinque anni, dopo aver letto Su una gamba sola, mi scrisse una lettera piena di considerazione.8

Con Gilliatt ebbi meno contatti – eravamo entrambi, credo, molto timidi –, ma nel 1973, quando uscì Risvegli, mi scrisse e mi invitò ad andare a fargli visita in Queen Square.9 Nell’occasione lo trovai molto meno terrificante, dotato di un calore intellettuale ed emotivo che non avrei mai sospettato. L’anno dopo mi invitò di nuovo per presentare il film documentario sui miei pazienti di Risvegli.

Mi rattristai quando Gilliatt morì di cancro – la malattia lo colpì mentre era ancora relativamente giovane e molto produttivo – e quando Kremer divenne afasico per un ictus: proprio lui, che era tanto socievole, amava tanto la conversazione e aveva continuato a visitare i suoi pazienti molto tempo dopo essere andato in pensione. Entrambi hanno esercitato su di me un’influenza positiva ma molto diversa: Kremer mi insegnò a essere più osservatore e intuitivo; Gilliatt a pensare sempre ai meccanismi fisiologici coinvolti. A distanza di più di cinquant’anni li ricordo con affetto e gratitudine.

 

 

 

Gli studi pre-med di anatomia e fisiologia fatti a Oxford non mi avevano minimamente preparato alla medicina vera. Visitare i pazienti, ascoltarli, cercare di entrare nelle loro esperienze e nelle loro difficili situazioni (o almeno di immaginarle), sentirmi preoccupato per loro, assumermi la responsabilità dei loro casi: per me erano tutte cose completamente nuove. I pazienti erano individui reali, spesso con emozioni intense, posti di fronte a problemi – e a volte a scelte – reali e in molti casi tormentosi. Non era soltanto una questione di diagnosi e trattamento; potevano presentarsi decisioni molto più serie riguardanti la qualità della vita e se – in determinate circostanze – valesse la pena di vivere.

Questa realtà mi assestò un duro colpo quando ero interno al Middlesex e Joshua, un giovane compagno di nuotate, fu ricoverato nel reparto di medicina con strani, sconcertanti dolori alle gambe. Sulla base di alcuni esami del sangue venne formulata una diagnosi provvisoria e, in attesa di ulteriori analisi, i medici gli consentirono di passare il fine settimana a casa. Sabato sera, mentre si stava divertendo a una festa piena di giovani, alcuni dei quali studenti di medicina, uno di questi ultimi gli chiese perché l’avessero ricoverato. Joshua rispose che non lo sapeva, ma che gli avevano dato da prendere certe pillole. Mostrò il flacone all’amico che l’aveva interrogato, e quello, leggendo sull’etichetta «6MP» (6-mercaptopurina), si lasciò scappare: «Cristo, ma tu devi avere una leucemia acuta».

Quando tornò dalla sua licenza per il fine settimana, Joshua era in uno stato mentale disperato. Chiese se la diagnosi fosse certa, quali trattamenti potesse fare, e che cosa dovesse aspettarsi. Fu effettuato un esame del midollo osseo che confermò la diagnosi, e gli dissero che – sebbene i farmaci potessero concedergli un po’ di tempo in più – sarebbe andato declinando e infine sarebbe morto nel giro di un anno, forse anche prima.

Quel pomeriggio, vidi Joshua arrampicarsi sul parapetto del terrazzo; il nostro reparto era al secondo piano. Mi precipitai verso di lui e lo tirai indietro, dicendogli tutto quello che potei sul fatto che la vita valeva la pena di essere vissuta anche con una condizione come la sua. Con riluttanza – ormai il momento della determinazione era passato – Joshua si lasciò persuadere a rientrare in reparto.

Ben presto i suoi strani dolori divennero più forti e cominciarono a interessare, oltre alle gambe, anche le braccia e il tronco. Era chiaro, adesso, che erano causati da infiltrazioni leucemiche dei nervi sensoriali, nel punto del loro ingresso nel midollo spinale. Gli analgesici erano inutili, tuttavia gli furono somministrati oppiacei sempre più forti, per bocca e per iniezione, e alla fine anche eroina. Cominciò a urlare dal dolore, giorno e notte, e a questo punto l’unica risorsa era dargli del protossido d’azoto. Non appena si riprendeva dall’anestesia, ricominciava a urlare.

«Non avresti dovuto tirarmi indietro» mi disse. «Ma immagino che tu fossi tenuto a farlo». Morì qualche giorno dopo, devastato dal dolore.

 

 

 

Nella Londra degli anni Cinquanta non era facile, e nemmeno sicuro, essere un omosessuale dichiarato o praticare l’omosessualità; se scoperte, tali attività potevano portare a pene severe, all’incarcerazione o, come avvenne nel caso di Alan Turing, alla castrazione chimica mediante somministrazione obbligatoria di estrogeni. Le posizioni dell’opinione pubblica erano, nel complesso, di condanna come quelle della legge. Per gli omosessuali non era facile incontrarsi; esistevano alcuni club e pub per gay, che però erano oggetto di costante controllo e di irruzioni da parte della polizia. Gli agenti provocatori erano ovunque, soprattutto nei parchi e nei bagni pubblici, addestrati a sedurre chi non stava in guardia o gli ingenui, e a rovinarli.

Benché visitassi più spesso che potevo città «aperte» come Amsterdam, non osavo cercare partner sessuali a Londra, tanto più che vivevo ancora in casa, sotto gli occhi vigilanti dei miei genitori.

Nel 1959, però, mentre stavo facendo il mio internato in medicina e neurologia al Middlesex, mi bastava scendere lungo Charlotte Street e attraversare Oxford Street per arrivare in Soho Square. Un po’ più in là – proseguendo su Frith Street – incrociavo Old Compton Street, dove si affittava o vendeva di tutto. Qui, da Coleman’s, potevo acquistare i miei sigari Havana preferiti; un «torpedo» Bolivar poteva durare tutta una sera, e io mi viziavo fumandone uno nelle occasioni speciali da festeggiare. C’era una gastronomia che vendeva una torta ai semi di papavero succulenta e stuzzicante come non ne avevo mai gustate prima; e anche un piccolo negozio di giornali e dolciumi che esponeva in vetrina annunci sessuali: discretamente ambigui – qualsiasi altra cosa sarebbe stata pericolosa –, ma dal significato inequivocabile.

Uno di essi era di un giovane uomo che diceva di amare le motociclette e gli accessori per il motociclismo. Dava il suo primo nome, quanto meno un nome, Bud, e un numero di telefono. Non osai sostare troppo a lungo, e meno che mai prendere un appunto, ma la mia memoria, che allora era fotografica, lo registrò all’istante. In tutta la mia vita non avevo mai risposto a un annuncio, né avevo pensato di farlo, ma adesso, dopo quasi un anno di astinenza – era da dicembre che mancavo da Amsterdam –, decisi di telefonare all’enigmatico «Bud».

Chiacchierammo al telefono, con circospezione, parlando perlopiù delle nostre motociclette. Bud aveva una BSA Gold Star, una grossa monocilindro da 500 cc con manubrio dropped, e io avevo la mia Norton Dominator 600. Ci mettemmo d’accordo per vederci in un bar di motociclisti e per fare poi un giro partendo da lì. Ci saremmo riconosciuti dalle moto e dall’abbigliamento: giacche, pantaloni, stivali e guanti, tutto in pelle.

Ci incontrammo, ci stringemmo la mano, ammirammo le rispettive motociclette e poi partimmo per un giro a sud di Londra. Nato e cresciuto nella parte nordoccidentale della città, a sud ero un po’ perso, e così andò avanti Bud. Pensavo che avesse un’aria molto valorosa, da cavaliere della strada, in sella al suo destriero motorizzato, tutto avvolto nella pelle nera.

Per cena tornammo al suo appartamento a Putney – un ambiente piuttosto spoglio, con pochissimi libri ma un mucchio di riviste di motociclismo e di accessori per moto. Le pareti erano piene di fotografie di motociclette e motociclisti e anche (questo non me l’aspettavo) di alcune bellissime foto subacquee scattate da lui; accanto alla motocicletta, le immersioni subacquee erano l’altra sua passione. Io avevo cominciato a immergermi quando ero sul Mar Rosso nel 1956, e così condividevamo un altro interesse (alquanto insolito negli anni Cinquanta). Bud aveva anche una gran quantità di attrezzatura per le immersioni; e questo era prima dell’epoca delle mute umide e del neoprene, quando si indossavano mute stagne in gomma pesante.

Ci facemmo una birra e poi, tutt’a un tratto, Bud disse: «Andiamo a letto».

Non facemmo alcun tentativo di scoprire di più l’uno dell’altro; io non sapevo nulla di lui, del suo lavoro, ignoravo perfino il suo cognome, e lui sapeva altrettanto poco di me, ma entrambi sapevamo (intuitivamente, infallibilmente) che cosa desideravamo, come dare piacere a noi stessi e all’altro.

Dopo, non ci fu alcun bisogno di dire quanto fosse stato bello il nostro incontro, e quanto desiderassimo vederci ancora. Io stavo per andare a Birmingham per un internato di sei mesi in chirurgia, ma era un problema facile da risolvere. Il sabato potevo correre a Londra in moto e passare la sera a casa con i miei; prima però, avrei potuto trascorrere il pomeriggio con Bud, e la mattina dopo avremmo fatto un giro insieme. Mi piacevano le nostre corse in moto in quelle domeniche mattina frizzanti, specialmente quando mettevo via la mia moto e viaggiavo su quella di Bud, in sella dietro di lui, così vicini che a volte ci sembrava di essere un unico animale di pelle.

In quel momento ero in uno stato di incertezza sul mio futuro: i miei internati sarebbero finiti nel giugno del 1960 e a quel punto avrei avuto i requisiti per il servizio di leva (la mia chiamata era stata rinviata negli anni degli studi e dell’internato).

Mentre rimuginavo su tutto questo non dissi nulla a Bud, ma a giugno gli scrissi informandolo che il 9 luglio, il giorno del mio compleanno, avrei lasciato l’Inghilterra per il Canada e che forse non sarei tornato. Non pensavo che questo l’avrebbe toccato più di tanto: eravamo stati amici di moto e di letto ma, pensavo io, niente di più: non avevamo mai parlato dei sentimenti che provavamo l’uno per l’altro. Bud invece mi rispose inviandomi una lettera appassionata e dolente; era affranto, mi disse, e quando aveva ricevuto la mia lettera aveva pianto. Leggendo la sua risposta rimasi desolato e capii, troppo tardi, che doveva essersi innamorato di me e che adesso io gli avevo spezzato il cuore.

 

 

 

1. In un taccuino che tenevo all’epoca, indicai la mia intenzione di scrivere cinque romanzi (compreso quello sulle moto), come pure un memoir sulla mia infanzia chimica. Non ho mai scritto i romanzi, ma quarantacinque anni dopo ho pubblicato il memoir, Zio Tungsteno.

2. Quando avevo sostenuto il mio esame per il diploma delle superiori, nel 1949, il mio esaminatore in zoologia era stato il grande zoologo J.Z. Young, lo scopritore degli assoni giganti dei calamari: fu la ricerca su quegli assoni che portò, qualche anno dopo, alla prima vera comprensione delle basi elettriche e chimiche della conduzione nervosa. Lo stesso Young passava ogni estate a Napoli studiando il comportamento e il cervello delle piovre. Mi chiedevo se non potessi cercare di lavorare con lui, come stava facendo, proprio allora, Stuart Sutherland, studente a Oxford nei miei stessi anni.

3. Il Dutch Courage è una marca di gin olandese [N.d.T.].

4. Nell’ordine: gastroenterologia, genitourologia, otorinolaringoiatria, ostetricia/ginecologia [N.d.T.].

5. In Inghilterra, il giovane medico che inizia a lavorare in ospedale veniva indicato con il termine houseman, e lo specializzando come registrar; negli Stati Uniti le qualifiche corrispondenti sono intern e resident. [Poiché non esiste una esatta corrispondenza con il sistema italiano, nella traduzione si è usato «interno» per il medico nel primo periodo post lauream e «specializzando» per il medico nel periodo più avanzato di formazione].

6. Un traguardo veramente notevole; io peraltro non potevo fare a meno di pensare che mia madre era diventata specialista a ventisette anni.

7. Valentine Logue, il loro collega del reparto di neurochirurgia, al piano di sopra, usava chiedere ai giovani medici se vedessero qualcosa di «sbagliato» nella sua faccia, e solo allora ci rendevamo conto che nei suoi occhi c’era qualcosa di strano: una delle pupille era molto più grande dell’altra. Noi facevamo infinite speculazioni sul perché della cosa, ma Logue non ci illuminò mai.

8. Kremer scriveva: «Mi fu chiesto di visitare un paziente del reparto cardiologico, che suscitava perplessità. Aveva una fibrillazione atriale e gli si era liberato un grosso embolo che gli aveva procurato una emiplegia sinistra; mi chiesero di visitarlo perché di notte cadeva sempre dal letto e i cardiologi non riuscivano a scoprirne il motivo.
«Quando gli chiesi che cosa succedeva, mi disse in tutta serietà che, quando di notte si svegliava, trovava sempre accanto a sé nel letto una gamba pelosa, morta, fredda: una presenza che non riusciva a spiegare ma che non poteva tollerare, sicché con il braccio e la gamba buoni la spingeva giù dal letto; naturalmente, il resto del suo corpo le andava dietro.
«Era un esempio eccellente della totale perdita di consapevolezza del suo arto plegico; la cosa interessante fu che non riuscii a farmi dire se la sua gamba da quel lato era nel letto con lui, perché era troppo concentrato sulla spiacevole gamba sconosciuta che trovava accanto a sé».
Citai questo passaggio della lettera di Kremer quando ebbi occasione di descrivere un caso simile («L’uomo che cadde dal letto», in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello).

9. Sede del National Hospital for Neurology & Neurosurgery [N.d.T.].