UNA NUOVA VISIONE DELLA MENTE

Al principio di marzo del 1986, subito dopo la pubblicazione del Cappello, ricevetti una lettera dal signor I., un artista di Long Island. Mi scriveva quanto segue:

 

«Sono un artista di discreto successo e ho appena compiuto 65 anni. Il 2 gennaio di quest’anno ero al volante della mia auto quando un camioncino mi venne addosso urtando il mio veicolo dalla parte del passeggero. Al più vicino pronto soccorso mi fu diagnosticata una commozione cerebrale. Una visita oculistica mostrò che ero incapace di distinguere i colori e le lettere: queste ultime mi apparivano come caratteri greci. Ogni cosa mi si presentava come se la stessi guardando su uno schermo televisivo in bianco e nero. Nel giro di qualche giorno, riuscii nuovamente a distinguere le lettere, e la mia vista si fece acuta come quella di un’aquila: riesco a vedere un verme che striscia a un isolato di distanza e la precisione con cui metto a fuoco l’immagine è incredibile. Però non riesco assolutamente a vedere i colori. Mi sono rivolto a vari oculisti, ma ho constatato che non sanno nulla di questo tipo di cecità; sono stato anche da diversi neurologi, senza alcun risultato; neppure sotto ipnosi riesco a distinguere i colori. Mi hanno sottoposto a ogni genere di test: lei sa che cosa intendo. Il mio cane marrone è grigio scuro; il succo di pomodoro è nero; la TV a colori è un guazzabuglio».

 

Il signor I. si lamentava dicendo che il mondo in cui ora abitava – «plumbeo», spaventoso, in bianco e nero – faceva sembrare gli esseri umani orrendi e gli rendeva impossibile dipingere. Avevo mai incontrato una condizione simile? Potevo cercare di capire che cosa gli era accaduto? Ero in grado di aiutarlo?

Gli risposi che avevo sentito parlare di casi di acromatopsia acquisita simili al suo, ma non ne avevo mai visto uno personalmente. Non ero sicuro di poterlo aiutare, ma lo invitai a venirmi a trovare.

Il signor I. era diventato acromatopsico – completamente cieco al colore, come se stesse guardando «uno schermo televisivo in bianco e nero» – dopo sessantacinque anni di normale visione cromatica. La subitaneità dell’evento era incompatibile con uno qualsiasi dei lenti deterioramenti che possono colpire i coni retinici; piuttosto indicava un incidente a livello decisamente superiore, che avesse colpito le parti del cervello specializzate nella percezione del colore.

Era chiaro, inoltre, che il signor I. non aveva perso soltanto la capacità di vedere il colore ma anche quella di immaginarlo. Adesso sognava in bianco e nero e perfino le sue aure emicraniche erano spogliate del colore.

Qualche mese prima ero stato a Londra per la pubblicazione del Cappello, e un collega mi propose di accompagnarlo a una conferenza presso il National Hospital, in Queen Square. «Parlerà Semir Zeki» mi disse. «In fatto di percezione cromatica, è la massima autorità».

Zeki stava conducendo una ricerca neurofisiologica sulla percezione cromatica nella scimmia, effettuando registrazioni con elettrodi inseriti nella corteccia visiva; aveva dimostrato che la costruzione del colore dipendeva da una singola area (la V4) e pensava che nel cervello umano esistesse probabilmente un’area analoga. Rimasi affascinato dall’esposizione di Zeki, soprattutto dal suo uso della parola «costruzione» in rapporto alla percezione cromatica.

Dalle ricerche di Zeki sembrava irradiare un approccio interamente nuovo; mi fecero pensare alle possibili basi neurali della coscienza in un modo che non avevo mai considerato prima, mostrandomi che adesso, probabilmente, con le nostre nuove tecniche per ottenere immagini del cervello e registrare l’attività di singoli neuroni in un cervello vivo e cosciente, eravamo in grado di descrivere come e dove venga «costruito» ogni tipo di esperienza. Era un pensiero esaltante. Capii quale grande balzo in avanti avesse compiuto la neurofisiologia dai tempi in cui io ero studente, all’inizio degli anni Cinquanta, quando era al di là del nostro potere, quasi al di là dell’immaginazione, registrare l’attività di singole cellule nervose nel cervello di un animale cosciente, mentre erano in corso percezioni e azioni.

 

Pressappoco in quel periodo, andai a un concerto alla Carnegie Hall. Il programma comprendeva la grande Messa in do minore di Mozart e, dopo l’intervallo, il suo Requiem. Un giovane neurofisiologo, Ralph Siegel, era per caso seduto qualche fila dietro di me; ci eravamo visti brevemente l’anno prima, quando avevo visitato il Salk Institute dove lui era uno dei protégés di Francis Crick. Accortosi che avevo un taccuino in grembo e che per tutto il concerto avevo scritto senza sosta, Ralph capì che la figura massiccia davanti a lui dovevo essere io. Alla fine del concerto venne da me e si presentò; io lo riconobbi subito, non tanto dal viso (le facce mi sembrano perlopiù tutte uguali) quanto per i capelli rosso fiamma e i modi vivaci e impertinenti.

Ralph era curioso – che cosa avevo scritto durante tutto il concerto? Avevo completamente ignorato la musica? No, dissi io, mentre scrivevo ero consapevole della musica, e non solo come sottofondo. Citai Nietzsche, un altro con l’abitudine di scrivere ai concerti; gli piaceva Bizet e una volta scrisse: «Bizet fa di me un filosofo migliore».

Io credevo che Mozart facesse di me un neurologo migliore, gli dissi, e stavo scrivendo a proposito di un mio paziente, il pittore che non vedeva i colori. Ralph era emozionato: aveva sentito parlare del signor I. perché un po’ di tempo prima, quello stesso anno, lo avevo descritto a Francis Crick. Ralph, nelle sue ricerche, stava esplorando il sistema visivo delle scimmie, ma mi disse che gli sarebbe piaciuto molto incontrare il signor I. che – a differenza degli animali con cui lavorava lui – avrebbe potuto raccontargli esattamente che cosa vedesse (o non vedesse). Progettò alcuni test, semplici ma essenziali, che potevano aiutare a individuare a quale stadio, nel cervello del pittore, avesse avuto luogo il cedimento della costruzione del colore.

 

Ralph pensava sempre in termini fisiologici profondi, mentre i neurologi, io compreso, spesso si contentano della fenomenologia della malattia o della lesione cerebrale, senza riflettere molto sui meccanismi precisi che vi sono implicati e senza pensare affatto all’interrogativo ultimo, e cioè al modo in cui l’esperienza e la coscienza emergono dall’attività cerebrale. Per Ralph, invece, tutti i problemi che esplorava nel cervello delle scimmie, tutte le conoscenze che raccoglieva tanto pazientemente una per una, puntavano sempre a quell’interrogativo ultimo: il rapporto tra mente e cervello.

Ogni volta che gli raccontavo quello che i miei pazienti stavano vivendo, Ralph immediatamente mi trascinava in una discussione sulla fisiologia: quali parti del cervello erano coinvolte? Che cosa stava succedendo? Potevamo simularlo su un computer? Dotato di un talento naturale per la matematica, Ralph aveva una laurea in fisica, amava le neuroscienze computazionali, e gli piaceva costruire modelli, o simulazioni, di sistemi neurologici.81

Nei successivi vent’anni, siamo stati grandi amici. Lui trascorreva le sue estati al Salk Institute, e io spesso andavo a trovarlo. Come scienziato era intransigente, sovente brusco e senza peli sulla lingua; come persona era espansivo, spontaneo e allegro. Era felice di essere sposato, e gli piaceva essere un padre per i suoi gemelli – una vita di famiglia in cui spesso io venivo incluso come una sorta di padrino. A entrambi piaceva La Jolla, dove potevamo fare lunghe camminate o giri in bicicletta, guardare i parapendio librarsi sulla scogliera, oppure nuotare nell’insenatura. Nel 1995, quando il Neurosciences Institute di Gerald Edelman si unì al Salk Institute, allo Scripps Research Instituite e alla UCSD, La Jolla era ormai diventata la capitale mondiale delle neuroscienze. Ralph mi presentò a molti dei neuroscienziati che lavoravano al Salk, e io cominciai a sentirmi parte di quella comunità straordinariamente varia e originale.

Nel 2011 Ralph morì – decisamente troppo giovane – ucciso da un cancro al cervello, a cinquantadue anni. Sento profondamente la sua mancanza ma, come nel caso di moltissimi miei amici e mentori, la sua voce è diventata parte integrante del mio pensiero.

 

Nel 1953, mentre ero a Oxford, lessi, quando venne pubblicata su «Nature», la famosa lettera di Watson e Crick sulla «doppia elica». Vorrei poter dire di averne compreso immediatamente il significato epocale, ma non fu così: né per me né, all’epoca, per moltissimi altri.

Fu solo nel 1962, quando Crick venne a parlare al Mount Zion Hospital di San Francisco, che cominciai a capire le vaste implicazioni della doppia elica. La conferenza di Crick non riguardava la configurazione del DNA, ma le ricerche che stava svolgendo insieme al biologo molecolare Sydney Brenner per determinare in che modo la sequenza delle basi del DNA potesse specificare la sequenza amminoacidica delle proteine. Dopo quattro anni di intenso lavoro, avevano appena dimostrato che la traduzione comportava un codice trinucleotidico: una scoperta di per sé non meno fondamentale di quella della stessa doppia elica.

Era chiaro, però, che Crick era già passato a interessarsi di altri temi. Vi erano, lasciò intendere nel suo discorso, altre due grandissime imprese cui metter mano in futuro: comprendere l’origine e la natura della vita; e chiarire il rapporto tra cervello e mente, in particolare le basi biologiche della coscienza. Quando ci parlò nel 1962, aveva forse un sentore che quelli sarebbero stati i temi di cui lui stesso si sarebbe occupato negli anni a venire, una volta «sistemata» la biologia molecolare o, quanto meno, una volta che l’avesse portata a un punto tale da poterla delegare ad altri?

Nel 1979, Crick pubblicò su «Scientific American» Thinking About the Brain, un articolo che, in un certo senso, legittimava lo studio della coscienza in termini neuroscientifici; prima di allora, il problema della coscienza era stato considerato irrimediabilmente soggettivo, e pertanto inaccessibile all’indagine scientifica.

Qualche anno dopo, nel 1986, lo incontrai a una conferenza a San Diego. C’era una gran calca ed era pieno di neuroscienziati, ma, quando arrivò l’ora di cena, Crick mi individuò, mi prese per le spalle e mi fece sedere accanto a sé, dicendo: «Mi racconti qualche storia!»; in particolare, gli interessava sentire qualcosa sul modo in cui la visione poteva essere alterata da lesioni o patologie cerebrali.

Non ricordo che cosa mangiammo, né altri dettagli di quella cena, ma solo che gli raccontai la storia di molti miei pazienti e che ognuna di esse innescava nella sua mente esplosioni di ipotesi e indicazioni per ulteriori indagini. Qualche giorno dopo, gli scrissi dicendogli che l’esperienza era stata «un po’ come sedere accanto a un reattore nucleare intellettuale ... Non avevo mai avvertito, prima, una simile incandescenza». Quando gli parlai del signor I., Crick rimase molto colpito, come pure quando gli raccontai che molti miei pazienti, nei pochi minuti di un’aura emicranica, sperimentavano – al posto del flusso continuo della normale percezione visiva – un susseguirsi intermittente di immagini statiche, «congelate». Mi chiese se capitasse mai che questa «visione cinematica», come la chiamavo io, fosse una condizione permanente, o se potesse essere indotta in modo prevedibile, così da poterla studiare. (Gli risposi che lo ignoravo).

 

Nel 1986 passai moltissimo tempo con il signor I., e nel gennaio del 1987 scrissi a Crick: «Adesso ho preparato una relazione piuttosto lunga sul mio paziente ... È stato solo nell’atto di scrivere che ho capito come il colore possa effettivamente essere un costrutto (cerebro-mentale)».

Avevo passato gran parte della mia vita professionale vincolato a idee di «realismo ingenuo», per esempio considerando le percezioni visive come mere trascrizioni di immagini retiniche; ai tempi in cui studiavo a Oxford, questa concezione «positivista» era dominante. Adesso, però, mentre lavoravo con il signor I., questa idea stava cedendo il passo a una concezione molto diversa del cervello-mente, una concezione in cui esso era, nella sua essenza, costruttivo o creativo. Aggiunsi che avevo cominciato a chiedermi se tutte le qualità percettive, compresa la percezione del movimento, non fossero anch’esse costruite in modo analogo dal cervello.82

Nella mia lettera, accennavo al fatto che stavo lavorando sul caso del signor I. insieme al mio amico oculista Bob Wasserman e a Ralph Siegel, che aveva ideato e condotto numerosi esperimenti psicofisici sul nostro paziente. Menzionai che anche Semir Zeki aveva visto il signor I. e l’aveva sottoposto ai suoi test.

Nel 1987, alla fine di ottobre, riuscii a mandare a Crick The Case of the Colorblind Painter, un articolo che avevo scritto con Bob Wasserman per «The New York Review of Books», e al principio del mese di gennaio mi arrivò la sua risposta – una lettera assolutamente stupenda: cinque pagine dattiloscritte con interlinea uno, minuziosamente argomentate e piene zeppe di suggerimenti e idee, alcune delle quali, avvertiva, erano «speculazioni sfrenate»:

 

«Grazie infinite per avermi inviato il suo interessantissimo articolo sull’artista che non vede i colori ... Benché – come lei sottolinea nella sua lettera – non si tratti di un articolo scientifico in senso stretto, qui tra i miei colleghi e i miei amici scienziati e filosofi ha comunque suscitato un grande interesse. Abbiamo fatto su di esso un paio di riunioni, e io ho avuto anche, in merito, diverse altre conversazioni personali».

 

Aggiungeva di aver mandato una copia della sua lettera e del mio articolo a David Hubel, che insieme a Torsten Wiesel aveva svolto un lavoro pionieristico sui meccanismi corticali della percezione visiva. Ero molto emozionato al pensiero che Crick stesse facendo circolare il nostro articolo – il nostro «caso» – affinché fosse discusso in quel modo. Questo mi diede una percezione più profonda della scienza come impresa comune; degli scienziati come comunità internazionale, fraterna, in cui ciascuno condivide il lavoro di tutti gli altri e riflette su di esso; e dello stesso Crick come una sorta di nodo principale della rete, connesso a tutti gli altri, nel mondo delle neuroscienze.

«Naturalmente» scriveva Crick

 

«l’aspetto più interessante è la perdita, da parte del signor I., del senso soggettivo del colore, insieme all’assenza di quest’ultimo nell’immaginazione eidetica e nei sogni del paziente. Ciò indica chiaramente che una parte fondamentale dell’apparato necessario per questi ultimi due fenomeni è necessaria anche per la percezione del colore. Allo stesso tempo, la memoria del signor I. per i nomi dei colori e le associazioni cromatiche è rimasta del tutto intatta».

 

Poi proseguiva, riassumendo scrupolosamente alcuni articoli di Margaret Livingstone e David Hubel, in cui gli autori descrivevano la loro teoria dei tre stadi dell’elaborazione visiva precoce, e ipotizzava che il signor I. avesse subìto un danno a uno di quei livelli (il «sistema dei blob», nell’area V1), dove le cellule sarebbero particolarmente sensibili alla mancanza di ossigeno (forse causata da un leggero ictus o anche da un avvelenamento da monossido di carbonio).

«La prego di scusare la lunghezza di questa lettera» concludeva. «Potremmo parlarne al telefono, dopo che avrà avuto il tempo di digerire tutto».

Bob, Ralph e io eravamo incantati dalla lettera di Crick. Ogni volta che la rileggevamo, sembrava diventare più profonda e stimolante; la nostra impressione era che per dar seguito al fiume dei suoi suggerimenti sarebbe occorso almeno un decennio di ricerca.

Quando mi ricontattò alcune settimane dopo, Crick menzionò due casi di Antonio Damasio: in uno di essi, la paziente aveva perso l’immaginazione cromatica ma sognava ancora a colori (in seguito questa paziente recuperò la visione cromatica).

E lui scrisse:

 

«Sono felicissimo ... di sapere che sta pianificando altre ricerche sul signor I. Tutto ciò che lei menziona è importante, soprattutto le scansioni. I miei amici non sono ancora d’accordo su quale possa essere il danno in questi casi di acromatopsia cerebrale. Io ho (molto ipoteticamente) indicato i blob della V1, insieme a una qualche degenerazione a livelli superiori, ma questo in verità dipende dal fatto che nelle scansioni si vede poco (se gran parte della V4 fosse lesa, si dovrebbe vedere qualcosa). David Hubel mi dice che propende per un danno alla V4, benché questa opinione sia ancora provvisoria. David van Essen mi ha comunicato che sospetta di qualche area ancora più a monte».

 

«Penso che la morale di tutto questo» concludeva Crick «sia che a soccorrerci potrà essere soltanto un esame psicofisico attento ed esteso, condotto su un paziente di quel tipo, insieme all’accurata localizzazione del danno (per ora, infatti, non sappiamo come studiare l’immaginazione visiva e i sogni in una scimmia)».

 

Nell’agosto del 1989, Crick mi scrisse: «In questo momento sto cercando di venire a capo della consapevolezza visiva, che però continua a restare un tema elusivo». Allegava il manoscritto di un articolo intitolato Towards a Neurobiological Theory of Consciousness, uno dei primi saggi sinottici che sarebbero scaturiti dalla sua collaborazione con Christof Koch al Caltech. Mi sentii veramente privilegiato a vedere quel manoscritto, in particolare nel leggere il loro ragionamento, esposto nei dettagli, secondo il quale un modo ideale per addentrarsi in quel tema in apparenza inaccessibile passava per l’esplorazione dei disturbi della percezione visiva.

L’articolo di Crick e Koch era indirizzato a neuroscienziati e copriva numerosi temi in alcune pagine; conteneva inoltre passaggi densi e notevolmente tecnici. Io però sapevo che Crick era in grado di scrivere anche con uno stile molto leggibile, spiritoso e piacevole, cosa che affiorava in modo chiarissimo nei suoi due libri precedenti, L’origine della vita e Uomini e molecole. Così adesso nutrivo la speranza che potesse dare una forma più divulgativa e accessibile alla sua teoria neurobiologica della coscienza, arricchendola con esempi clinici e quotidiani (cosa che poi fece nel suo libro del 1994 La scienza e l’anima).

 

Nel 1994, a giugno, Raph e io ci trovammo con Crick a New York, e cenammo insieme. La conversazione spaziò in tutte le direzioni. Ralph parlò delle ricerche che stava conducendo sulla percezione visiva delle scimmie, ma anche delle sue riflessioni sul ruolo fondamentale del caos a livello neuronale; Francis ci raccontò le sue ricerche in espansione con Christof Koch, e le loro ultime teorie sui correlati neurali della coscienza; e io parlai loro della mia imminente visita a Pingelap, dove vivono decine di persone – quasi il 10 per cento della popolazione – nate completamente cieche al colore. Progettavo di recarmi laggiù con Bob Wasserman e Knut Nordby, uno studioso norvegese di psicologia della percezione che, come i pingelapesi, era nato privo di recettori retinici per il colore.

Nel febbraio successivo inviai a Francis una copia di Un antropologo su Marte, che era stato appena pubblicato e conteneva una versione del «Caso del pittore che non vedeva i colori», molto ampliata anche grazie alle discussioni con lui. Gli raccontai inoltre qualcosa delle mie esperienze a Pingelap e di come Knut e io cercassimo di immaginare quali cambiamenti potessero essere intervenuti nel suo cervello in risposta all’acromatopsia. Nella totale assenza di recettori cromatici a livello retinico, i centri cerebrali per la costruzione del colore si erano forse atrofizzati? O erano stati riassegnati ad altre funzioni visive? O magari erano ancora in attesa di un input, un input che potrebbe essere fornito da una stimolazione diretta, elettrica o magnetica? E se questo fosse possibile, vedrebbe i colori per la prima volta nella sua vita? E capirebbe che è colore, oppure questa esperienza visiva sarebbe troppo nuova, troppo confusa, per poterla categorizzare? Sapevo che interrogativi come questi affascinavano anche Francis.

La nostra corrispondenza continuò su vari argomenti. Io gli scrissi parlandogli a lungo del paziente che avevo chiamato Virgil, al quale era stata restituita la vista dopo una vita intera di cecità; e gli esposi anche alcune riflessioni sul linguaggio dei segni e sulla riassegnazione della corteccia uditiva nei segnanti sordi. Spesso, poi, intrattenevo con lui una sorta di dialogo mentale su qualsiasi problema sconcertante mi si presentasse riguardo alla percezione o alla consapevolezza visiva. Che ne penserebbe Francis? – mi chiedevo; come cercherebbe di spiegarlo? come lo studierebbe?

 

La creatività di Francis non conosceva soste; l’incandescenza che mi aveva colpito quando l’avevo incontrato nel 1986, insieme a quel suo modo di guardare sempre al futuro e di prevedere, per sé e per gli altri, anni o decenni di ricerca, induceva a considerarlo immortale. A più di ottant’anni, continuava a produrre un fiume di articoli brillanti e provocatori, senza mostrare traccia dell’affaticamento, dei cedimenti o delle ripetizioni tipici della vecchiaia. Così, in un certo senso, fu uno shock quando, al principio del 2003, apprendemmo che aveva avuto alcuni gravi problemi di salute. Forse, inconsapevolmente, pensavo proprio a questo quando gli scrissi a maggio di quell’anno; tuttavia non era la ragione principale per cui desideravo ricontattarlo.

Mi ero ritrovato a riflettere sul tempo – su tempo e percezione, tempo e coscienza, tempo e memoria, tempo e musica, tempo e movimento. Ero tornato, in particolare, a chiedermi se l’apparente continuità del tempo e del movimento che ci viene offerta dai nostri occhi non fosse un’illusione – se in realtà la nostra esperienza visiva non consistesse in una serie di «istanti» senza tempo, che vengono poi saldati l’uno all’altro da qualche meccanismo cerebrale a un livello superiore. Feci ancora una volta riferimento alle sequenze «cinematografiche» di fotogrammi che mi erano state descritte dai pazienti emicranici e che in qualche occasione avevo sperimentato io stesso (in particolare – in modo molto intenso e associate ad altri disturbi percettivi – durante la mia ubriacatura da sakau in Micronesia).

Quando accennai a Ralph che avevo cominciato a scrivere su questo tema, lui mi disse: «Devi leggere l’ultimo articolo di Crick e Koch. Ipotizzano che la consapevolezza visiva consista in realtà di una sequenza di “istantanee” – state pensando tutti a qualcosa di simile».

Scrissi a Francis, allegandogli una bozza del mio articolo sul tempo. Aggiunsi anche una copia del mio ultimo libro, Zio Tungsteno, e alcuni articoli recenti che trattavano il nostro argomento preferito, la visione. Il 5 giugno del 2003, Francis mi inviò una lunga lettera, piena di buonumore e di entusiasmo intellettuale, senza fare alcun cenno alla malattia. Scriveva:

 

«Ho letto con grande piacere il racconto della tua infanzia. Anch’io sono stato aiutato da uno zio a fare un po’ di chimica elementare e a soffiare il vetro, anche se non ho mai provato la tua stessa attrazione per i metalli. Come te, ero molto impressionato dalla Tavola Periodica e dalle idee sulla struttura dell’atomo. Quand’ero all’ultimo anno a Mill Hill [la sua scuola], feci una relazione su come l’“atomo di Bohr”, insieme alla meccanica quantistica, spiegasse la Tavola Periodica, benché non sia sicuro di quanto ne capissi davvero».

 

Trovai stimolanti le reazioni di Francis a Zio Tungsteno, e gli risposi chiedendogli quanta «continuità» percepisse tra l’adolescente che parlava a Mill Hill dell’atomo di Bohr, il fisico che poi era diventato, il suo sé ai tempi della «doppia elica», e il suo sé presente. Gli citai una lettera che Freud – allora sessantottenne – aveva scritto a Karl Abraham nel 1924, in cui diceva: «Cercare di identificare me stesso con l’autore dell’articolo sui gangli spinali di Petromyzon significa chiedere molto all’unità della personalità. D’altra parte, sembra sia proprio così».

Nel caso di Crick l’apparente discontinuità era addirittura più marcata. Freud, infatti, era stato un biologo fin dall’inizio, anche se inizialmente si era interessato all’anatomia dei sistemi nervosi primitivi. Francis, invece, si era laureato in fisica, durante la guerra aveva lavorato sulle mine magnetiche, e poi aveva proseguito con il dottorato in chimica fisica. Solo allora, dopo i trent’anni – un’età in cui la maggior parte degli scienziati è ormai invischiata nelle ricerche che sta conducendo – ebbe una trasformazione, una «rinascita», come in seguito l’avrebbe chiamata, e passò alla biologia. Nella sua autobiografia, La folle caccia, parla della differenza tra la fisica e la biologia:

 

«La selezione naturale costruisce quasi sempre su ciò che è venuto prima ... È la complessità conseguente a questo modo di procedere a rendere gli organismi biologici così difficili da decodificare. La biologia quindi è molto diversa dalla fisica. Le leggi fondamentali della fisica possono essere espresse di solito in una forma matematica e sono probabilmente uguali in tutto l’universo. Le “leggi” della biologia, di contro, sono spesso solo vaste generalizzazioni, descrivendo meccanismi chimici piuttosto complessi che la selezione naturale ha sviluppato per evoluzione nel corso di miliardi di anni ... Io stesso, fino ai trent’anni di età, sapevo assai poco di biologia, se non in forma piuttosto generale, dal momento che la mia prima laurea era in fisica. Mi occorse un po’ di tempo per adattarmi al modo di pensare alquanto diverso che si richiede in biologia. Fu quasi come dover rinascere».

 

A metà del 2003 la malattia stava iniziando a farsi sentire, e cominciai a ricevere lettere scritte da Christof Koch, che all’epoca trascorreva diversi giorni alla settimana con Francis. Sembravano esser diventati uniti a tal punto che molti dei loro pensieri erano dialogici ed emergevano dalla loro interazione: quello che Christof mi scriveva condensava il pensiero di entrambi. Molte frasi cominciavano così: «Francis e io abbiamo, in effetti, qualche altra domanda sulla tua esperienza ... Francis pensa così. Quanto a me, non sono sicuro...», eccetera.

In risposta al mio articolo sul tema del tempo (una versione del quale fu poi pubblicata sulla «New York Review of Books» con il titolo In the River of Consciousness) Crick mi interrogò nei dettagli sulla velocità con cui si susseguivano le immagini intermittenti nelle aure emicraniche. Erano questioni che avevamo discusso quando ci eravamo incontrati la prima volta, quindici anni addietro, ma sembrava che questa in particolare l’avessimo dimenticata entrambi: di certo nessuno di noi due vi aveva accennato nelle lettere precedenti. Poiché nel 1986 non potemmo raggiungere una soluzione, era come se entrambi – ciascuno a modo suo – avessimo archiviato la questione, l’avessimo «dimenticata» e nascosta nel nostro inconscio, dove sarebbe rimasta in incubazione per altri quindici anni prima di riaffiorare. Francis e io stavamo adesso convergendo su un problema che in precedenza ci aveva tenuti in scacco e che ora sembrava avvicinarsi a una soluzione. Nell’agosto del 2003 la mia sensazione di tale avvicinamento era così intensa che mi convinsi di dover andare a trovare Francis a La Jolla.

Mi fermai una settimana, e mi incontrai spesso con Ralph che stava ancora lavorando al Salk. All’istituto c’era un’atmosfera molto bella, non competitiva (o perlomeno così sembrò a me, che la vidi dall’esterno durante la mia breve visita): un’atmosfera che aveva incantato Francis quando era arrivato lì a metà degli anni Settanta e che da allora era andata consolidandosi grazie alla sua continua presenza. Nonostante l’età, Francis era una figura quanto mai centrale al Salk. Ralph mi indicò la sua auto e la targa, con soltanto quattro lettere, A T G C: – i quattro nucleotidi del DNA. Fui felice, un giorno, di vederlo entrare in laboratorio, con la sua figura alta e ancora molto diritta, benché camminasse lentamente e con l’aiuto di un bastone.

Un pomeriggio tenni un seminario, e proprio all’inizio vidi Francis entrare e prendere posto silenziosamente in fondo all’aula. Per quasi tutto il tempo restò con gli occhi chiusi, e pensai che si fosse assopito, ma non appena finii di parlare, mi fece diverse domande molto acute, così capii che non aveva perso una sola parola. Mi dissero che i suoi occhi chiusi traevano in inganno molti visitatori, i quali poi però scoprivano, a loro spese, che probabilmente quegli occhi mascheravamo l’attenzione più viva, e la mente più chiara e profonda, che avrebbero mai incontrato.

L’ultimo giorno del mio soggiorno a La Jolla, Christof era in visita da Pasadena, e fummo tutti invitati a salire dai Crick per pranzare con Francis e sua moglie Odile. «Salire» non era un’espressione vuota: a me e a Ralph, in auto, sembrò un’ascesa ininterrotta, un tornante dietro l’altro, finché non raggiungemmo casa Crick. Era una splendida giornata californiana piena di sole, e ci sistemammo tutti intorno a un tavolo di fronte alla piscina (dove l’acqua era di un azzurro violento: non, ci spiegò Francis, per come fosse verniciata la piscina, o per il cielo che la sovrastava, ma perché l’acqua locale conteneva minute particelle che, come la polvere, diffrangevano la luce). Odile ci portò diverse prelibatezze – salmone e gamberetti, asparagi – e qualche piatto speciale a cui Francis, adesso in chemioterapia, doveva limitarsi. Benché non si unisse alla conversazione, sapevo quanto Odile, che era un’artista, seguisse da vicino tutto il lavoro di Francis. Intanto, era stata lei a disegnare la doppia elica apparsa nel celebre articolo del 1953; poi, cinquant’anni dopo, aveva raffigurato una donna «cristallizzata» nell’atto della corsa, per illustrare l’ipotesi delle «istantanee» nell’articolo del 2003 che mi aveva tanto emozionato.

Seduto accanto a Francis, vedevo che le sue sopracciglia arruffate erano diventate più che mai bianche e cespugliose, e questo enfatizzava il suo aspetto da vecchio saggio. D’altra parte, quell’immagine veneranda era costantemente smentita dallo sfavillio che aveva nello sguardo e dal suo umorismo irriverente. Ralph non vedeva l’ora di parlargli del suo ultimo lavoro, una tecnica per ottenere, in un cervello vivente, immagini di strutture a livello quasi cellulare. In precedenza non era mai stato possibile visualizzare la struttura e l’attività del cervello su quella scala, ed era proprio a quel livello «meso» che sia Crick, sia Gerald Edelman, quali che fossero le loro differenze, localizzavano adesso le strutture funzionali del cervello.

Francis era entusiasta della nuova tecnica di Ralph e delle sue fotografie, ma allo stesso tempo lo bersagliava di domande incisive e lo teneva sulla graticola, interrogandolo in modo assai minuzioso, ma anche costruttivo.

Era chiaro che la persona più vicina a Francis – oltre ovviamente a Odile – era Christof, il suo «figlio scientifico»: era molto toccante vedere come quei due uomini, distanti almeno quarant’anni e tanto diversi per temperamento e formazione, fossero arrivati a rispettarsi e a volersi bene così profondamente. (Christof è un uomo d’una fisicità romantica, quasi teatrale, si dedica a pericolose arrampicate e porta camicie dai colori accesi. Francis sembrava cerebrale in modo pressoché ascetico; e a tal punto il suo pensiero non era sfiorato da pregiudizi e considerazioni emotive che a volte Christof lo paragonava a Sherlock Holmes). Francis parlava con grande orgoglio, l’orgoglio di un padre, dell’imminente libro di Christof, Alla ricerca della coscienza, e poi di «tutte le ricerche che faremo dopo la pubblicazione». Descrisse le decine di indagini, anni di lavoro, che si prospettavano nel futuro – ricerche derivanti soprattutto dalla convergenza tra la biologia molecolare e le neuroscienze sistemiche. Mi chiedevo che cosa stessero pensando Christof e Ralph, perché a noi era fin troppo chiaro (e doveva esserlo anche a Francis) che la sua salute stava declinando velocemente e che lui avrebbe potuto vedere soltanto l’avvio di quel programma di ricerca. Capivo che Francis non aveva alcuna paura della morte; quell’accettazione, tuttavia, era sfumata di tristezza, poiché non avrebbe vissuto abbastanza per vedere le conquiste scientifiche, meravigliose e quasi inimmaginabili, del ventunesimo secolo. Francis era convinto che il problema centrale della coscienza e delle sue basi neurobiologiche sarebbe stato completamente compreso, «risolto», entro il 2030. «Tu lo vedrai,» diceva spesso a Ralph «e forse anche tu, Oliver, se arriverai alla mia età».

Nel gennaio del 2004 ricevetti la sua ultima lettera. Aveva letto In the River of Consciousness [Nel fiume della coscienza], e mi scrisse: «Si legge molto bene, anche se credo che Is Consciousness a River? [La coscienza è un fiume?] sarebbe stato un titolo migliore, giacché il nocciolo del tuo scritto è che potrebbe benissimo non esserlo» (ne convenni).

«Torna a pranzo da noi»: così si concludeva la lettera.

 

 

 

A metà degli anni Cinquanta, quando studiavo medicina, sembrava vi fosse un abisso incolmabile tra la nostra neurofisiologia e le realtà delle esperienze vissute dai pazienti con disturbi neurologici. La neurologia continuava a seguire il metodo clinico-anatomico indicato da Broca un secolo prima, localizzando le aree cerebrali lese e correlandole ai sintomi: i disturbi del linguaggio, per esempio, erano correlati a un danno nell’area di Broca, la paralisi a un danno alle aree motrici, eccetera. Il cervello era considerato un insieme, o un mosaico, di piccoli organi, ciascuno dei quali con funzioni specifiche ma in un modo o nell’altro tutti interconnessi; si sapeva pochissimo, però, di come il cervello funzionasse nel suo complesso. Mentre scrivevo L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, al principio degli anni Ottanta, il mio pensiero era ancora radicato in quel modello, che considerava il sistema nervoso in larga misura fisso e invariante, con aree «pre-assegnate» a ogni singola funzione.

Tale modello si rivelava utile, per esempio, per localizzare l’area danneggiata in una persona con afasia. Ma come poteva spiegare l’apprendimento e gli effetti dell’esercizio? Come poteva spiegare la ricostruzione e la revisione dei ricordi che compiamo nel corso di tutta la vita? Come poteva spiegare i processi di adattamento, la plasticità neurale? E ancora, come poteva spiegare la coscienza – la sua ricchezza, la sua interezza, il suo flusso sempre mutevole e i suoi numerosi disturbi? Come poteva, infine, spiegare l’individualità del sé?

Benché negli anni Settanta e Ottanta fossero stati compiuti progressi enormi nel campo delle neuroscienze, si avvertiva effettivamente una crisi o un vuoto concettuale. Non esisteva una teoria generale che potesse dare un senso alla gran messe di dati disponibili, osservazioni facenti capo a decine di discipline diverse che spaziavano dalla neurologia allo sviluppo del bambino, alla linguistica e perfino alla psicoanalisi.

 

Nel 1986 lessi sulla «New York Review of Books» un articolo molto interessante in cui l’autore, Israel Rosenfield, discuteva le ricerche e le idee rivoluzionarie di Gerald M. Edelman: un uomo a dir poco audace. «Siamo all’inizio della rivoluzione delle neuroscienze» scriveva. «Quando sarà finita, sapremo come funziona la mente, che cosa governa la nostra natura e in che modo conosciamo il mondo».

Qualche mese dopo, insieme a Rosenfield, presi accordi per incontrare Edelman di persona, in una sala riunioni vicino alla Rockefeller University dove all’epoca aveva sede il suo Neuroscience Institute.

Edelman entrò a grandi passi, ci salutò rapidamente, e poi parlò difilato per venti o trenta minuti delineando le sue teorie senza che nessuno di noi due osasse interromperlo. Poi, tutt’a un tratto, si congedò e io, dalla finestra, lo vidi percorrere York Avenue camminando veloce e guardando fisso davanti a sé. «Quella è la camminata di un genio, di chi persegue un unico obiettivo» pensai tra me. «È come posseduto». Provai un senso di ammirazione e di invidia: quanto mi sarebbe piaciuto avere una capacità di concentrazione così estrema! Poi però pensai che con un cervello del genere la vita non doveva essere proprio facile; e infatti in seguito venni a sapere che Edelman non si prendeva mai una vacanza, dormiva poco ed era come pilotato, quasi con prepotenza, dalla sua ininterrotta attività intellettuale; spesso telefonava a Rosenfield nel cuore della notte. Probabilmente stavo molto meglio io, con la mia dotazione più modesta.

Nel 1987 Edelman pubblicò Darwinismo neurale, un volume fondamentale, primo di una serie di libri che presentavano ed esploravano gli sviluppi di un’idea molto rivoluzionaria, da lui denominata «teoria della selezione dei gruppi neuronali», oppure, in modo più evocativo, «darwinismo neurale». Lottai per leggere quel libro, trovando che la scrittura fosse a tratti impenetrabile: in parte per la novità delle idee, in parte per la natura astratta del testo e la mancanza di esempi concreti. Darwin aveva detto, parlando dell’Origine, che era «una lunga argomentazione», ma l’aveva sostenuta sia portando innumerevoli esempi di selezione naturale (e artificiale), sia avvalendosi di un dono per la scrittura che era vicino a quello di un romanziere. Darwinismo neurale, invece, era un’argomentazione pura: un unico, intenso, documento intellettuale dal principio alla fine. Non fui l’unico ad avere difficoltà con quel testo; la densità, l’audacia e l’originalità del lavoro di Edelman, il suo spingersi oltre i confini del linguaggio, scoraggiavano il lettore.

Annotai la mia copia del libro con esempi clinici, desiderando che Edelman, con la sua formazione da neurologo e psichiatra, avesse fatto lo stesso.

 

Nel 1988 lo vidi nuovamente a un convegno sull’arte della memoria a Firenze, dove entrambi dovevamo parlare.83 Dopo la conferenza, cenammo insieme. Lo trovai molto diverso dall’uomo concentrato sul suo monologo che avevo incontrato la prima volta, quando aveva cercato di comprimere dieci anni di intense riflessioni in qualche minuto; adesso era più rilassato, paziente nei confronti della mia lentezza. E il tono era quello di una piacevole conversazione. Gerry era desideroso di informarsi sulle mie esperienze con i pazienti: esperienze forse pertinenti al suo pensiero, storie cliniche che potevano rivelarsi importanti per le sue teorie sul funzionamento del cervello e sulla coscienza. Al Rockefeller era un po’ isolato dalla attività clinica, proprio come lo era Crick al Salk, ed entrambi erano affamati di dati clinici.

Sul nostro tavolo c’era una tovaglia di carta e quando ci imbattevamo in punti oscuri la usavamo per tracciarvi degli schemi, finché non ne avevamo completamente esplorato il significato. Quando finimmo, sentii di aver capito la sua teoria della selezione dei gruppi neuronali, o almeno parte di essa. Sembrava che illuminasse un vasto ambito di conoscenze neurologiche e psicologiche, che fosse un modello plausibile e verificabile della percezione, della memoria e dell’apprendimento, del modo in cui – attraverso meccanismi cerebrali selettivi e interattivi – un essere umano raggiunge la coscienza e la propria esclusiva individualità.

 

Mentre Crick e i suoi colleghi decifravano il codice genetico – un insieme di istruzioni, in termini generali, per la costruzione di un organismo –, Edelman ben presto comprese che esso non poteva specificare o controllare il destino di ogni singola cellula di quell’organismo. Lo sviluppo cellulare, soprattutto nel sistema nervoso, era soggetto a ogni genere di contingenza – le cellule nervose potevano morire, potevano migrare (Edelman parlava di questi migranti come di «gypsies», zingari), potevano connettersi le une alle altre in modo imprevedibile – così che già al momento della nascita i dettagli fini dei circuiti neurali sono completamente diversi perfino nel cervello di gemelli identici, che sono quindi già individui diversi e come tali rispondono all’esperienza.

Un secolo prima di Crick o Edelman, studiando la morfologia dei cirripedi, Darwin aveva osservato che non esistono due individui della stessa specie che siano esattamente identici; le popolazioni biologiche consistevano non di repliche identiche, ma di individui diversi e distinti. Era su una tale popolazione di varianti che la selezione naturale poteva agire preservando alcune linee per la posterità e condannandone altre all’estinzione (a Edelman piaceva chiamare la selezione naturale «una gigantesca macchina di morte»). Edelman immaginò, fin quasi dall’inizio della sua carriera, che processi analoghi alla selezione naturale potessero avere un’importanza cruciale nel corso della vita dei singoli organismi – soprattutto animali superiori – là dove le esperienze servivano a rafforzare certe connessioni o costellazioni neurali e a indebolirne o estinguerne altre, all’interno del sistema nervoso.84

Edelman ravvisava l’unità fondamentale di selezione e cambiamento non nella singola cellula nervosa, ma in gruppi costituiti da cinquanta-mille neuroni interconnessi; così chiamò la sua ipotesi «teoria della selezione dei gruppi neuronali». Considerava il proprio lavoro come il completamento dell’obiettivo di Darwin, in quanto aggiungeva alla selezione naturale, che ha luogo nell’arco di molte generazioni, la selezione a livello cellulare, nell’arco della vita di un singolo individuo.

Chiaramente esistono alcune tendenze o disposizioni innate, che fanno parte della nostra programmazione genetica; altrimenti un neonato non avrebbe alcuna tendenza: non sarebbe spinto a fare o a cercare nulla per sopravvivere. Queste fondamentali tendenze (per esempio verso il cibo, il calore e il contatto con altre persone) orientano i primi movimenti e i primi sforzi di una creatura.

A un livello fisiologico elementare, poi, esistono vari dispositivi sensoriali e motòri fondamentali, dai riflessi che hanno luogo automaticamente (per esempio in riposta al dolore) a certi meccanismi cerebrali innati (per esempio, il controllo della respirazione e delle funzioni autonome).

Oltre a questo, però, nella concezione di Edelman, c’è pochissimo di programmato o innato. Una tartaruga neonata, subito dopo la schiusa, è pronta ad andare per la sua strada; un neonato umano non lo è. Deve creare ogni genere di categorizzazione percettiva e di altro tipo, e poi usarle per comprendere il mondo: per costruire un mondo individuale, suo personale, e per scoprire come farsi strada in esso. Qui esperienza ed esperimento sono di importanza cruciale: il darwinismo neurale è, essenzialmente, selezione esperienziale.

Il vero «meccanismo» funzionale del cervello, secondo Edelman, consiste di milioni di gruppi neuronali, organizzati in unità o «mappe» più grandi. Queste ultime – che conversano in continuazione all’interno di configurazioni costantemente mutevoli, inimmaginabilmente complesse ma sempre significative – possono cambiare nell’arco di minuti o secondi. Viene in mente, qui, C.S. Sherrington e la sua immagine poetica del cervello come di un «telaio magico», su cui «milioni di lampeggianti spole fanno e disfanno un disegno, disegno sempre significativo anche se non permanente, una mutevole armonia di disegni secondari».

La creazione di mappe che rispondono selettivamente a particolari categorie elementari – per esempio, nel mondo visivo, al movimento o al colore – può comportare la sincronizzazione di migliaia di gruppi neuronali. Alcune mappature hanno luogo in parti discrete e anatomicamente stabilite, pre-assegnate, della corteccia cerebrale; ciò avviene per esempio nel caso del colore, che è costruito in modo predominante nell’area denominata V4. Gran parte della corteccia, però, è un «bene immobile» plastico e pluripotente utilizzabile (entro certi limiti) per qualsiasi funzione sia necessario coprire: pertanto quella che nelle persone udenti sarebbe la corteccia uditiva può essere ridestinata a scopi visivi nelle persone con sordità congenita, e quella che normalmente è la corteccia visiva può essere usata, nelle persone con cecità congenita, per altre funzioni sensoriali.

Studiando l’attività neurale delle scimmie durante lo svolgimento di un particolare compito visivo, Ralph Siegel era ben consapevole dell’abisso esistente tra i metodi «micro», in cui gli elettrodi sono inseriti in una singola cellula nervosa per registrarne l’attività, e i metodi «macro» (fMRI, PET, eccetera) che mostrano invece la risposta di intere aree del cervello. Conscio della necessità di un livello intermedio, Siegel fu il pioniere di una originalissima tecnica «meso» che gli consentiva di osservare, in tempo reale, l’interazione e la sincronizzazione di decine o centinaia di neuroni. Uno dei suoi risultati – inatteso e inizialmente sconcertante – fu che, mentre l’animale apprendeva o si adattava a input sensoriali diversi, le costellazioni neuronali, le mappe, potevano modificarsi nel giro di alcuni secondi. Questa osservazione si accordava benissimo con la teoria di Edelman della selezione dei gruppi neuronali, e così Ralph e io passammo ore e ore a discutere le implicazioni di quella teoria sia tra di noi sia con lo stesso Edelman, il quale, al pari di Crick, era molto interessato al lavoro di Ralph.

A Edelman piace dire che quando si tratta della percezione di oggetti il mondo si presenta senza «etichette»; non è già «scandito in oggetti». Dobbiamo creare le nostre percezioni attraverso categorizzazioni nostre. «Ogni percezione è un atto di creazione», come dice lui. Mentre ci muoviamo, i nostri organi di senso effettuano un campionamento della realtà, e dai campioni raccolti vengono create le mappe nel cervello. Con l’esperienza, poi, ha luogo un rafforzamento selettivo delle mappe corrispondenti a percezioni efficaci – efficaci in quanto si dimostrano le più utili e potenti per la costruzione della «realtà».

Qui Edelman parla di un’ulteriore attività integrativa, peculiare dei sistemi nervosi più complessi, cui dà il nome di «segnalazione rientrante» (o rientro). Secondo lui, per esempio, la percezione di una sedia dipende in primo luogo dalla sincronizzazione di gruppi neuronali attivati per formare una «mappa», poi dalla successiva sincronizzazione di un certo numero di mappe disseminate nella corteccia visiva: mappe relative a molti aspetti percettivi diversi della sedia (dimensioni, forma, colore, il fatto che abbia delle gambe, la sua relazione con altri tipi di sedie quali poltrone, sedie a dondolo, seggiolini per neonati, eccetera). In questo modo si ottiene un percetto ricco e flessibile dell’«essenza» della sedia, che consente l’istantaneo riconoscimento di innumerevoli tipi di sedie come sedie. Questa generalizzazione percettiva è dinamica, pertanto può essere continuamente aggiornata, e dipende dall’orchestrazione incessante e attiva di infiniti dettagli.

Tale correlazione e sincronizzazione della scarica neuronale in aree molto distanti del cervello è resa possibile dalle numerosissime connessioni tra le mappe cerebrali – connessioni che sono reciproche e possono contenere milioni di fibre nervose. Quando si tocca una sedia, per esempio, gli stimoli tattili possono influenzare un insieme di mappe; gli stimoli derivanti dal vedere la sedia possono invece influenzarne un altro insieme. La segnalazione rientrante ha luogo fra questi insiemi di mappe, quale componente del processo di percezione della sedia.

La categorizzazione è un compito fondamentale del cervello e la segnalazione rientrante gli consente di categorizzare le proprie categorizzazioni, e poi di ricategorizzare queste ultime, e così via. Tale processo è l’inizio di un’enorme via ascendente che permette livelli di pensiero e coscienza sempre più alti.

La segnalazione rientrante potrebbe esser vista come una sorta di ONU neurale in cui decine di voci parlano insieme, e intanto accolgono nella loro conversazione numerosi rapporti costantemente in arrivo dal mondo esterno, integrandoli in un quadro più ampio, via via che si stabilisce una correlazione tra le nuove informazioni, e che emergono nuove idee.

Edelman, che un tempo voleva fare il violinista, usa anche metafore musicali. In un’intervista radiofonica per la BBC, disse:

 

«Pensate: se aveste centomila collegamenti casuali tra i quattro esecutori di un quartetto d’archi e – benché essi non dicano una parola – i segnali andassero avanti e indietro in moltissimi modi invisibili [come di solito accade tra i musicisti mediante interazioni non verbali], questo renderebbe i suoni, nel loro complesso, un ensemble unitario. È così che funzionano le mappe del cervello, grazie al rientro».

 

I musicisti sono connessi. Ciascuno di loro, interpretando individualmente la propria musica, modula costantemente gli altri ed è da essi costantemente modulato. Non c’è un’interpretazione definitiva o una mappa «master»; la musica viene creata collettivamente e ogni esecuzione è unica. Questo è il quadro che Edelman propone del cervello; un’orchestra, un ensemble, ma senza direttore: un’orchestra che crea in autonomia la propria musica.

 

Quella sera, dopo aver cenato con Gerry, tornando in albergo mi ritrovai in una sorta di estasi. Mi sembrava che la luna sull’Arno fosse la cosa più bella che avessi mai visto. Avevo la sensazione di essere stato liberato da decenni di disperazione epistemologica, di essere passato da un mondo di analogie superficiali e irrilevanti con i computer, a un mondo ricco di significato biologico che corrispondeva alla realtà del cervello e della mente. Quella di Edelman era la prima teoria della mente e della coscienza davvero globale, la prima teoria biologica che desse conto dell’individualità e dell’autonomia.

Pensavo: «Grazie al cielo sono vissuto abbastanza a lungo da imbattermi in questa teoria». Mi sentivo come immaginavo dovessero sentirsi in molti, nel 1859, quando uscì l’Origine. L’idea della selezione naturale era stupefacente ma – una volta che ci si rifletteva – ovvia. Allo stesso modo, quella sera, quando afferrai quello che Edelman intendeva dire, pensai: «Quanto sono stato stupido a non pensarci io!» – proprio come aveva detto Huxley dopo aver letto l’Origine. All’improvviso, sembrava tutto chiarissimo.

Qualche settimana dopo il mio ritorno da Firenze ebbi un’altra epifania, nel suo genere alquanto improbabile e abbastanza comica. Stavo guidando verso Lake Jefferson, nella rigogliosa campagna della contea di Sullivan, godendomi la pace dei campi e delle siepi, quando vidi... una mucca! E tuttavia, era una mucca trasfigurata dalla mia nuova concezione edelmaniana della vita animale, una mucca il cui cervello era costantemente impegnato a mappare tutte le sue percezioni e i suoi movimenti, una mucca il cui essere interiore consisteva di categorizzazioni e mappature, di gruppi neuronali che lampeggiavano e conversavano a grandissima velocità: una mucca edelmaniana soffusa dal miracolo della coscienza primaria. «Che animale meraviglioso!» pensai tra me. «Prima d’ora non avevo mai visto una mucca in questa luce».

La selezione naturale poteva mostrarmi come le mucche in generale fossero venute in essere, ma, per comprendere come fosse essere quella mucca particolare, era necessario il darwinismo neurale. Quella mucca particolare era resa possibile dall’esperienza, la quale, nel suo cervello, selezionava particolari gruppi neuronali amplificandone l’attività.

 

I mammiferi, gli uccelli e alcuni rettili, ipotizzava Edelman, hanno una «coscienza primaria», ovvero la capacità di creare scene mentali che li aiutano ad adattarsi ad ambienti complessi e mutevoli. Secondo Edelman, tale conquista dipendeva dall’emergere, in un «momento trascendente» dell’evoluzione, di un nuovo tipo di circuito neuronale: un circuito che consentiva l’instaurarsi di connessioni reciproche parallele, massive, tra le mappe neuronali, come pure tra le continue operazioni di mappatura globale che integrano nuove esperienze e ricategorizzano le categorie.

Edelman proponeva poi che, in corrispondenza di un secondo momento trascendente dell’evoluzione, una segnalazione rientrante di livello superiore avesse reso possibile – negli esseri umani, e forse in qualche altra specie, tra cui le scimmie antropomorfe e i delfini – lo sviluppo di una «coscienza di ordine superiore». Quest’ultima conferisce un potere senza precedenti di generalizzazione e riflessione, come pure di riconoscimento del passato e del futuro, così che infine viene raggiunta la coscienza di sé, la consapevolezza di essere un individuo nel mondo.

 

Nel 1992, mi recai a un convegno sulla coscienza al Jesus College di Cambridge, insieme a Gerry. Spesso i suoi libri erano difficili da leggere, ma vederlo e sentirlo parlare trasmetteva a molti, tra il pubblico, un senso di rivelazione.

In quella stessa occasione – non ricordo che cosa avesse innescato lo scambio – Gerry mi disse: «Tu proprio non sei un teorico».

«Lo so» feci io. «Ma sono un ricercatore sul campo, e tu – per il genere di teorizzazione che fai tu – hai bisogno del tipo di lavoro sul campo che faccio io».

Era d’accordo con me.

 

Spesso, nella prassi neurologica quotidiana, mi imbatto in situazioni che si sottraggono completamente alle classiche spiegazioni neurologiche e chiedono a gran voce spiegazioni di un tipo drasticamente diverso; d’altra parte, in termini edelmaniani, molti di questi fenomeni possono essere spiegati come cedimenti, a livello di mappature locali o di ordine superiore, conseguenti a lesioni o patologie nervose.

Quando – dopo la lesione e l’immobilità che seguirono all’incidente in Norvegia – la mia gamba sinistra divenne per me «aliena», le mie conoscenze di neurologia non mi furono d’aiuto; la neurologia classica non aveva nulla da dirmi sul rapporto tra sensazione e conoscenza e tra sensazione e sé; non aveva nulla da dirmi su come, nel caso in cui il flusso delle informazioni neurali venga compromesso, la coscienza e il sé possano perdere un arto e «rinnegarlo», né su come possa poi aver luogo una rapida rimappatura del resto del corpo, tale da escludere quell’arto.

Se l’emisfero destro del cervello subisce un danno grave nelle sue aree sensoriali (parietali), i pazienti possono mostrare una «anosognosia», ovvero una inconsapevolezza dell’esistenza di un problema, benché il lato sinistro del loro corpo sia privo di sensibilità o paralizzato. A volte possono insistere sul fatto che il loro lato sinistro appartiene a «qualcun altro». Per questi pazienti, soggettivamente, lo spazio e il mondo sono interi, anche se in effetti essi vivono in un mondo dimezzato. Per molti anni l’anosognosia fu erroneamente interpretata come un bizzarro sintomo nevrotico, giacché non era possibile comprenderla in termini di neurologia classica. Edelman invece considera una tale condizione come una «patologia della coscienza», un totale cedimento, in un emisfero, della segnalazione rientrante e della mappatura di livello superiore, con una conseguente drastica riorganizzazione della coscienza.

A volte, in seguito a una lesione neurologica, ha luogo una dissociazione tra memoria e coscienza, e rimane soltanto la conoscenza o memoria implicita. Per esempio, il mio paziente Jimmie, il marinaio amnesico, non aveva alcun ricordo esplicito dell’assassinio di Kennedy e quando gli chiedevo se nel ventesimo secolo fosse mai stato assassinato un presidente, diceva: «No, non che io sappia». Ma se gli chiedevo: «Ipoteticamente, allora, se un presidente fosse stato assassinato senza che lei l’avesse saputo, dove pensa che potrebbe essere accaduto: New York, Chicago, Dallas, New Orleans o San Francisco?». Immancabilmente Jimmie «indovinava» correttamente, e rispondeva «Dallas».

Analogamente, pazienti con cecità corticale completa dovuta a un danno massivo delle aree visive primarie affermeranno di non poter vedere nulla, ma è probabile che «indovinino» misteriosamente che cos’hanno davanti: la cosiddetta visione cieca. In tutti questi casi, la percezione e la categorizzazione percettiva si sono conservate, ma sono state separate dalla coscienza di ordine superiore.

Fin dal principio, a livello neuronale, noi siamo profondamente intrisi di individualità. La ricerca ha dimostrato che, anche a livello motorio, un bambino non segue uno schema fisso per imparare a camminare o a protendersi verso gli oggetti: ognuno sperimenta modi differenti per farlo, e nel corso di diversi mesi scopre o seleziona le proprie soluzioni. Quando cerchiamo di individuare la base neurale di questo apprendimento individuale, possiamo immaginare una «popolazione» di movimenti (e i loro correlati neurali) rafforzata o sfoltita dall’esperienza.

Considerazioni simili sorgono relativamente alla guarigione e alla riabilitazione dopo un ictus o altre lesioni. Non vi sono regole; non esiste una via prestabilita per il recupero; ogni paziente deve scoprire o creare i propri schemi motori o percettivi, le sue personali soluzioni alle sfide che sta affrontando, e il compito di un terapeuta sensibile è di aiutarlo in quest’impresa.

Nel suo significato più ampio, il darwinismo neurale implica che – volenti o nolenti – noi siamo destinati a una vita di individualità e di sviluppo personale, e a creare le nostre vie individuali lungo le quali percorrere la vita.

 

Quando lessi Darwinismo neurale, mi chiesi se avrebbe cambiato il volto delle neuroscienze nello stesso modo in cui la teoria di Darwin aveva cambiato quello della biologia. La risposta sintetica – benché inadeguata – è che non lo ha fatto, anche se oggi innumerevoli scienziati danno per scontate molte delle idee di Edelman senza riconoscere, o forse senza nemmeno sapere, che sono di Edelman. In questo senso, il suo pensiero, anche se in assenza di un riconoscimento esplicito, sta modificando le fondamenta stesse delle neuroscienze.

Negli anni Ottanta la teoria di Edelman era talmente innovativa che non poteva essere facilmente accolta in nessuno dei modelli – dei paradigmi – allora esistenti nelle neuroscienze: io credo che sia stato proprio questo, insieme alla scrittura a tratti densa e difficile di Edelman, a impedirne l’accettazione su vasta scala. La teoria di Edelman era «prematura», a tal punto in anticipo sul suo tempo, così complessa e bisognosa di nuovi modi di pensare, che negli anni Ottanta incontrò resistenza o fu ignorata; nei prossimi venti o trent’anni, però, con le nuove tecnologie, ci troveremo in una posizione favorevole per dimostrare o confutare i suoi princìpi essenziali. Per me, essa rimane una delle spiegazioni più potenti ed eleganti del modo in cui noi esseri umani, e il nostro cervello, costruiamo il nostro sé e il nostro mondo profondamente individuali.

 

 

 

81. Rimase affascinato quando gli mostrai i complessi motivi che è possibile visualizzare durante un’aura emicranica: esagoni e molte forme geometriche ripetute, frattali compresi. Riuscì a simulare alcuni di questi motivi fondamentali su una rete neurale, e nel 1992 includemmo questo lavoro in un’edizione riveduta di Emicrania. L’intuizione fisica e matematica di Ralph lo condusse anche a ritenere che il caos e l’auto-organizzazione potessero avere un’importanza fondamentale in processi naturali di ogni genere, rilevanti per ogni tipo di scienza, dalla meccanica quantistica alle neuroscienze, e questo portò, nel 1990, a un’altra collaborazione tra noi: «Caos e Risvegli», un’appendice a un’edizione riveduta di Risvegli.

82. Qualche giorno dopo Crick mi rispose chiedendo ulteriori dettagli sulla differenza tra i miei pazienti emicranici e il caso straordinario di una donna descritta da Josef Zihl e dai suoi colleghi in un articolo del 1983. La paziente di Zihl, per esempio, non poteva versare una tazza di tè: vedeva infatti appeso al beccuccio della teiera un arco di liquido immobile – «congelato». Alcuni dei miei pazienti emicranici avevano avuto esperienza di questi «fotogrammi» in rapida successione, mentre a quanto pare, per la paziente di Zihl, che aveva acquisito la cecità al movimento in seguito a un ictus, i fotogrammi immobili duravano molto più a lungo, forse diversi secondi ciascuno. In particolare, Crick voleva sapere se nei miei pazienti emicranici le immagini fisse successive si presentassero all’interno dell’intervallo tra movimenti oculari consecutivi oppure soltanto tra tali intervalli. «Mi piacerebbe moltissimo discutere con lei di questi argomenti» scriveva «e anche dei suoi commenti sul colore quale costrutto cerebro-mentale».
Rispondendo a Crick, mi dilungai sulle profonde differenze tra i miei pazienti emicranici e la donna cieca al movimento descritta da Zihl.

83. Il pubblico di Gerry era rapito ma al tempo stesso sconcertato, e quando lui disse: «The mind is not a computer, the world is not a piece of tape» [La mente non è un computer, il mondo non è uno spezzone di nastro], gli italiani presenti in sala fraintesero, e capirono «The world is not a piece of cake» [Il mondo non è un pezzo di torta (ma anche: il mondo non è una passeggiata, non è un gioco da ragazzi)]. Questo innescò, nei corridoi, appassionate discussioni su che cosa il grande professore americano avesse inteso dire con quell’affermazione gnomica.

84. In origine Edelman era stato il pioniere di una teoria selezionista riferita al sistema immunitario – lavoro per il quale gli venne conferito il premio Nobel – e poi, a metà degli anni Settanta, cominciò ad applicare concetti analoghi al sistema nervoso.