UNA QUESTIONE DI IDENTITÁ

Per scrivere Su una gamba sola mi occorsero quasi dieci anni, tuttavia in quel periodo mi occupai anche di altri argomenti; tra di essi, il più importante fu la sindrome di Tourette.

Nel 1971 ero stato ricontattato da Israel Shenker, il giornalista del «New York Times» che era venuto al Beth Abraham nell’estate del 1969 e aveva poi pubblicato un lungo articolo sugli effetti iniziali della L-dopa. Adesso mi richiamò per sapere come stessero i pazienti.

Molti di loro, risposi io, continuavano a godere di un «risveglio» prolungato grazie alla L-dopa, ma ve n’erano alcuni che stavano reagendo al farmaco in modo strano e complicato. Soprattutto, dissi, avevano dei tic. Molti avevano cominciato a compiere movimenti e a fare rumori – talora a pronunciare imprecazioni – subitanei e convulsivi, che prorompevano all’improvviso; ritenevo probabile che questi fenomeni derivassero da un’attivazione esplosiva di meccanismi sottocorticali danneggiati dalla malattia originaria e adesso eccitati dalla continua stimolazione con la L-dopa. Accennai a Shenker che adesso, con tutti quei tic multipli e quelle imprecazioni, alcuni pazienti postencefalitici mostravano qualcosa di simile a una rara condizione patologica denominata «sindrome di Gilles de la Tourette». Non mi era mai capitato di vedere qualcuno che l’avesse, ma avevo letto qualcosa in merito.

E così Shenker venne nuovamente in ospedale per osservare e intervistare i pazienti. La notte prima che uscisse il suo articolo, mi precipitai a un’edicola su Allerton Avenue per avere una delle prime copie del giornale del mattino.

Shenker aveva descritto minuziosamente le sfumature di quella che definì «una stupefacente topografia di tic». Osservò che una donna con un tic di ammiccamento riusciva a commutarlo in un altro tic in cui invece di strizzare gli occhi serrava il pugno, mentre un’altra paziente poteva liberarsi dei propri tic concentrandosi su azioni come scrivere a macchina o lavorare a maglia.

Dopo la pubblicazione dell’articolo, cominciai a ricevere moltissime lettere da persone con tic multipli che desideravano un parere medico. Pensavo che sarebbe stato improprio visitarle, perché in un certo senso sarebbe equivalso ad approfittare dell’articolo comparso su un giornale. (Qui, forse, la mia reazione faceva eco a quella di mio padre, qualche mese prima, alla recensione di Emicrania uscita sul «Times»). Ci fu però un giovane molto interessante e insistente che accettai di visitare. Ray era pieno di tic convulsivi e di quelli che lui chiamava «spirito ticchico e tic spiritosi» (si riferiva a se stesso come a «Ray dai mille tic»). Ero enormemente affascinato da quanto gli accadeva: non soltanto le raffiche di tic, ma anche la sua velocità di pensiero e di spirito, come pure i modi che aveva escogitato per far fronte alla sua Tourette. Ray aveva un buon lavoro ed era felicemente sposato, ma non poteva camminare per strada senza che tutti lo guardassero; era il bersaglio di sguardi sbigottiti o di occhiate di disapprovazione da quando aveva cinque anni.

A volte Ray pensava al suo sé tourettico (che chiamava «Mr. T.») come a un’entità distinta dal suo sé «reale», proprio come Frances D., una donna postencefalitica normalmente schiva e riservata, sentiva di avere un «sé insolente da L-dopa» molto diverso dal suo sé «reale», bene educato.

Il sé tourettico di Ray lo rendeva impulsivo e disinibito, e gli donava in genere un’insolita prontezza di reazione e risposta. Vinceva quasi sempre al gioco del ping-pong, e non tanto per la tecnica, quanto per la rapidità e l’imprevedibilità straordinarie con cui effettuava servizi e rinvii. (Qualcosa di simile si era verificato ai tempi in cui i pazienti postencefalitici – prima di essere avvolti dal parkinsonismo e dalla catatonia – tendevano a essere ipercinetici e impulsivi, e in quello stato riuscivano a battere dei giocatori normali in una partita di football). La velocità fisiologica e l’impulsività di Ray, unite al suo senso musicale, gli consentivano di essere uno straordinario improvvisatore alle percussioni.

Quello che avevo osservato nei pazienti postencefalitici durante l’estate e l’autunno del 1969 – pensavo – non l’avrei rivisto mai più: adesso, però, dopo aver conosciuto Ray, capii che la sindrome di Tourette era un’altra materia di studio, forse ugualmente rara e ricca (e per certi versi anche simile).

Il giorno dopo aver conosciuto Ray, pensai di aver individuato, per le strade di New York, tre persone con la stessa sindrome, e il giorno dopo altre due. Questo mi sorprese, perché la sindrome di Tourette era descritta come un disturbo estremamente raro, che colpiva forse una o due persone su un milione. A quel punto, però, compresi che doveva essere almeno mille volte più comune. Ero proprio stato cieco a non vederla prima, pensai; trascorrere un po’ di tempo con Ray, d’altra parte, aveva – per così dire – sintonizzato il mio occhio di neurologo in modo che potessi vedere la Tourette.

Pensavo dovessero esserci molte altre persone come Ray, e fantasticai di metterle in contatto, in modo che potessero riconoscere la propria affinità fisiologica e psicologica, e formare una sorta di confraternita. Nella primavera del 1974 scoprii che questa fantasia era diventata una realtà: due anni prima, a New York, un gruppo di genitori i cui figli avevano la Tourette aveva fondato la Tourette Syndrome Association (TSA), che adesso comprendeva anche una ventina di pazienti adulti. Nel 1973 avevo visitato una bambina con la sindrome, e suo padre, uno psichiatra che era tra i membri fondatori della TSA, mi invitò a un incontro dell’associazione.

Le persone con sindrome di Tourette si dimostrano spesso insolitamente accessibili all’ipnosi e alla suggestione, e sono inclini alla ripetizione e all’imitazione involontarie. Lo constatai a quel primo incontro della TSA quando, a un certo punto, un piccione volò su un davanzale, fuori dalla sala delle conferenze. Aprì e chiuse le ali, le sbatté, e poi si posò tranquillo. Di fronte a me erano sedute sette o otto persone con sindrome di Tourette, e ne vidi diverse compiere con braccia e scapole movimenti simili a battiti d’ala, mimando il piccione, o imitandosi tra loro.

Verso la fine del 1976, a un incontro della TSA, fui avvicinato da John P., un giovane che mi disse: «Io sono il più fantastico tourettico del mondo. Ho la Tourette più complessa che le possa capitare di vedere. Posso insegnarle cose, sulla Tourette, che nessun altro conosce. Vorrebbe avermi come esemplare da studiare?». Quell’invito, in cui presunzione e autodenigrazione erano singolarmente mescolate, mi colse un po’ di sorpresa, ma gli proposi di incontrarci nel mio studio per poi decidere sull’utilità di un ulteriore approfondimento. John P. mi si presentò non come una persona bisognosa di aiuto o di terapia, ma come un progetto di ricerca.

Constatata la velocità e la complessità dei suoi tic e delle sue verbalizzazioni, pensai che durante i nostri incontri sarebbe stato utile avere a portata di mano un sistema di registrazione video, e così feci in modo di noleggiare un Portapak della Sony, che all’epoca era il più compatto disponibile (pesava circa 9 chili).

Facemmo due sedute esplorative, e John tenne fede a quanto mi aveva detto. Effettivamente non avevo mai visto un quadro grave o complesso come quello che lo affliggeva e con cui era costretto a vivere, né avevo mai sentito o letto nulla che nemmeno gli si avvicinasse; dentro di me, soprannominai la sua sindrome «super-Tourette». Fui felicissimo di avere la videocamera in funzione, perché alcuni dei suoi tic e dei suoi strani comportamenti – a volte due, o anche di più, allo stesso tempo – si dispiegavano in una frazione di secondo: decisamente troppo per riuscire a coglierli a occhio nudo, ma con il registratore potevo catturare tutto e poi riprodurlo al rallentatore, oppure fotogramma per fotogramma. Potevo anche riguardare il video insieme a John, il quale spesso era in grado di dirmi che cosa stesse pensando o provando nel momento in cui eseguiva ciascun tic. Procedendo così, pensavo, era forse possibile effettuare un’analisi dei tic analoga all’analisi dei sogni. I tic, forse, potevano essere una «via regia» per l’inconscio.

In seguito abbandonai quest’idea: mi sembrava infatti che la maggior parte dei tic o dei comportamenti ticcosi (affondi, salti, vocalizzazioni, eccetera) originasse sotto forma di scariche reattive spontanee a livello del tronco cerebrale o del corpo striato e che, in questo senso, fosse determinata biologicamente, ma non psichicamente. Vi erano tuttavia ovvie eccezioni, soprattutto nell’ambito della coprolalia, ovvero dell’uso compulsivo e convulsivo di imprecazioni e parole scurrili (e del suo equivalente motorio, la coproprassia, che comporta gesti osceni). A John piaceva attirare l’attenzione, provocare o offendere gli altri; nelle persone con sindrome di Tourette non è insolita la compulsione a saggiare i confini sociali, a mettere alla prova i limiti della correttezza.

Mi colpì, in particolare, uno strano suono che John emetteva spesso insieme ai suoi tic. Quando lo registrai e poi lo riprodussi rallentato, allungandolo, scoprii che si trattava di una parola tedesca – «verboten!» – compressa in un unico rumore inintelligibile per effetto della sua rapidità ticcosa. Quando lo accennai a John, mi disse che suo padre parlava in tedesco e lo ammoniva in quel modo ogni volta che, quand’era bambino, eseguiva un tic. Inviai una copia del nastro a Lurija che rimase affascinato da quella che definì «l’introiezione della voce paterna come tic».

Molti tic e comportamenti ticcosi – finii per credere – erano sospesi tra l’involontario e l’intenzionale, in equilibrio da qualche parte tra contrazioni riflesse e azioni: di origine sottocorticale, ma a volte carichi di significato e intenzionalità, cosciente o subcosciente che fosse.

In un giorno d’estate, mentre John era nel mio studio, dalla finestra aperta entrò una farfalla. John seguì il suo volo librato a zig-zag con improvvisi scatti erratici della testa e degli occhi, mentre dalla bocca riversava un fiume di vezzeggiativi e imprecazioni: «Voglio baciarti, voglio ucciderti» ripeteva; poi abbreviò il tutto: kiss you, kill you, kiss you, kill you – ti bacio, ti ammazzo. Dopo due o tre minuti di questo comportamento – fintanto che la farfalla continuava a svolazzare in giro John sembrava incapace di fermarsi –, io dissi, scherzando: «Se si stesse concentrando sul serio, potrebbe ignorare la farfalla perfino se le si posasse sul naso».

Nel momento stesso in cui lo dissi, lui si colpì bruscamente la punta del naso come per scacciare un’enorme farfalla che gli si fosse posata sopra. Mi chiesi se la sua immaginazione tourettica, di un’intensità eccessiva, non fosse sconfinata nell’allucinazione, creando una farfalla fantasma che, dal punto di vista percettivo, non era meno reale di una farfalla vera. Era un po’ come se davanti a me fosse stato inscenato un piccolo incubo in uno stato di piena coscienza.

Nei primi tre mesi del 1977 lavorai con John a ritmo serrato e ne trassi un senso di meraviglia, scoperta ed emozione intellettuale più intenso di qualsiasi altra cosa avessi provato dall’epoca dei risvegli dei pazienti postencefalitici, nell’estate del 1969. Quell’emozione riaccese in me, vividissima, la sensazione che avevo provato dopo l’incontro con Ray, e cioè di dover scrivere un libro sulla sindrome di Tourette. Riflettei sulla possibilità di un libro in cui John fosse il personaggio centrale: forse un collage di diverse parti, oppure la descrizione di un «giorno reale» nella vita di una persona con una super-Tourette.

Dopo un inizio tanto promettente, ero convinto che un esame approfondito potesse essere immensamente istruttivo, tuttavia misi in guardia John, facendogli presente che uno studio di quel genere sarebbe stato essenzialmente un’esplorazione, un’indagine, e che non mi era possibile promettergli alcun beneficio terapeutico. Procedendo in quel modo, lo studio avrebbe potuto essere affine a Una memoria prodigiosa di Lurija, o all’Interpretazione dei sogni di Freud (nei mesi della nostra «analisi della sindrome di Tourette» tenevo questi due libri costantemente al mio fianco).

Vedevo John nel mio studio ogni sabato, e registravo le nostre sedute con due videocamere simultaneamente, una messa a fuoco sulla faccia e sulle mani di John, l’altra che invece ci riprendeva entrambi, con un angolo più ampio.

Il sabato mattina, quando veniva al mio studio in auto, spesso John si fermava lungo la strada in un negozio di alimentari italiano, dove si comprava un panino e una Coca. Il negozio era molto frequentato, sempre pieno di gente, persone che John riusciva a descrivere, o piuttosto a impersonare, in un modo incredibile, dando loro vita. Stavo leggendo Balzac, e citai a John la sua affermazione: «Ho una società, tutta intera, nella mia testa».

«Anch’io,» disse John «ma sotto forma di imitazione». Spesso queste imitazioni e questi mimetismi istantanei e involontari avevano il sapore di parodie o caricature, e a volte John si attirava gli sguardi offesi o meravigliati di chi gli stava intorno, espressioni che a sua volta lui imitava o metteva in caricatura. Seduto nel mio studio, mentre lo ascoltavo descrivere e lo vedevo mettere in atto quelle scene, cominciai a pensare che probabilmente dovevo uscire con lui, nel mondo esterno, per testimoniare in prima persona quelle interazioni.56 Esitai molto a fare una cosa del genere; non volevo metterlo a disagio, farlo sentire costantemente osservato (o, se mi fossi portato dietro la Portapak, effettivamente sotto l’occhio della telecamera), né volevo intromettermi troppo nella sua vita al di fuori della nostra routine del sabato mattina. Ciò nonostante, pensavo che, se fosse stato possibile registrare un giorno o una settimana della vita di un super-tourettico come lui, il risultato sarebbe stato di grandissimo valore: avrebbe potuto fornire una prospettiva antropologica o etologica per integrare le osservazioni cliniche e fenomenologiche effettuate in studio.

Contattai un gruppo di documentaristi specializzati nella produzione di materiali di argomento antropologico: erano appena tornati dalla Nuova Guinea, dove avevano filmato una tribù del luogo – e l’idea di una sorta di antropologia clinica li incuriosiva. Per una settimana di riprese, però, chiedevano cinquantamila dollari, e io non li avevo: era più di quanto guadagnassi in un anno intero.

Ne parlai con Duncan Dallas (sapevo che talvolta la Yorkshire Television offriva dei finanziamenti per la produzione di documentari sul campo) e lui disse: «Quasi quasi faccio un salto a vederlo...». Duncan arrivò un paio di settimane dopo e ammise che John era diverso da qualsiasi cosa avesse visto prima, si esprimeva molto bene ed era bravo a presentare se stesso. Duncan voleva fare un intero documentario su di lui, e John – che aveva visto il documentario di Risvegli – era emozionato all’idea. Stavolta, però, io ero meno entusiasta e un po’ disturbato da quelli che, da parte di John, sembravano un entusiasmo e forse delle aspettative esagerati. Volevo continuare il nostro silenzioso lavoro esplorativo, ma adesso lui stava sognando di essere il protagonista di un documentario per la televisione.

Aveva detto che gli piaceva «esibirsi», creare delle «scene», essere al centro dell’attenzione, ma che in seguito evitava sempre di tornare nei luoghi dove aveva creato quelle scene. Come avrebbe reagito, adesso, al fatto che alcune delle sue «scene» o «performance» – esibizioniste, ma derivanti dai suoi tic – sarebbero state catturate su una pellicola, assumendo così una forma permanente che lui non avrebbe potuto cancellare? Tutto questo fu discusso da noi tre nei minimi dettagli durante la visita esplorativa di Duncan, il quale si premurò di assicurare che John sarebbe potuto andare in Inghilterra e avere una parte nell’editing del film a qualsiasi stadio.

Le riprese furono effettuate nell’estate del 1977; John nella sua forma migliore, pieno di tic e bizzarrie, motivato ma anche giocoso: quando aveva un pubblico faceva il pagliaccio, improvvisava e imitava, ma parlava anche con attenzione, in modo riflessivo e spesso molto toccante della vita di una persona nelle sue condizioni. Tutti noi pensavamo che ne sarebbe risultato un documentario eccezionale, ma al tempo stesso equilibrato e molto umano.

Dopo le riprese, John e io tornammo alle nostre tranquille sedute, ma adesso osservavo in lui una certa tensione – un trattenersi che non gli avevo mai visto prima – e, quando fu invitato ad andare a Londra per prendere parte attiva al lavoro di editing, declinò.

Il documentario fu trasmesso dalla televisione inglese al principio del 1978, attirò molta attenzione, sempre in modo positivo, e John ricevette un mucchio di lettere da spettatori che si dispiacevano per lui e lo ammiravano. In un primo tempo, orgoglioso del documentario, John lo mostrò ad amici e vicini; poi però ne fu profondamente turbato e soprattutto maturò rabbia e risentimento verso di me, dicendo che l’avevo «venduto» mettendolo nelle mani dei media (dimenticando che era stato lui a desiderare, più di tutti, che si girasse un film, mentre io ero quello che aveva consigliato prudenza). Voleva che il documentario fosse ritirato e mai più proiettato, e questo valeva anche per i video che avevo fatto io (ormai più di un centinaio). Se il documentario fosse stato trasmesso di nuovo, se uno qualsiasi dei nastri che lo riprendevano fosse mai stato mostrato, disse, sarebbe venuto a cercarmi e mi avrebbe ucciso. Io ero profondamente scioccato e sbigottito da tutto questo – anche spaventato –, ma acconsentii alle sue richieste e il documentario non fu trasmesso mai più.

Purtroppo, a John questo non bastò; cominciò a farmi telefonate minacciose, all’inizio costituite da due parole: «Ricorda Tourette»; infatti – e John sapeva che io lo sapevo benissimo – Gilles de la Tourette era stato ferito da una sua paziente con un colpo di pistola alla testa.57

Viste le circostanze, non potevo mostrare alcuna parte delle registrazioni di John nemmeno ai miei colleghi, e questo fu estremamente frustrante giacché ritenevo si trattasse di materiale di grandissimo valore che avrebbe potuto fare luce non solo su molti aspetti della sindrome di Tourette, ma anche su certi lati delle neuroscienze e della natura umana esplorati solo di rado. Pensavo che avrei potuto scrivere un intero libro basato su cinque secondi soltanto di quelle registrazioni, ma non lo feci mai.

Ritirai anche un articolo su John, che avevo scritto per «The New York Review of Books»; era già in bozza, ma adesso temevo che pubblicarlo lo avrebbe fatto infuriare.

Capii qualcosa di più quando, nell’autunno del 1977, il documentario di Risvegli fu mostrato a un congresso psichiatrico, e la sua proiezione venne continuamente interrotta da qualcuno che poi si rivelò essere la sorella di John. In seguito parlammo, e lei disse che trovava «scioccanti» il documentario e il modo in cui esso esponeva pazienti del genere. Aveva paura che suo fratello venisse esposto in televisione; le persone come lui, aggiunse, non dovrebbero essere mostrate. Io cominciai ad apprezzare, troppo tardi, la reale portata dell’ambivalenza di John nei confronti delle riprese: la sua compulsione a essere visto e mostrato, a esibire se stesso, ma anche a nascondersi alla vista.

 

 

 

Nel 1980, come tregua dalle mie vane battaglie con il libro sulla gamba, scrissi un pezzo su Ray, l’uomo affascinante, spiritoso e ticcoso che visitavo e seguivo da quasi dieci anni. Ero ansioso di conoscere le sue reazioni su quanto avevo scritto, così gli chiesi come si sentisse all’idea della pubblicazione del pezzo, e mi offrii di leggerglielo.

«Ma no» rispose. «Va bene così. Non occorre».

Quando insistetti, mi invitò a cena a casa sua, così dopo avrei potuto leggere l’articolo a lui e alla moglie. Mentre leggevo, Ray ebbe moltissimi tic e contrazioni, e a un certo punto sbottò: «Certo che si è preso qualche libertà!».

Io mi fermai ed estrassi una matita rossa dicendo: «Che cosa devo cancellare? Sta a lei decidere».

Ma lui disse: «Vada avanti – continui a leggere».

Quando arrivai alla fine, mi disse: «Essenzialmente è la verità. Ma non lo pubblichi qui. Lo pubblichi a Londra».

Inviai il pezzo a Jonathan Miller, che lo apprezzò e lo passò a Mary-Kay Wilmers, la quale (insieme a Karl Miller, il cognato di Jonathan) aveva recentemente fondato la «London Review of Books».

Quello di «Ray dai mille tic» era un tipo di scrittura diverso da qualsiasi cosa avessi fatto in precedenza. Fu la prima storia di un caso, narrato estesamente, che avessi scritto a proposito del vivere una vita piena nonostante una condizione neurologica complessa: l’accoglienza che gli fu riservata mi incoraggiò a scrivere altre storie dello stesso tipo.

 

Nel 1983, Elkhonon Goldberg, un amico e collega che aveva studiato a Mosca sotto la guida di Lurija, mi chiese se volevo unirmi a lui nel tenere un seminario sulla neuropsicologia, il nuovo campo di studi di cui Lurija era stato un pioniere, all’Albert Einstein College of Medicine.

Quell’incontro era dedicato alle agnosie – percezioni o mispercezioni spogliate di significato –, e a un certo punto Goldberg si voltò verso di me e mi chiese se potevo fare un esempio di agnosia visiva. Immediatamente pensai a uno dei miei pazienti, un insegnante di musica che aveva perso la capacità di riconoscere visivamente i suoi allievi (o chiunque altro). Raccontai di come a volte il dottor P. accarezzasse idranti o parchimetri sulla «testa» scambiandoli per bambini, oppure si rivolgesse in termini amichevoli ai pomelli dei mobili e rimanesse meravigliato nel non ricevere risposta. A un certo punto, dissi, aveva perfino scambiato la testa di sua moglie per un cappello. Gli studenti, benché capissero la gravità del caso, non poterono fare a meno di ridere di questa situazione comica.

Fino allora non avevo pensato di elaborare i miei appunti sul dottor P., ma raccontare la sua storia agli studenti mi fece tornare in mente il nostro incontro, e quella sera stessa scrissi la storia del suo caso. Intitolai il pezzo «L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello» e lo inviai alla «London Review of Books».

Non pensavo che quel pezzo potesse dare il titolo a un’intera raccolta di storie di casi.

 

Nell’estate del 1983, andai per un mese al Blue Mountain Center, un ritiro per artisti e scrittori. Si trovava su un lago meraviglioso per nuotare, e avevo con me la mountain bike. Non mi ero mai trovato circondato da scrittori e artisti, e mi piacque molto la combinazione delle giornate solitarie trascorse a scrivere e a pensare, con le cene conviviali insieme agli altri residenti, la sera.

Per le prime due settimane trascorse a Blue Mountain, però, mi ritrovai completamente arenato, e in uno stato di grande sofferenza: avevo esagerato con la bicicletta, e la schiena mi si era bloccata. Il sedicesimo giorno mi capitò di tirar fuori, per leggerla, l’autobiografia di Luis Buñuel, e trovai una frase in cui l’autore dà voce alla propria paura di perdere la memoria e l’identità, come era accaduto alla sua vecchia madre, colpita da demenza. Questo riattivò all’istante i miei ricordi di Jimmie, un marinaio amnesico che avevo cominciato a visitare negli anni Settanta. Mi misi immediatamente al lavoro, passai dodici ore a scrivere su di lui, e al crepuscolo avevo finito la sua storia, «Il marinaio perduto». Dal diciassettesimo al trentesimo giorno non scrissi più nulla. Quando mi chiedevano se il mio soggiorno al Blue Mountain fosse stato «produttivo» non sapevo bene che cosa rispondere: avevo avuto un unico giorno straordinariamente produttivo, e ventinove di blocco o sterili.

Proposi il pezzo su Jimmie a Bob Silvers della «New York Review of Books»; gli piacque, ma mi fece una richiesta interessante. «Posso vedere i suoi appunti sul paziente?» mi chiese. Lesse tutti i miei referti, scritti ogni volta che avevo visitato Jimmie, e poi disse: «Molti di questi appunti sono più intensi e immediati del pezzo che ha dato a me. Perché non inserisce parte dei suoi appunti e non intreccia tutto insieme, in modo da avere la sua reazione immediata subito dopo aver visto il paziente, insieme a quella più riflessiva, scritta quando riconsidera il caso a distanza di anni?».58 Seguii il suo consiglio, e Silvers pubblicò il pezzo nel febbraio del 1984. Questo per me fu un grande incoraggiamento, e nel corso dei diciotto mesi successivi gli inviai altri cinque pezzi, che avrebbero formato il nucleo di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Il sostegno e l’amicizia di Bob, oltre che il suo lavoro di editing infinitamente attento e costruttivo, sono leggendari; una volta, mentre ero in Australia, mi telefonò per chiedermi che ne pensassi sulla sostituzione di una virgola con un punto e virgola. E mi ha spinto a scrivere molti saggi a cui altrimenti forse non mi sarei dedicato.

Continuai a pubblicare pezzi sciolti (alcuni sulla «New York Review of Books», altri su riviste diverse, come «The Sciences» e «Granta») in un primo tempo senza pensare minimamente che potessero in qualche modo essere raccolti. Colin e Jim Silberman, il mio editore americano, ritenevano che in essi vi fosse una sorta di unità di toni e sentimenti, ma io non ero sicuro che avessero la coerenza necessaria per un libro.

Negli ultimi quattro giorni del 1984, scrissi quelli che sarebbero diventati gli ultimi quattro pezzi di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, concependoli come un quartetto, magari perfino un piccolo libro da intitolare «Il mondo dei semplici».

Il mese successivo feci visita al mio amico Jonathan Mueller, che stava lavorando come neurologo al VA Hospital di San Francisco. Mentre passeggiavamo intorno al Presidio, dov’era situato l’ospedale, mi disse del suo interesse per il senso dell’olfatto. Io allora gli raccontai due storie. Una riguardava un uomo che, nonostante la distruzione totale e permanente del senso dell’olfatto, dovuta a un trauma cranico, aveva cominciato a immaginare (o forse erano allucinazioni) odori contestualmente appropriati, per esempio l’odore del caffè quando vedeva che lo stavano preparando. L’altra storia riguardava uno studente di medicina il quale, nel corso di una mania indotta da amfetamine, aveva sviluppato uno straordinario potenziamento del senso dell’olfatto (questa, in realtà, era una mia esperienza personale, anche se in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello chiamai lo studente «Stephen D.»). Il mattino dopo, nel corso di un lunghissimo pasto in un ristorante vietnamita, scrissi entrambe le storie raccogliendole sotto un unico titolo («Il cane sotto la pelle») e le inviai ai miei editori. Avevo avuto l’impressione che al libro mancasse qualcosa, e adesso la storia del «Cane» forniva il pezzo mancante.

E con questo percepii un meraviglioso senso di completamento e liberazione. Avevo terminato il mio libro di «racconti clinici», ero un uomo libero, e potevo prendermi una vera vacanza, cosa che sentivo di non aver fatto da dodici anni. Impulsivamente, decisi di visitare l’Australia; non ci ero mai stato, e mio fratello Marcus viveva a Sydney con la moglie e i figli. Avevo conosciuto la famiglia di Marcus nel 1972, quando erano venuti in Inghilterra per le nozze d’oro dei miei genitori, ma da allora non li avevo più visti. Ero a San Francisco: camminai fino a Union Square dove la Qantas aveva una sede, presentai il mio passaporto e dissi che volevo prendere il primo volo disponibile per Sydney. Nessun problema, fecero quelli: c’erano molti posti e avevo giusto il tempo per tornare di corsa all’albergo, prendere le mie cose e dirigermi all’aeroporto.

Era il più lungo viaggio in aeroplano che avessi mai fatto, ma poiché scrivevo tutto emozionato il mio diario il tempo passò velocemente e quattordici ore dopo arrivammo a Sydney; mentre volavamo in cerchio sulla città, riconobbi il famoso ponte e l’Opera House. Al controllo passaporti mostrai il mio documento e stavo per proseguire, quando il funzionario disse: «E il suo visto?».

«Visto?» feci io. «Quale visto? Nessuno mi ha parlato di un visto». Se prima era cordiale, ora all’improvviso il funzionario divenne molto serio e si irrigidì. Perché stavo venendo in Australia? C’era qualcuno che poteva garantire per me? Risposi che mio fratello e la sua famiglia erano in aeroporto e mi stavano aspettando. Mi dissero di sedere mentre loro lo cercavano e intanto controllavano le mie credenziali. Le autorità mi concessero infine un visto provvisorio di dieci giorni, ma mi avvertirono: «Non lo faccia mai più, altrimenti la rispediremo direttamente negli States».

Quei dieci giorni in Australia mi trasmisero una forte sensazione di gioiosa scoperta: la scoperta di un fratello che conoscevo a malapena (Marcus aveva dieci anni più di me ed era partito per l’Australia nel 1950); di una cognata, Gay, con la quale mi sentii immediatamente a mio agio (condivideva le mie passioni per i minerali e le piante, per il nuoto e le immersioni); e di un nipote e una nipote, bambini, che si legarono al loro nuovo zio (ai loro occhi, uno zio esotico).

Con Marcus, cercai e trovai un rapporto che non avevo mai avuto davvero con i miei fratelli in Inghilterra. Era una relazione che non sarebbe stata possibile con David, troppo diverso da me – elegante, socievole, pieno di fascino –, o con Michael, perso com’era negli abissi della schizofrenia. Con Marcus – tranquillo, colto, riflessivo e cordiale – sentii che era possibile un rapporto più profondo.

E poi mi innamorai: di Sydney, e in seguito della foresta pluviale di Daintree e della Grande Barriera corallina nel Queensland, che trovai di una bellezza – e di una stranezza – sconvolgenti. Vedere la flora e la fauna australiane, con la loro unicità, mi fece riflettere sul fatto che Darwin fosse rimasto così sbalordito dalle piante e dagli animali di quei luoghi da scrivere nel suo diario: «Devono essere stati all’opera due Creatori distinti».

 

Dopo i grandi alti e bassi che Colin e io avevamo attraversato con Risvegli e Su una gamba sola, il nostro rapporto divenne più leggero e più semplice. Se l’editing dell’ultimo libro aveva quasi ucciso entrambi, lavorare sul Cappello – così lo chiamavamo – fu una passeggiata. Molti pezzi erano già stati pubblicati, e Colin, oltre a fare l’editing degli altri, suggerì di suddividerli in quattro gruppi, ciascuna parte con la sua introduzione.

Colin pubblicò il libro nel novembre del 1985, solo sei mesi dopo il completamento del manoscritto; l’edizione statunitense uscì nel gennaio del 1986, con una modesta tiratura iniziale di quindicimila copie.

Il mio libro sulla gamba non aveva venduto molto bene, e nessuno si aspettava che un libro di storie di argomento neurologico sarebbe stato un successo commerciale. Dopo qualche settimana, invece, Summit dovette fare una ristampa, e di lì a poco un’altra ancora. La popolarità del libro crebbe grazie al passaparola e in aprile il Cappello comparve, del tutto inaspettato, nell’elenco dei best-seller del «New York Times». Pensavo che fosse un errore, oppure un’impennata fugace delle vendite, ma il libro rimase in classifica per ventisei settimane.

A meravigliarmi e commuovermi, ancora di più di essere autore di un «best-seller», fu la marea di lettere, molte delle quali scritte da persone che avevano esse stesse sperimentato i problemi descritti nel Cappello (prosopagnosia, allucinazioni musicali, eccetera), ma che in precedenza non avevano mai confidato a nessuno di averli – a volte nemmeno a se stessi. Altri mi chiedevano notizie sulle persone di cui avevo scritto.

«Come sta Jimmie, il Marinaio perduto?» scrivevano. «Me lo saluti. Gli faccia tanti auguri da parte mia». Jimmie per loro era reale, e lo stesso valeva per molte delle altre figure presenti nel libro; la realtà delle loro situazioni e delle lotte che combattevano toccò il cuore, e anche la mente, di molti lettori. Lettori che riuscivano a immaginarsi nei panni di Jimmie, mentre la situazione tragica ed estrema dei pazienti descritti in Risvegli era inconcepibile, o quasi, anche per l’immaginazione più empatica.

Uno o due recensori ritennero che io mi stessi specializzando sul «bizzarro» o sull’«esotico», ma io pensavo fosse vero l’opposto. Pensavo che le storie dei miei casi fossero «esemplari» – mi piaceva molto il principio di Wittgenstein, secondo il quale un libro dovrebbe consistere di esempi –, e speravo che descrivendo casi di gravità eccezionale si potesse far luce, forse, non solo sull’impatto e sull’esperienza della malattia neurologica, ma anche su aspetti essenziali, e magari inattesi, dell’organizzazione e del funzionamento del cervello.

 

Benché dopo la pubblicazione di Risvegli Jonathan Miller mi avesse detto «adesso sei famoso», in realtà non era così. In Inghilterra Risvegli aveva ricevuto elogi e un premio letterario, ma negli Stati Uniti passò quasi inosservato (fu recensito una volta sola, da Peter Prescott, su «Newsweek»). Con l’improvvisa popolarità del Cappello, invece, ero entrato nella sfera pubblica, che lo volessi oppure no.

Di sicuro, c’erano dei vantaggi. All’improvviso ero in contatto con moltissime persone; avevo la possibilità di aiutare, ma anche di nuocere; qualunque cosa scrivessi non poteva più passare inosservata. Mentre scrivevo Emicrania, Risvegli e Su una gamba sola, non avevo mai pensato sul serio a un pubblico di lettori. Adesso percepivo un certo imbarazzo.

In passato avevo tenuto qualche conferenza, ma dopo la pubblicazione del Cappello fui sommerso di inviti a parlare e di richieste di ogni genere. Nel bene o nel male, con la pubblicazione del Cappello divenni una figura pubblica, con una immagine pubblica, nonostante per inclinazione io sia un tipo solitario e mi azzardi a credere che la parte migliore di me, quanto meno la più creativa, sia solitaria. Adesso, procurarsi la solitudine – la solitudine creativa – era più difficile.

I miei colleghi neurologi, però, mantennero una certa distanza e rimasero un po’ sprezzanti. A tutto questo credo che adesso si fosse aggiunto anche un certo sospetto. Sembrava che mi fossi messo in evidenza come scrittore «popolare», e se uno è popolare allora, ipso facto, non viene più preso seriamente. Certo, non fu assolutamente così da parte di tutti: ci fu qualche collega che considerò il Cappello come un esempio di neurologia solida e dettagliata, incastonata in una bella forma narrativa classica. In linea di massima, però, il silenzio dei medici proseguì.

 

 

 

Nel luglio del 1985, qualche mese prima della pubblicazione del Cappello, sentii rinascere in me l’interesse per la sindrome di Tourette. Nell’arco di qualche giorno, riempii di riflessioni tutto un taccuino, e tornai a contemplare la possibilità che ne venisse fuori un intero libro. A quel tempo mi trovavo in visita in Inghilterra, e quel flusso di idee ed emozioni raggiunse l’apice durante il volo di ritorno a New York. Era destinato però a interrompersi uno o due giorni dopo il mio arrivo, quando il postino consegnò un pacco alla mia casetta di City Island. Era da parte della «New York Review of Books», e conteneva When the Mind Hears, la storia dei sordi e del linguaggio dei segni di Harlan Lane. Bob Silvers chiedeva se fossi disposto a recensirlo. «Non hai mai pensato veramente al linguaggio» scriveva Bob. «Questo libro ti costringerà a farlo».

Non ero sicuro di voler essere sviato dal libro sulla sindrome di Tourette che stavo progettando di scrivere. Avrei voluto iniziarlo già nel 1971, dopo aver conosciuto Ray, ma ero stato distolto prima dall’incidente alla gamba e poi dai problemi con John. Adesso percepivo il rischio di essere sviato un’altra volta. Eppure, il libro di Harlan Lane mi affascinava e mi indignava simultaneamente. Raccontava la storia delle persone sorde; della loro cultura, unica e ricca, fondata su un linguaggio visuale, sui segni; e del continuo dibattito sull’opportunità di educare le persone sorde a comunicare con il linguaggio visuale loro proprio, oppure di costringerle all’«oralismo»: una decisione, quest’ultima, spesso catastrofica per le persone nate sorde.

In passato i miei interessi erano sempre emersi direttamente dall’esperienza clinica; adesso invece mi ritrovai sul punto di essere coinvolto, quasi controvoglia, nell’esplorazione della storia e della cultura dei sordi, e in quella della natura del linguaggio dei segni: qualcosa di cui peraltro non avevo alcuna esperienza di prima mano. Andai tuttavia a visitare alcune scuole locali per non udenti, dove conobbi un gran numero di bambini sordi. Ispirato dal libro di Nora Ellen Groce, Everyone here spoke sign language, visitai inoltre una cittadina, a Martha’s Vineyard, dove un secolo prima circa un quarto della popolazione nasceva sorda. Qui i non udenti non erano considerati «sordi», ma semplicemente agricoltori, studiosi, insegnanti, sorelle, fratelli, zii e zie.

Nel 1985, in città non c’erano più non udenti, ma gli abitanti più anziani conservavano ancora intensi ricordi dei loro parenti e vicini sordi, e a volte, tra di loro, usavano ancora il linguaggio dei segni. Nel corso degli anni, la comunità aveva adottato l’unico linguaggio che tutti fossero in grado di usare; udenti e non udenti, allo stesso modo, si esprimevano fluentemente nel linguaggio dei segni. Non avevo mai riflettuto davvero a fondo sui temi culturali, e imbattendomi nell’idea di una intera comunità adattatasi in quel modo rimasi affascinato.

Quando visitai la Gallaudet University di Washington (l’unica università al mondo per studenti sordi o con udito compromesso) e parlai di persone con «udito compromesso», uno degli studenti chiese nel linguaggio dei segni: «Perché non considera se stesso come persona con “compromissione della capacità di usare i segni”?».59 Era un cambio di prospettiva molto interessante, giacché lì c’erano centinaia di studenti, tutti occupati a conversare nella lingua dei segni, e quello muto – che non riusciva a capire o a comunicare nulla se non grazie a un interprete – ero io. Mi sentii sempre più attratto dalla cultura dei sordi, e la mia breve recensione si espanse diventando un saggio più personale, pubblicato dalla «New York Review of Books» nella primavera del 1986.

E quella, pensavo, sarebbe stata la fine del mio coinvolgimento nel mondo dei sordi: un viaggio breve ma affascinante.

 

 

 

Un giorno, nell’estate del 1986, ricevetti la telefonata di un giovane fotografo, Lowell Handler. Stava usando speciali tecniche stroboscopiche per cogliere le persone con la sindrome di Tourette proprio nel mezzo dei loro tic. Poteva venire a visitarmi e mostrarmi il suo portfolio? Sentiva una particolare affinità per l’argomento, mi disse, perché lui stesso era tourettico. Una settimana dopo ci incontrammo. I suoi ritratti mi impressionarono e cominciammo a discutere di una possibile collaborazione, nel corso della quale avremmo viaggiato per il paese conoscendo altre persone con la sindrome di Tourette, e documentando la loro vita con testi e fotografie.

Entrambi avevamo sentito allettanti descrizioni di una comunità mennonita, in una piccola città dell’Alberta, dove esisteva una straordinaria concentrazione di persone con sindrome di Tourette. Roger Kurlan e Peter Como, neurologi di Rochester, avevano visitato diverse volte La Crete per mappare la distribuzione genetica della Tourette, e qualcuno, nella comunità dei tourettici, aveva scherzosamente cominciato a chiamare la città Tourettesville. Nessuno aveva mai condotto, però, uno studio dettagliato su singoli individui residenti a La Crete, né su che cosa significasse avere la sindrome di Tourette in una comunità così religiosa e tanto unita.

Lowell fece una visita preliminare a La Crete, e poi cominciammo a progettare una spedizione più lunga. Avevamo bisogno di finanziamenti per i costi del viaggio e per la lavorazione di una gran quantità di pellicola. Io feci domanda alla Guggenheim Foundation per una borsa di ricerca proponendo uno studio sulla «neuroantropologia» della sindrome di Tourette, e ottenni un fondo di trentamila dollari; quanto a Lowell, ebbe un incarico su commissione dalla rivista «Life», celebre per il suo fotogiornalismo, e all’epoca ancora florida.

Nell’estate del 1987, la nostra visita a La Crete ormai era organizzata. Lowell era carico di macchine fotografiche e obiettivi; io non avevo che i miei taccuini e le mie penne. La visita a La Crete fu straordinaria sotto molti punti di vista e ampliò il mio orizzonte sulla sindrome di Tourette e sulle reazioni che essa suscita nella gente. Mi diede anche una percezione di come la Tourette, benché di origine neurologica, possa essere fortemente modificata dal contesto e dalla cultura: in quel caso, da una comunità religiosa profondamente solidale, in cui la sindrome era accettata come volontà di Dio. Come sarebbe stato vivere con la Tourette in un ambiente molto più tollerante? Per scoprirlo, decidemmo di visitare Amsterdam.60

Mentre eravamo diretti ad Amsterdam, Lowell e io ci fermammo a Londra, in parte perché volevo far visita a mio padre in occasione del suo compleanno (aveva novantadue anni), e in parte perché il Cappello era appena uscito in edizione paperback e la BBC mi aveva chiesto di parlare della sindrome di Tourette al suo World Service. Dopo l’intervista, trovai un taxi che mi aspettava per riportarmi in albergo, con un autista decisamente insolito. L’uomo aveva tic e contrazioni involontarie, gridava e imprecava; a un semaforo rosso scese dall’auto e saltò sul cofano, per poi ri-infilarsi al posto di guida con un balzo, non appena scattò il verde. Ero stupefatto: sapendo che avrei parlato della Tourette, quelli della BBC, o i miei editori, erano stati proprio arguti a scegliere, per riportarmi indietro, un autista con una forma spettacolare della sindrome! D’altra parte, ero perplesso. L’autista non diceva nulla, benché dovesse sapere che il motivo per cui la scelta era caduta su di lui era il mio particolare interesse per la sindrome. Per diversi minuti tacqui; poi, esitando, gli chiesi da quanto tempo avesse quel disturbo.

«Che cosa intende con “disturbo”?» chiese irritato. «Io non ho un “disturbo”».

Mi scusai, e dissi che non era stata mia intenzione inquietarlo, ma ero un medico, ed ero rimasto così colpito dai suoi insoliti movimenti che mi chiedevo se non avesse un disturbo noto come «sindrome di Tourette». Lui scosse energicamente la testa e mi ripeté di non avere alcun «disturbo» e che se anche faceva qualche movimento nervoso, la cosa non gli aveva impedito di servire nell’esercito come sergente, né di svolgere altre attività. Non dissi nient’altro, ma quando arrivammo al mio albergo, l’autista si informò: «Com’è che si chiama quella sindrome di cui parlava?».

«Sindrome di Tourette» risposi, e gli diedi il nome di una collega neurologa di Londra, aggiungendo che era una persona molto cordiale e comprensiva, oltre ad avere un’esperienza senza pari con i pazienti tourettici.

 

Dal 1972, la Tourette Syndrome Association era cresciuta costantemente, e in tutti gli Stati Uniti (in realtà, in tutto il mondo) stavano sorgendo gruppi satellite. Nel 1988, la TSA organizzò il suo primo congresso nazionale, e quasi duecento persone con la sindrome si riunirono per tre giorni in un albergo di Cincinnati. Molte di esse non avevano mai visto prima un altro tourettico, e temevano di poter «prendere» i tic altrui. Questa paura non era infondata, perché quando i tourettici si incontrano, può effettivamente aver luogo una condivisione dei tic. Alcuni anni fa, dopo aver conosciuto a Londra un uomo tourettico con il tic di sputare, ne feci menzione a un altro tourettico in Scozia, il quale immediatamente sputò dicendo: «Vorrei che non me l’avesse raccontato!», e aggiunse lo sputo al suo già ampio repertorio di tic.

Quale riconoscimento del congresso di Cincinnati, il governatore dell’Ohio aveva indetto in tutto lo stato la settimana della sensibilizzazione verso la sindrome di Tourette; a quanto pare, però, non tutti ne erano al corrente. Uno di noi, Steve B., un giovane con una Tourette evidentissima accompagnata da coprolalia, andò a farsi un hamburger in un locale della catena Wendy’s. Mentre stava aspettando che glielo portassero, ebbe delle contrazioni muscolari involontarie e lanciò un paio di oscenità; il direttore del fast food gli chiese allora di andarsene dicendogli: «Qui non può comportarsi così».

Steve rispose: «Non posso farci niente; ho la sindrome di Tourette», e mostrò al direttore un opuscolo informativo del congresso della TSA, aggiungendo: «Questa è la settimana della sensibilizzazione verso la sindrome di Tourette: non ne ha sentito parlare?».

Il direttore disse: «Non me ne importa niente. Ho già chiamato la polizia. Se ne vada adesso, o l’arresteranno».

Steve tornò all’hotel, furibondo, e ci raccontò la storia; in men che non si dica, duecento tourettici si misero in marcia alla volta di Wendy’s, con tic e grida al seguito, e io ero in mezzo a loro. Poiché avevamo avvertito i media, la stampa dell’Ohio si occupò della vicenda, e ho il sospetto che da allora Wendy’s non sia più lo stesso. Questa è stata la sola volta, in vita mia, in cui sono stato coinvolto in un qualche tipo di manifestazione o di marcia, a parte un’unica altra occasione, anch’essa nel 1988.

 

 

 

A marzo di quell’anno, in modo del tutto inatteso, mi chiamò Bob Silvers. «Ha sentito parlare della rivoluzione dei sordi?» mi chiese. Alla Gallaudet c’era stata una protesta degli studenti sordi, che contestavano la nomina, all’università, di un presidente udente. Chiedevano un presidente sordo che potesse comunicare nella lingua dei segni americana padroneggiandola, e avevano eretto delle barricate nel campus, occupando la scuola. Visto che ero già stato alla Gallaudet un paio di volte, disse Bob, mi andava di tornare a Washington e raccontare la rivolta? Acconsentii, e invitai Lowell a venire con me e a fare le fotografie. Chiesi al mio amico Bob Johnson, professore di linguistica alla Gallaudet, di farci da interprete.

La protesta Deaf President Now durò più di una settimana, culminando in una marcia sul Campidoglio (la Gallaudet era stata fondata e veniva mantenuta grazie a un apposito atto del Congresso). Ben presto il mio ruolo di osservatore imparziale venne intaccato; mentre camminavo e prendevo appunti tenendomi ai margini del corteo, uno degli studenti sordi mi afferrò per il braccio e, nella lingua dei segni, disse: «Venga, lei è con noi». E così mi unii agli studenti – più di duemila – nella loro marcia di protesta. Il saggio che scrissi su questo evento per «The New York Review of Books» fu in assoluto il mio primo «reportage».

Stan Holwitz, della University of California Press (la casa editrice che aveva pubblicato Emicrania negli Stati Uniti), avanzò l’ipotesi che con i miei due saggi sui sordi si potesse fare un buon libro, e a me l’idea piacque; sentivo però di dover scrivere qualche paragrafo che costituisse una sorta di ponte tra le due parti: qualcosa sugli aspetti generali del linguaggio e del sistema nervoso. Non avevo alcuna idea, allora, che quei pochi paragrafi sarebbero diventati in realtà la parte più ampia del libro, che alla fine fu intitolato Vedere voci.

 

 

 

Quando era uscito in Inghilterra, nel maggio del 1984, Su una gamba sola aveva ricevuto molte buone recensioni, che però nella mia mente erano state tutte oscurate da una sola – quella del poeta James Fenton –, fortemente critica nei miei confronti, che mi turbò profondamente e mi portò a tre mesi di blocco depressivo.

Quello stesso anno, mesi dopo, quando uscì l’edizione americana, fui invece esaltato da una recensione, splendida e generosa, apparsa sulla «New York Review of Books»: una recensione che mi rianimò, mi infuse energia e mi diede una tale sicurezza da portarmi a un’esplosione di scrittura – dodici pezzi in qualche settimana, che andarono a completare L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello.

Il recensore era Jerome Bruner, una figura leggendaria, uno dei fondatori della rivoluzione cognitivista che ebbe luogo in psicologia negli anni Cinquanta. A quell’epoca il behaviorismo, nella forma abbracciata da B.F. Skinner e altri, era dominante; si studiavano soltanto stimoli e risposte, ovvero le manifestazioni pubbliche visibili del comportamento. Non vi era alcun riferimento a qualsiasi processo interiore, a quanto poteva accadere interiormente tra lo stimolo e la risposta. Il concetto di «mente» quasi non esisteva per Skinner, ma era proprio ciò che Bruner e i suoi colleghi intendevano ripristinare.

Bruner era un caro amico di Lurija, e i due avevano molte affinità intellettuali. Nella sua autobiografia, Alla ricerca della mente, Bruner racconta di aver incontrato Lurija in Russia negli anni Cinquanta: «... le notizie che mi dava Lurija» scrive «... sul ruolo del linguaggio nello sviluppo infantile mi rallegravano alquanto. Lo stesso dicasi per altri suoi entusiasmi».

Come Lurija, anche Bruner insisteva affinché l’acquisizione del linguaggio nei bambini fosse osservata nel loro ambiente naturale, e non in un setting da laboratorio. In Il linguaggio del bambino ampliò e arricchì enormemente le nostre idee sulle modalità di acquisizione del linguaggio.

Negli anni Sessanta, in seguito al lavoro rivoluzionario di Noam Chomsky, la linguistica pose una grande enfasi sulla sintassi; Chomsky postulava che il cervello avesse un dispositivo innato per l’acquisizione del linguaggio, il LAD (language acquisition device). Quest’idea di Chomsky, di un cervello programmato e già pronto per un’acquisizione autonoma del linguaggio, sembrava ignorare le origini sociali di quest’ultimo e la sua fondamentale funzione comunicativa. Bruner sosteneva che la grammatica non potesse essere dissociata dal significato o dall’intento comunicativo. Nella sua concezione, gli aspetti sintattici, semantici e pragmatici del linguaggio erano inscindibili.

Fu l’opera di Bruner, più di qualsiasi altra cosa, a permettermi di pensare al linguaggio in termini non soltanto linguistici ma anche sociali, e questo fu essenziale per la mia comprensione della lingua dei segni e della cultura dei sordi.

Jerry è stato un mio buon amico e, a vari livelli, una sorta di guida e di mentore implicito. Sembra non vi siano limiti alla sua curiosità e alle sue conoscenze. Ha una delle menti più aperte e speculative che io abbia mai incontrato, con una vasta base di conoscenze di ogni genere che mette però continuamente in discussione e sotto esame. (L’ho visto fermarsi all’improvviso nel mezzo di una frase e dire: «Non credo più a quello che stavo per dire»). A novantanove anni, le sue straordinarie facoltà sembrano intatte.

 

Benché avessi osservato nei miei pazienti diverse perdite del linguaggio – varie forme di afasia –, ero molto ignorante riguardo al suo sviluppo nei bambini. Darwin aveva descritto lo sviluppo del linguaggio e della mente nel suo bel «Profilo di un bambino» (il bambino in questione era il suo primogenito), ma io non avevo figli miei da osservare, e nessuno di noi conserva un ricordo in prima persona di quel periodo cruciale in cui, nel corso del secondo o del terzo anno di vita, viene acquisito il linguaggio. Dovevo scoprirne di più.

Una delle mie più care amiche all’Einstein era Isabelle Rapin, una specialista in neurologia pediatrica di origini elvetiche, particolarmente interessata ai disturbi neurodegenerativi e dello sviluppo neurale che hanno luogo nell’infanzia. All’epoca quello era anche uno dei miei interessi: avevo scritto un articolo sulla «degenerazione spongiforme» (la sclerosi di Canavan) nei gemelli identici.

Una volta alla settimana il dipartimento di neuropatologia organizzava delle dissezioni cerebrali, e fu in occasione di una di esse, quando avevo appena iniziato a lavorare all’Einstein, che conobbi Isabelle.61 Formavamo una coppia improbabile – lei, con il suo pensiero preciso e rigoroso; io, disordinato, approssimativo, tutto associazioni e divagazioni mentali strane –, ma ci trovammo immediatamente, e siamo rimasti molto amici.

Isabelle non mi permetteva mai, non più di quanto permettesse a se stessa, di formulare affermazioni imprecise, esagerate o non confermate. «Dammi le prove» diceva sempre. In tal modo, rappresenta la mia coscienza scientifica e mi ha salvato da molte imbarazzanti cantonate. D’altra parte, quando ritiene che io mi muova su basi solide, insiste affinché pubblichi quanto ho osservato, comunicandolo con semplicità e chiarezza, così che lo si possa considerare e discutere a dovere: dietro a molti miei libri e miei articoli c’è la sua presenza.

Spesso andavo in moto nella casa dove Isabelle passava il fine settimana, sulle rive dello Hudson – e dove lei, Harold e i loro quattro figli mi trattavano come una persona di famiglia. Mi presentavo lì e trascorrevo il fine settimana parlando con Isabelle e Harold, e anche, a volte, portando i figli a fare un giro in moto o una nuotata nel fiume. Nell’estate del 1977, mi fermai nel loro fienile per un mese intero, per scrivere una commemorazione di Lurija.62

Alcuni anni dopo, quando cominciai a riflettere e a leggere sulla sordità e sul linguaggio dei segni, passai un intenso fine settimana con Isabelle, che impiegò molte ore a istruirmi sul linguaggio e sulla particolare cultura dei sordi, che aveva osservato per anni, lavorando con bambini non udenti.

Isabelle inculcò in me quello che aveva scritto Vygotsky, il mentore di Lurija:

 

«Se un bambino sordo o cieco raggiunge nello sviluppo lo stesso livello di un bambino normale, significa che i bambini deficitari raggiungono lo stesso livello in un altro modo, per un’altra via, con altri mezzi, e per il pedagogo è particolarmente importante conoscere lo speciale percorso lungo il quale deve condurre il bambino. La chiave di questa peculiarità è data dalla legge della trasformazione del “meno” del deficit nel “più” della compensazione».

 

Per i bambini udenti la monumentale conquista rappresentata dall’apprendimento del linguaggio è relativamente facile – quasi automatica –, ma per i bambini sordi, soprattutto se non vengono esposti a un linguaggio visivo, può essere molto problematica.

I genitori sordi che si esprimono nel linguaggio dei segni parleranno – «balbetteranno» – con i loro bambini usando i segni, proprio come i genitori udenti lo fanno oralmente; è così che il bambino impara il linguaggio, in modo dialogico. Il cervello del bambino piccolo è particolarmente predisposto all’apprendimento del linguaggio nei primi tre o quattro anni di vita, a prescindere dal fatto che si tratti di un linguaggio orale o dei segni. Ma, se in quel periodo critico un bambino non impara alcun linguaggio, in un secondo tempo l’acquisizione può diventare estremamente difficile. Pertanto, il figlio sordo di genitori sordi può crescere «parlando» nella lingua dei segni, ma il figlio sordo di genitori udenti spesso cresce senza alcun autentico linguaggio, a meno che non venga tempestivamente esposto a una comunità di segnanti.

Apprendere la lettura labiale e il linguaggio orale aveva richiesto, a molti dei bambini che vidi insieme a Isabelle in una scuola per sordi del Bronx, un immenso sforzo cognitivo, molti anni di lavoro; e anche così, in questi soggetti la comprensione e l’uso del linguaggio erano spesso di gran lunga al di sotto del normale. Capii così quanto potessero essere disastrosi gli effetti cognitivi e sociali della mancata acquisizione di un linguaggio fluente e appropriato (Isabelle aveva scritto, su questo tema, uno studio approfondito).

Giacché ero interessato in modo particolare ai sistemi percettivi, mi chiedevo che cosa accadesse nel cervello di una persona nata sorda, soprattutto se la sua lingua materna era visiva. Appresi di studi molto recenti che avevano dimostrato come, nel cervello di segnanti sordi congeniti, quella che in una persona udente sarebbe di norma la corteccia uditiva venisse «ridestinata» allo svolgimento di compiti visivi, e soprattutto all’elaborazione di un linguaggio visivo. Rispetto alle persone udenti, i sordi tendono a essere «ipervisivi» (questo è evidente anche nel primo anno di vita), ma lo diventano molto di più con l’acquisizione del linguaggio dei segni.

Tradizionalmente si riteneva che ciascuna parte della corteccia cerebrale fosse pre-assegnata a particolari funzioni sensoriali o di altro tipo. L’idea che porzioni di corteccia potessero essere ridestinate ad altre funzioni suggeriva la possibilità che la corteccia stessa fosse molto più plastica, e molto meno programmata, di quanto si credesse in precedenza. Attraverso il caso particolare dei sordi, questa nuova prospettiva mostrò chiaramente che l’esperienza di un individuo dà forma alle funzioni superiori del suo cervello selezionando (e potenziando) le strutture neurali sottese alla funzione.

Mi parve che questo fosse di immensa importanza: qualcosa che imponeva una concezione del cervello radicalmente nuova.

 

 

 

56. Ho descritto la prima di queste uscite in «La posseduta», un capitolo di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, nel quale però mascherai l’identità di John P., ritraendolo come una donna anziana.

57. In realtà la paziente di Gilles de la Tourette non aveva la sindrome di Tourette ma una fissazione erotica su di lui: fissazioni che, come si è visto nel caso di John Lennon, possono portare all’omicidio. Le lesioni causate dal proiettile resero Tourette emiplegico e afasico.

58. Quando fu pubblicato, «Il marinaio perduto» spinse Norman Geschwind, uno dei più originali e creativi neurologi americani, a scrivermi una lettera: ero molto emozionato quando la ricevetti. Gli risposi immediatamente, ma non vi fu replica, perché Geschwind aveva appena subito un ictus catastrofico. Aveva soltanto cinquantotto anni, ma lasciò un’eredità immensa.

59. Desideravo moltissimo riuscire a comunicare con le persone sorde nella loro lingua, e Kate e io abbiamo seguito per molti mesi dei corsi di lingua dei segni americana; purtroppo, però, l’apprendimento delle lingue proprio non è il mio forte e non sono mai riuscito a segnare più di qualche parola o qualche frase.

60. In un prossimo libro, descriverò più dettagliatamente i nostri viaggi in Canada, in Europa e negli Stati Uniti.

61. Queste dissezioni cerebrali erano sedute molto frequentate che attiravano, fra gli altri, clinici desiderosi di vedere se le loro diagnosi reggessero. In un’occasione memorabile esaminammo il cervello di cinque pazienti ai quali, in vita, era stata diagnosticata la sclerosi multipla. Le dissezioni cerebrali, però, rivelarono che tutte e cinque le diagnosi erano errate.

62. In una lettera del settembre 1977 zia Len mi ringraziò del telegramma di auguri per il suo compleanno («Ha riscaldato nel profondo il mio cuore ottantacinquenne»), ma poi proseguiva dicendo: «Siamo scioccati per la morte del professor Lurija. Dev’essere stato un gran colpo per te, a livello personale. So quanto valore davi alla sua amicizia. Hai poi scritto la commemorazione per il “Times”?» (L’avevo scritta).