VIAGGI
A un certo punto mio padre aveva pensato di intraprendere una carriera da neurologo, ma poi decise che la medicina generale sarebbe stata «più viva» e «concreta», perché lo avrebbe portato a stabilire un contatto più profondo con le persone e la loro vita.
Conservò questo suo intenso interesse umano fino all’ultimo: quando compì novant’anni, David e io lo pregammo di andare in pensione, o perlomeno di evitare le visite a domicilio. Lui replicò che le visite a domicilio erano «il cuore» della medicina e che avrebbe lasciato perdere qualsiasi altra cosa, ma non quelle. Dai novanta fin quasi ai novantaquattro anni, prese l’abitudine di noleggiare una vettura con autista per tutta la giornata così da continuare i suoi giri di visite.
C’erano famiglie che aveva avuto in cura per diverse generazioni, e a volte coglieva di sorpresa un giovane paziente dicendo, per esempio: «Il suo bisnonno ebbe un problema molto simile, nel 1919». Conosceva il lato umano, interiore, dei suoi pazienti non meno del loro corpo ed era convinto di non poter trattare l’uno senza l’altro (e in effetti c’era chi osservava che conosceva l’interno del frigorifero dei suoi pazienti come l’interno del loro corpo).
Spesso, per i suoi assistiti, non era solo un medico, ma diventava anche un amico; questo suo profondo interesse per tutti gli aspetti della loro vita faceva di lui, come anche di mia madre, un meraviglioso narratore di storie. Quando eravamo bambini, i suoi racconti di argomento medico ci incantavano, e furono importanti nell’indirizzare Marcus, David e me verso la professione medica, sulle orme dei nostri genitori.
Per tutta la vita papà ebbe anche una gran passione per la musica. Fu sempre un accanito frequentatore di concerti, particolarmente affezionato a Wigmore Hall, dov’era stato portato la prima volta da ragazzino (quando era ancora chiamata Bechstein Hall). Andava a due o tre concerti alla settimana, e continuò a farlo fino agli ultimi mesi di vita. Frequentava Wigmore Hall da tempo immemorabile e negli ultimi anni, a suo modo, era diventato leggendario al pari di alcuni esecutori.
Dopo la morte di nostra madre, Michael, ormai quarantacinquenne, si avvicinò a papà e a volte andava ai concerti con lui, cosa che non aveva mai fatto prima. Papà era felice che Michael lo accompagnasse, giacché dopo gli ottant’anni era sempre più sofferente d’artrite; quanto a Michael, trovava forse più naturale aiutare un genitore anziano e artritico, invece di continuare a considerarsi, come era accaduto molto spesso in passato, il figlio-paziente, malato e non autonomo, di un padre-medico.
Per i successivi dieci anni, Michael condusse un’esistenza relativamente stabile (anche se difficilmente la si potrebbe definire felice). I medici trovarono una dose di tranquillanti che teneva a bada le sue psicosi senza produrre troppi effetti collaterali, e Michael continuò a lavorare come corriere (latore di messaggi prosaici ma anche, come adesso credeva di nuovo, dai significati arcani); e tornò a godersi le camminate di buon passo per Londra (anche se la lettura del «Daily Worker» e «tutta quella roba», come diceva lui, appartenevano ormai al passato). Michael era fin troppo consapevole della propria condizione e quando era del suo umore più cupo diceva «sono un uomo condannato», benché in questo vi fosse anche qualcosa di messianico: era «condannato» come lo sono tutti i messia. (Una volta, quando il mio amico Ren Weschler andò a trovarlo e gli chiese come stesse, Michael replicò: «Sto nella Little Ease». Ren sembrò sconcertato, e Michael dovette spiegargli che la Little Ease era una cella della Torre di Londra, talmente angusta che un uomo non poteva entrarci né in piedi, né disteso, e quindi non poteva trovarvi alcun agio: little ease).
Condannato o prescelto che fosse, dopo la morte di nostra madre Michael sentì, sempre più profonda, la solitudine; adesso, salvo che per la presenza sua e di papà, la nostra grande casa era deserta, svuotata perfino dei pazienti (papà aveva trasferito lo studio altrove). Michael non aveva mai avuto amici e le sue relazioni con i colleghi, anche quelle instaurate da decenni, erano cortesi ma senza calore. Il suo più grande affetto era per Butch, il nostro boxer, che adesso stava diventando vecchio e artritico e non riusciva più a tenere il suo passo.
Nel 1984 il fondatore della ditta in cui Michael aveva lavorato per quasi trentacinque anni andò in pensione e la ditta stessa fu venduta a un’azienda più grande che licenziò prontamente i dipendenti della vecchia gestione: e così, a cinquantasei anni, Michael si ritrovò senza lavoro. Fece di tutto per acquisire capacità che potessero tornargli utili: si impegnò moltissimo per imparare la dattilografia, la stenografia e la contabilità, solo per scoprire che, in un mondo in rapido mutamento, quelle competenze tradizionali erano sempre meno richieste. Superando il suo imbarazzo – in precedenza non si era mai rivolto a qualcuno per ottenere un lavoro –, andò a fare due o tre colloqui, e fu scartato. A quel punto, credo, rinunciò alla speranza di un altro impiego; smise di fare le sue lunghe camminate e divenne un accanito fumatore di sigarette: passava ore seduto in soggiorno, fumando e fissando il vuoto; ed era così che di solito lo trovavo quando, nella seconda metà degli anni Ottanta, andavo a Londra. Per la prima volta in vita sua – quanto meno, la prima volta che lo ammise – cominciò a sentire le voci. Mi raccontò che questi «deejays» (che lui pronunciava «Die-Jays») utilizzavano qualche tipo di onde radio soprannaturali, e in tal modo riuscivano a controllare i suoi pensieri, a trasmetterli, e a inserirne di propri nella sua mente.
A questo punto, Michael dichiarò di volere un medico generico suo, e non nostro padre, che lo aveva sempre seguito; constatato che appariva pallido e sottopeso, e non meramente «scompensato», il suo nuovo dottore fece qualche semplice analisi e scoprì che era anemico e ipotiroideo. Una volta che gli furono prescritti tiroxina, ferro e vitamina B12, Michael riacquistò gran parte delle sue energie, e in capo a tre mesi i suoi «deejays» se n’erano andati.
Nel 1990, papà morì: aveva novantaquattro anni. Negli ultimi tempi, David e la sua famiglia, che vivevano a Londra, erano stati di grande aiuto sia a lui, sia a Michael; adesso però eravamo tutti convinti che fosse impossibile, per Michael, abitare da solo nella grande casa al 37 di Mapesbury Road, o anche in un appartamento per conto suo. Dopo una lunga ricerca, scegliemmo una residenza assistita che accoglieva ebrei anziani con malattie mentali, proprio in fondo alla strada, al 7 di Mapesbury. Pensavamo che lì Michael, adesso nuovamente in buona salute fisica, avrebbe trovato una struttura di sostegno; allo stesso tempo conosceva già il quartiere e avrebbe potuto facilmente andare a piedi alla sinagoga, in banca o nei negozi che gli erano familiari.
Il venerdì sera David e Lili invitavano Michael da loro per la cena dello Shabbath. Liz, mia nipote, andava a fargli visita regolarmente e badava a tutte le sue necessità. Michael acconsentì a questi cambiamenti con tutta la positività cui gli riuscì di fare appello, e in seguito scherzò su quel trasloco, dicendo che, nei suoi settanta e passa anni, l’unico viaggio che avesse mai fatto era stato dal numero 37 al numero 7 di Mapesbury Road. (Adesso il legame familiare più stretto di Michael era quello con Liz, la quale riusciva, per un po’, a trascinarlo fuori dalle sue cupe ossessioni; a volte lui e lei ridevano e scherzavano insieme).
Ealon House, la residenza assistita che lo accolse, funzionò sorprendentemente bene, offrendogli qualcosa di simile a una vita sociale e insegnandogli anche alcune abilità pratiche. Quando andavo a trovarlo, mi preparava nella sua stanza una tazza di tè o caffè: una cosa che non aveva mai fatto prima, nemmeno per se stesso. Mi mostrò, nel seminterrato, la lavatrice e l’asciugatrice; prima di allora non si era mai occupato del bucato, e adesso invece non solo faceva il suo, ma aiutava i residenti più anziani a lavare le loro cose. E così, all’interno di quella piccola comunità, cominciò gradualmente ad assumere un certo status, ad avere dei ruoli.
Benché ormai avesse praticamente smesso di leggere (in un’occasione mi scrisse: «Non mandarmi più altri libri»), conservava ancora i frutti delle letture di tutta una vita, e divenne un’enciclopedia virtuale a disposizione degli altri residenti. Per gran parte della sua vita Michael si era sentito ignorato, non considerato, e adesso era felice di questo suo nuovo status di uomo di cultura, di anziano saggio.
E, dopo una vita passata a diffidare dei medici, arrivò a fidarsi di Cecil Helman, il dottore straordinario che aveva in cura lui e gli altri residenti.72 Tra Cecil e me iniziò una piacevole corrispondenza e poi un’amicizia – e lui spesso mi scriveva di Michael. In una lettera diceva:
«Attualmente, Michael è in buona forma. Lo staff descrive la sua situazione come “eccellente”. Ogni venerdì sera esegue il Kiddush a Ealon House, e a quanto pare se la cava benissimo. Questo gli ha conferito un ruolo quasi rabbinico all’interno di quella piccola comunità, e credo che abbia aiutato moltissimo la sua autostima».
(«Ho una Sacra Missione, credo» mi scrisse Michael. Le maiuscole di «Sacra Missione» e la meticolosa sottolineatura di «credo» mostravano un’ironia, o una spiritosa riserva, su se stesso).
Quando David morì di cancro al polmone nel 1992, Michael soffrì moltissimo. «Sarei dovuto morire io!» diceva, e per la prima volta in vita sua fece un gesto suicida, bevendo un flacone intero di un forte sciroppo per la tosse a base di codeina (si fece una gran dormita, ma non accadde niente di peggio).
A parte questo, gli ultimi quindici anni della sua vita furono relativamente tranquilli. A Ealon House aiutava gli altri e aveva un ruolo – un’identità – che a casa non aveva mai avuto; inoltre svolgeva qualche attività anche all’esterno, giacché faceva delle passeggiate nel quartiere e andava a mangiare in un diner a Willesden Green (dove per cena poteva godersi uova e prosciutto invece del blando cibo kosher servito a Ealon House). Lili e Liz, la moglie e la figlia di David, continuarono a invitarlo a cena la sera del venerdì. Adesso che la nostra casa era stata venduta, quando andavo a Londra alloggiavo in un albergo vicino, dove invitavo Michael per un brunch, la domenica. E un paio di volte fu Michael a invitare me al suo diner, calandosi nel ruolo dell’ospite e pagando il conto: cosa che, chiaramente, gli fece un immenso piacere.
Quando andavo a trovarlo, mi chiedeva sempre di portargli un panino con salmone affumicato e una stecca di sigarette. Io ero felice di portargli il panino – il salmone affumicato era anche il mio cibo preferito – e meno felice per quanto riguarda le sigarette; adesso ne fumava una dietro l’altra, quasi un centinaio al giorno (una spesa che per poco non prosciugava tutto il denaro di cui disponeva).73
Questo fumare così accanito ebbe delle ripercussioni sulla sua salute, regalandogli non solo la tosse e la bronchite del fumatore ma, cosa più preoccupante, diversi aneurismi localizzati nelle arterie degli arti inferiori. Nel 2002, una delle arterie poplitee si ostruì, bloccando quasi completamente il flusso ematico nella parte inferiore della gamba, che cominciò a diventare fredda e pallida, e senza dubbio dolorante: il dolore ischemico può essere molto intenso. Michael però non si lamentò, e lo mandarono da un medico solo quando lo videro zoppicare. Per fortuna, i chirurghi riuscirono a salvargli la gamba.
Benché ripetesse: «Sono un uomo condannato!», annunciandolo a tutti quanti con voce alta e tonante, nei comuni scambi sociali Michael mostrava scarsa partecipazione emotiva. Vi fu tuttavia un’occasione in cui il suo contegno austero si ammorbidì. Un giorno Jonathan, nostro nipote, andò a fargli visita insieme ai suoi due gemelli di dieci anni, ed entrambi i bambini saltarono al collo di quel loro prozio che non avevano mai visto, inondandolo di baci e tenerezze. Michael dapprima si irrigidì, poi si sciolse e infine scoppiò in una gran risata, abbracciando i suoi pronipoti con un calore e una spontaneità che non mostrava (e forse non provava) da anni. Questo spettacolo fu immensamente toccante anche per Jonathan che, essendo nato negli anni Cinquanta, non aveva mai visto Michael «normale».
Nel 2006 si ostruì un secondo aneurisma, nell’altra gamba, e benché Michael fosse perfettamente consapevole dei rischi, anche questa volta non si lamentò. In generale, Michael adesso era più compromesso e sapeva che – se avesse perso la gamba o se la bronchite fosse peggiorata – a Ealon House non avrebbero più potuto prendersi cura di lui. In tal caso, sarebbe stato necessario trasferirlo in una casa di cura dove avrebbe perso la sua autonomia, e non avrebbe più avuto un’identità o un ruolo. Michael era convinto che in quelle condizioni la vita sarebbe stata priva di significato, intollerabile. Mi chiedo quindi se non desiderasse morire.
L’ultima scena della sua vita si svolse nel pronto soccorso di un ospedale, in attesa di un intervento chirurgico che, pensava lui, questa volta avrebbe comportato con ogni probabilità l’amputazione della gamba. Era steso su una barella quando, all’improvviso, si sollevò su un gomito e disse: «Vado fuori a fumare»; poi ricadde indietro morto.
Verso la fine del 1987, incontrai in Inghilterra Stephen Wiltshire, un ragazzo autistico. Ero stupefatto dai disegni di monumenti, straordinariamente dettagliati, che aveva cominciato a fare fin dall’età di sei anni: gli bastava dare uno sguardo veloce, per qualche secondo, a un edificio complesso o anche a un intero paesaggio urbano per poi riprodurlo tutto, in modo accurato e a memoria. Adesso tredicenne, benché fosse ancora chiuso in se stesso e pressoché muto, Stephen aveva già pubblicato un libro di disegni.
Mi chiedevo che cosa ci fosse dietro alla sua straordinaria capacità di «registrare» istantaneamente una scena visiva e di riprodurla nei minimi dettagli: mi chiedevo come funzionasse la sua mente, come vedesse il mondo. Soprattutto, mi interrogavo sulle sue capacità di provare emozioni e stabilire rapporti con gli altri. In genere le persone autistiche venivano considerate profondamente solitarie, incapaci di instaurare relazioni e di percepire i sentimenti o i punti di vista altrui, incapaci di umorismo, gaiezza, spontaneità, creatività: meri «automi intelligenti», per usare un’espressione di Hans Asperger. Eppure, per quanto breve, l’occhiata che avevo dato a Stephen mi aveva trasmesso un’impressione molto più viva.
Nell’arco dei due anni successivi, passai molto tempo con lui e con Margaret Hewson, sua insegnante e mentore. I disegni di Stephen erano stati pubblicati con grandissimo successo, e lui aveva intrapreso una serie di viaggi per disegnare edifici sparsi in tutto il mondo. Insieme, andammo ad Amsterdam, a Mosca, in California e in Arizona.
Mi incontrai con diversi esperti di autismo compresa, a Londra, Uta Frith. Con lei parlai soprattutto di Stephen e di altri savants, ma quando me ne andai mi suggerì di incontrare Temple Grandin: una scienziata talentuosa con una forma di autismo ad alto funzionamento che proprio in quel periodo cominciava a essere chiamata «sindrome di Asperger». Temple, mi disse Frith, era intelligentissima e molto diversa dai bambini autistici che avevo conosciuto negli ospedali e negli ambulatori; aveva conseguito un PhD in comportamento animale e aveva scritto un’autobiografia.74 Era sempre più chiaro, mi disse Frith, che l’autismo non implicava necessariamente una grave compromissione dell’intelligenza e un’incapacità di comunicare: alcune persone autistiche potevano avere ritardi nello sviluppo e una certa incapacità di cogliere i segnali sociali, ma per molti altri versi erano pienamente capaci e forse anche altamente dotate.
Mi accordai con Temple per passare un fine settimana insieme a casa sua, in Colorado. Pensavo che l’esperienza potesse diventare un’interessante nota al piede nel saggio che stavo scrivendo su Stephen.
Temple fece di tutto per essere gentile, ma era chiaro che sotto molti aspetti aveva una scarsa comprensione di quello che poteva passare per la mente altrui. Lei stessa, sottolineò, non pensava in termini linguistici ma visivi, molto concreti. Aveva una grande empatia per il bestiame d’allevamento, e si considerava una persona che «vede dal punto di vista di una mucca». Questo, insieme alla sua intelligenza da ingegnere, l’aveva portata a diventare un’esperta di fama mondiale nella progettazione di strutture per un trattamento più umano di bovini e altri animali. Trovai molto toccante constatare la sua chiara intelligenza e il suo gran desiderio di comunicare, così diversi dalla passività e dall’apparente indifferenza verso gli altri mostrate da Stephen. Quando mi abbracciò per salutarmi, capii che avrei dovuto scrivere su di lei un lungo saggio.
Un paio di settimane dopo, avevo mandato il mio pezzo su Temple al «New Yorker»; incontrai per caso Tina Brown, la nuova editor della rivista, che mi disse: «Temple diventerà un’eroina americana». I fatti le avrebbero dato ragione. Adesso, nella comunità degli autistici in tutto il mondo, sono in molti a vedere in Temple un’eroina, ammirata per aver costretto tutti noi a considerare l’autismo e la sindrome di Asperger non come deficit neurologici, quanto piuttosto come diversi modi di essere, con inclinazioni ed esigenze loro proprie ed esclusive.
I miei libri precedenti avevano mostrato pazienti che combattevano per sopravvivere e adattarsi (spesso in modo geniale) a varie «condizioni» o «deficit» neurologici, ma per Temple e per molti altri di cui scrissi in Un antropologo su Marte, quelle «condizioni» erano le fondamentali premesse della loro esistenza e spesso costituivano una fonte di originalità e creatività. Sottotitolai il libro «Sette racconti paradossali» perché tutti i soggetti che vi descrissi avevano scoperto o escogitato adattamenti inattesi ai propri disturbi; tutti presentavano talenti compensatori di vario genere.
Nel 1991 ricevetti una telefonata a proposito di un uomo pressoché cieco fin dalla prima infanzia a causa di un danno retinico e della presenza di cataratte (quando poi scrissi su di lui, in Un antropologo su Marte, lo chiamai Virgil). Ora, all’età di cinquant’anni, era in procinto di sposarsi e la sua fidanzata l’aveva esortato a farsi operare per rimuovere le cataratte: che cos’aveva da perdere? La donna sperava che Virgil potesse cominciare una nuova vita da vedente.
Dopo l’intervento, però, quando furono rimosse le bende, dalla bocca di Virgil non proruppe alcun grido al miracolo («Ci vedo!»). Sembrava piuttosto fissare in modo vacuo, sconcertato e senza metterlo a fuoco il chirurgo in piedi davanti a lui. Fu solo quando il medico aprì bocca – «Ebbene?» – che il volto di Virgil fu attraversato da un’espressione di riconoscimento. Sapeva che le voci venivano dai volti, e dedusse che il caos di luci, ombre e movimento che vedeva doveva essere il volto del chirurgo.
L’esperienza di Virgil era pressoché identica a quella di SB, un paziente descritto trent’anni prima dallo psicologo Richard Gregory, con il quale passai quindi molte ore a discutere il caso.
Richard e io ci eravamo conosciuti nel 1972, nello studio di Colin Haycraft, che in quel periodo si accingeva a pubblicare non solo Risvegli, ma anche il libro di Gregory Illusion in Nature and Art. Richard era un uomo imponente, più alto di me di tutta la testa, dotato di una spontaneità, un’esuberanza e un’energia fisica e mentale, insieme a una sorta di innocenza e a un entusiasmo per gli scherzi, che mi facevano pensare a lui come a un enorme dodicenne, allegro e vivace. Ero rimasto incantato da suoi libri precedenti – Occhio e cervello e The Intelligent Eye, che mostravano il lavoro fluido ed elegante di una mente potente e appassionata, insieme a un caratteristico amalgama di giocosità e profondità. Una frase di Gregory era facilmente riconoscibile come lo è una battuta di Brahms.
Entrambi eravamo particolarmente interessati alle componenti centrali del sistema visivo e al modo in cui le nostre facoltà di riconoscimento potessero essere compromesse da lesioni o malattie, o ingannate da illusioni visive.75 Gregory era fortemente convinto che le percezioni non fossero soltanto semplici riproduzioni dei dati sensoriali provenienti dall’occhio o dall’orecchio, ma che dovessero essere «costruite» dal cervello: una costruzione che implicava la cooperazione di molti sottosistemi cerebrali e che era costantemente informata dalla memoria, dalla probabilità e dalle aspettative.
Nel corso di una carriera lunga e produttiva, Richard dimostrò che le illusioni visive offrivano un’importante via d’accesso alla comprensione di funzioni neurologiche di ogni genere. Il gioco, per lui, era essenziale, sia sul piano intellettuale (era un grande appassionato di giochi di parole), sia come metodo scientifico. Era convinto che il cervello giocasse con le idee, e che quelle che noi chiamiamo «percezioni» fossero in realtà «ipotesi percettive» che il cervello costruiva e con le quali poi giocava.
Spesso, quando abitavo a City Island, mi alzavo in piena notte per andare a fare un giro in bicicletta nelle strade deserte, e una volta osservai uno strano fenomeno. Se guardavo la ruota anteriore mentre girava, per un istante i raggi potevano apparirmi immobili, come in una fotografia. Questo mi incuriosì, e immediatamente telefonai a Richard, dimenticando che in Inghilterra doveva essere mattina molto presto. Lui però prese la cosa allegramente e mi regalò tre ipotesi estemporanee. L’immobilità era forse un effetto stroboscopico causato dalla corrente oscillante della dinamo? Era dovuta ai movimenti saccadici dei miei occhi? Oppure indicava che effettivamente il cervello «costruiva» un sensazione di movimento a partire da una serie di «fotogrammi»?76
Entrambi avevamo una passione per la visione stereoscopica; Richard a volte faceva gli auguri ai suoi amici inviando loro biglietti natalizi stereoscopici, e la sua casa di Bristol, simile a un museo, era piena di vecchi stereoscopi e di altri antichi strumenti ottici di ogni tipo. Lo consultai spesso mentre scrivevo la storia di Susan Barry («Stereo Sue»), la quale, benché apparentemente priva di visione stereoscopica fin da piccola, l’aveva tuttavia acquisita all’età di cinquant’anni: un risultato ritenuto impossibile, giacché era opinione diffusa che l’esperienza stereoscopica dovesse aver luogo in un breve periodo critico nella prima infanzia, e che se la visione stereoscopica non era acquisita entro i primi due o tre anni di vita, sarebbe stato troppo tardi.
E poi, subito dopo aver scritto di Stereo Sue, cominciai io stesso a perdere la vista da un occhio, prima in parte e poi completamente. Raccontavo a Richard le cose a volte spaventose che accadevano alla mia vista e come, dopo una vita intera in cui avevo veduto il mondo godendo di un senso della profondità ricco e magnifico, adesso trovassi la realtà a tal punto piatta e confusa che a volte mi sembrava di perdere i concetti stessi di distanza e profondità. Richard aveva una pazienza infinita nei confronti delle mie domande, e le sue intuizioni erano preziose: credo che mi abbia aiutato più di chiunque altro a raccapezzarmi in quello che stavo vivendo.
Un giorno, all’inizio del 1993, Kate mi porse il telefono dicendo: «È John Steele, chiama da Guam».
Guam? Non avevo mai ricevuto una telefonata da Guam. Non ero nemmeno sicuro di sapere bene dove fosse. Vent’anni prima, avevo avuto qualche scambio di corrispondenza con un John Steele, un neurologo di Toronto che aveva scritto, insieme ad altri, un articolo sulle allucinazioni emicraniche nei bambini. Quel John Steele era noto per aver descritto la sindrome di Steele-Richardson-Olszewski, una malattia degenerativa del cervello oggi chiamata paralisi sopranucleare progressiva. Alzai il ricevitore, e scoprii che era proprio lui. Mi raccontò che da allora s’era trasferito in Micronesia, dapprima in una delle Isole Caroline e adesso a Guam. Il motivo per cui mi stava telefonando era che tra i Chamorro, la popolazione nativa di Guam, era diffusa una straordinaria malattia endemica, denominata lytico-bodig. Molti malati avevano sintomi estremamente simili a quelli che avevo descritto e filmato nei miei pazienti postencefalitici. Poiché ormai ero tra i pochissimi ad aver visto quei soggetti, John si chiedeva se non potessi incontrare alcuni dei suoi pazienti e dirgli che cosa ne pensassi.
Ricordai di aver sentito parlare della malattia di Guam da specializzando; a volte era considerata la stele di Rosetta delle malattie neurodegenerative, perché i pazienti che ne erano colpiti spesso mostravano sintomi simili a quelli della malattia di Parkinson, della SLA o della demenza, e forse potevano far luce su tutte quelle patologie. Ormai erano decenni che i neurologi si recavano a Guam nel tentativo di svelare le cause della malattia; la maggior parte di essi, però, aveva rinunciato.
Arrivai a Guam qualche settimana dopo, e all’aeroporto fui accolto da John, che era istantaneamente riconoscibile; faceva un caldo soffocante, e tutti portavano camicie colorate e calzoncini corti – tutti tranne lui, che indossava un elegante vestito leggero, cravatta e cappello di paglia. «Oliver!» gridò. «Quanto sei stato gentile a venire!».
Alla guida della sua convertibile rossa, durante il viaggio dall’aeroporto John mi ragguagliò sulla storia di Guam; mi indicò anche alcuni boschetti di cicadine – alberi molto primitivi le cui foreste un tempo coprivano tutta l’isola –, poiché sapeva che mi interessavo a quelle piante e ad altre forme vegetali primitive. Al telefono, infatti, mi aveva proposto di recarmi a Guam in veste di cicado-neurologo o come neuro-cicadologo, poiché erano in molti a pensare che la responsabile della strana malattia fosse una farina ottenuta dai semi di quelle piante, un alimento molto diffuso tra i Chamorro.
Nei giorni successivi accompagnai John nei suoi giri di visite. Mi fece pensare a quando, da bambino, ero solito seguire mio padre nei suoi; vidi molti pazienti di John, alcuni dei quali effettivamente mi ricordarono i miei pazienti di Risvegli. Decisi che sarei tornato a Guam per una visita più lunga: e che questa volta mi sarei portato una cinepresa, per filmare alcuni di quei pazienti unici.
La visita a Guam fu molto importante per me anche a livello umano. Mentre i pazienti postencefalitici erano stati emarginati per decenni, confinati in un ospedale, spesso abbandonati dalle loro famiglie, le persone con il lytico-bodig continuavano a far parte della propria famiglia – della propria comunità – fino all’ultimo. Questo mi fece comprendere quanto siano barbare la medicina e le usanze del nostro mondo «civilizzato»: un mondo in cui confiniamo le persone malate o dementi, e cerchiamo di dimenticarle.
Un giorno, a Guam, mi misi a parlare con John di un altro tema, la cecità cromatica, per il quale nutrivo un interesse profondo da anni. Avevo recentemente visitato un pittore, il signor I., che dopo una vita intera di visione normale all’improvviso aveva perso la capacità di percepire il colore. Lui sapeva benissimo che cosa aveva perduto, ma un individuo privo della capacità di vedere il colore dalla nascita non ne avrebbe avuto idea. La maggior parte delle persone con cecità cromatica in realtà sono daltoniche: hanno difficoltà a discriminare certi colori, ma ne vedono altri senza problemi. L’incapacità di vedere qualsiasi colore, la cecità cromatica totale congenita, è invece estremamente rara: colpisce forse una persona su trentamila. Come si destreggiano costoro in un mondo che, per gli altri esseri umani, come pure per gli uccelli e i mammiferi, è pieno di colori evocativi carichi di informazione? È possibile che questi acromatopsici, come le persone sorde, sviluppino particolari capacità e strategie compensatorie? Potrebbero creare, come i sordi, un’intera comunità, una cultura loro?
Accennai a John di aver sentito parlare – forse era una leggenda romantica – di una valle isolata, interamente popolata da persone del tutto cieche al colore. John disse: «Sì, conosco il luogo. Non è proprio una valle, ma è molto isolato, si tratta di un minuscolo atollo corallino relativamente vicino a Guam, dista soltanto millenovecento chilometri». L’atollo, Pingelap, era vicino a Pohnpei, un’isola vulcanica più grande dove John aveva lavorato per qualche anno. Mi disse di aver visto, a Pohnpei, alcuni pazienti pingelapesi; riteneva che circa il 10 per cento della popolazione di Pingelap fosse completamente cieca al colore.
Qualche mese dopo, Chris Rawlence – autore del libretto per l’opera di Michael Nyman The Man Who Mistook His Wife for a Hat – mi propose di fare insieme a lui una serie di documentari per la BBC.77 E così, nel 1994, tornammo in Micronesia accompagnati dal mio amico oculista Bob Wasserman e da Knut Nordby, uno psicologo norvegese lui stesso acromatopsico. Chris e la sua troupe organizzarono il nostro trasferimento a Pingelap a bordo di un precario aeroplanino e Bob, Knut e io ci immergemmo nella vita e nella storia di queste isole dalla cultura unica. Ci furono visite ai pazienti e conversazioni con medici, botanici e scienziati; vagabondaggi nelle foreste pluviali, immersioni sulla barriera e assaggi di inebriante sakau.
Fu solo nell’estate del 1995 che mi decisi a scrivere di queste esperienze sulle isole, e in realtà concepii il libro come due distinti diari di viaggio: «L’isola dei senza colore», su Pingelap; e «L’isola delle cicadine», sulla strana malattia di Guam. (A questi aggiunsi poi una sorta di coda sul tempo geologico profondo e sulle mie piante antiche preferite, le cicadine).
Nel libro mi sentii libero di esplorare, insieme ai temi neurologici, molti altri che non lo erano, e vi inclusi anche più di sessanta pagine di note, molte delle quali erano piccoli saggi di botanica, matematica o storia. E così, l’Isola prese una forma diversa da tutti i miei libri precedenti – più lirica, più personale. Per certi versi, rimane il mio preferito.
Il 1993 non solo vide l’inizio di nuove avventure e spedizioni in Micronesia e altrove: mi iniziò anche a un altro viaggio – un viaggio mentale nel tempo – in cui ricordai, e rivisitai nella memoria, alcune passioni della mia infanzia.
Bob Silvers mi chiese se ero disposto a recensire una nuova biografia di Humphry Davy. La proposta mi entusiasmò, perché quand’ero bambino Davy era stato uno dei miei idoli: mi piaceva molto leggere degli esperimenti chimici che aveva condotto al principio dell’Ottocento e ripeterli nel mio piccolo laboratorio. Così tornai a immergermi nella storia della chimica, e feci la conoscenza di Roald Hoffmann.
Qualche anno dopo, Roald, sapendo della passione per la chimica che avevo da bambino, mi inviò un pacco contenente un grande poster della tavola periodica con la fotografia di ciascun elemento, insieme a un catalogo di prodotti chimici e a una piccola barra d’un metallo grigiastro, molto pesante, che immediatamente riconobbi essere tungsteno. Come senza dubbio Roald aveva previsto, quell’oggetto innescò istantaneamente alcuni ricordi di mio zio, che nella sua fabbrica produceva barre di tungsteno e lampadine con filamenti pure di tungsteno. Quella barra fu la mia madeleine.
Cominciai a scrivere raccontando la mia infanzia, di com’era stato crescere in Inghilterra prima della seconda guerra mondiale, essere esiliato in un collegio disumano durante la guerra, e poi trovare stabilità nelle mie passioni: dapprima per i numeri, e in seguito per gli elementi chimici e per la bellezza delle equazioni che potevano rappresentare qualsiasi reazione. Quello fu per me un libro d’una specie nuova, che combinava l’autobiografia con una sorta di storia della chimica. Alla fine del 1999 avevo scritto molte centinaia di migliaia di parole; tuttavia, sentivo che al lavoro mancava ancora coesione.
Mi piaceva molto leggere i diari di storia naturale dell’Ottocento, che sono tutti sempre una miscela di personale e scientifico: soprattutto L’arcipelago malese di Wallace, Naturalist on the River Amazons di Bates, Notes of a Botanist di Spruce e l’opera che li ispirò tutti (Darwin compreso): il Viaggio alle regioni equinoziali del nuovo continente di Alexander von Humboldt. Mi piaceva pensare che Wallace, Bates e Spruce si fossero incrociati e superati percorrendo le rispettive piste lungo il medesimo tratto del Rio delle Amazzoni negli stessi mesi del 1849, e pensare che fossero buoni amici (continuarono a corrispondere per tutta la vita, e Wallace curò la pubblicazione postuma delle Notes di Spruce).
Erano tutti, in un certo senso, dei dilettanti – autodidatti che trovavano la motivazione in se stessi e che non facevano capo a un’istituzione – e a volte mi pareva che avessero vissuto in un mondo felice, una sorta di Eden, non ancora reso aggressivo e tormentato dalle rivalità quasi omicide che ben presto avrebbero segnato un ambiente sempre più professionalizzato (quel tipo di rivalità descritto tanto efficacemente da H.G. Wells nel suo racconto La farfalla).
Questa atmosfera così bella, non corrotta, pre-professionale, dominata da un senso di avventura e di meraviglia invece che dall’egoismo e dalla smania di priorità e prestigio, sopravvive ancora qua e là, mi pare, in certe associazioni naturalistiche la cui esistenza, silenziosa eppure fondamentale, è pressoché sconosciuta al pubblico. Una di esse è l’American Fern Society, che tiene incontri mensili e di tanto in tanto organizza viaggi sul campo – «cacce alla felce» – di vario genere.
Nel gennaio del 2000, mentre stavo ancora lottando per completare Zio Tungsteno, feci un viaggio insieme a una ventina di membri dell’AFS a Oaxaca, dove sono state descritte più di settecento specie di felci. Non avevo pensato di tenere un diario dettagliato, d’altra parte c’era un tale senso di avventura e una tale ricchezza di esperienze che scrissi quasi ininterrottamente per tutti i dieci giorni del viaggio.78
Il blocco che avevo avvertito con Zio Tungsteno si sciolse improvvisamente nel centro di Oaxaca, quando salii a bordo di un bus navetta nella piazza della città per tornare al mio albergo. Seduti di fronte a me sull’autobus c’erano due svizzeri tedeschi: un uomo che fumava il sigaro e la moglie. La coincidenza della navetta e della lingua mi riportò improvvisamente al 1946, come scrissi nel Diario di Oaxaca:
«... appena finita la guerra i miei genitori decisero di visitare l’unico paese ancora “intatto” in Europa, la Svizzera. Il nostro albergo, lo Schweizerhof di Lucerna, disponeva di una limousine elettrica molto silenziosa, che funzionava perfettamente, come il giorno in cui era uscita dalla fabbrica, quarant’anni prima. Un ricordo dolce e melanconico mi assale, e mi rivedo a tredici anni, appena adolescente, pronto a recepire qualsiasi stimolo con la freschezza e la perspicacia dell’età. Ricordo i miei genitori, giovani, ancora vigorosi, appena cinquantenni».
Quando tornai a New York, i ricordi d’infanzia continuarono ad affiorare, e il resto di Zio Tungsteno li seguì, mentre gli aspetti biografici sembravano intrecciarsi con la storia e con la chimica, così che quel libro ibrido venne in essere con due storie e due voci molto diverse, che in qualche modo vi si armonizzavano.
Se c’è qualcuno che ha condiviso il mio amore profondo per la storia naturale e per la storia della scienza, è stato Stephen Jay Gould.
Di lui avevo letto Ontogenesi e filogenesi e molti degli articoli che uscivano ogni mese sulla rivista «Natural History». In particolare mi era piaciuto il suo libro del 1989 La vita meravigliosa, che trasmetteva in modo straordinario la sensazione della semplice buona o cattiva sorte che può toccare a qualsiasi specie animale o vegetale, e dell’immensa importanza che il caso ha nell’evoluzione. Come scriveva lui, se si potesse tornare indietro e «ripetere» l’evoluzione, senza dubbio essa sarebbe ogni volta completamente diversa. Homo sapiens era il risultato di una particolare combinazione di contingenze arrivate a produrre la nostra specie: Gould lo definiva un «glorious accident» – una splendida casualità.
Ero talmente emozionato nel leggere la sua visione dell’evoluzione che quando un giornale inglese mi chiese quale libro mi fosse piaciuto più di tutti nel 1990, citai La vita meravigliosa, con la sua intensa evocazione della stupefacente varietà di forme di vita prodotte più di 500 milioni di anni fa nell’«esplosione del Cambriano» (forme splendidamente conservate negli scisti di Burgess, sulle Montagne Rocciose canadesi) e di come molte di esse si fossero estinte a causa della competizione, di catastrofi o semplicemente della cattiva sorte.
Steve vide quella piccola recensione e mi inviò una copia del libro con una dedica generosa, nella quale parlava di esso come della «versione geologica» dello stesso tipo di contingenza – l’intrinseca imprevedibilità – che io stesso avevo descritto nei miei pazienti postencefalitici. Lo ringraziai, e lui mi rispose con una lettera traboccante dell’energia, dell’esuberanza e dello stile che gli erano propri. Cominciava così:
Caro dottor Sacks,
ricevere la sua lettera mi ha emozionato; nella vita non esiste piacere più grande di sapere che uno dei nostri eroi intellettuali ha a sua volta tratto piacere dalle nostre fatiche. Io penso davvero che – in un certo senso in modo collettivo benché ovviamente senza alcun contatto – diversi di noi stiano lavorando verso un obiettivo comune radicato in una teoria della contingenza. Il suo lavoro sui casi clinici sicuramente procede di pari passo a quello di Edelman sulla neurologia, alla teoria del caos in generale, agli studi di McPherson sulla Guerra Civile e anche al mio materiale sulla storia della vita. Naturalmente, non vi è nulla di nuovo nella contingenza per se. Piuttosto, il tema è stato di solito ritenuto estraneo alla scienza («meramente storia») o, peggio ancora, un surrogato, o addirittura un centro di attrazione per uno spiritualismo non scientifico. Il punto non sta nell’enfatizzare la contingenza, ma nell’identificarla come tema fondamentale per una scienza autentica, basata sulla natura irriducibile dell’individualità; non contrapposta alla scienza, ma come un’aspettativa di quella che chiamiamo legge naturale, e pertanto come un dato di primaria importanza della scienza stessa.
Dopo aver discusso diversi altri argomenti, concludeva:
È buffo come, una volta entrati in contatto con qualcuno che desideravamo conoscere da anni, cominciamo a vedere dappertutto cose che vorremmo discutere con lui.
Cordiali saluti,
Stephen Jay Gould
Ci conoscemmo di persona solo un paio di anni dopo, quando un giornalista televisivo, in Olanda, ci interpellò per una serie di interviste. Il produttore mi aveva chiesto se conoscessi Steve, e io avevo replicato: «Non l’ho mai incontrato, anche se ci siamo scritti. Nondimeno, penso a lui come a un fratello».
Steve, dal canto suo, aveva scritto al produttore: «Desidero con tutta l’anima conoscere Oliver Sacks. Lo considero un fratello, ma non ci siamo mai incontrati faccia a faccia».
Eravamo sei in tutto – Freeman Dyson, Stephen Toulmin, Daniel Dennett, Rupert Sheldrake, Steve e io. Fummo tutti intervistati separatamente e poi, qualche mese dopo, volammo ad Amsterdam, dove ci fecero alloggiare in alberghi diversi. Nessuno di noi si era già incontrato prima con gli altri, e la speranza era che, quando ci avessero messi insieme tutti e sei, vi fosse una qualche fantastica esplosione (possibilmente violenta). Il programma televisivo di tredici ore, intitolato A Glorious Accident, fu un enorme successo nei Paesi Bassi e la sua trascrizione divenne un best-seller.
La reazione di Steve allo spettacolo fu, com’era tipico suo, maliziosa. Scrisse: «Sono sbalordito nel constatare che la nostra serie olandese sia stata accolta tanto bene. Di sicuro mi è piaciuto immensamente incontrare tutti voi di persona, ma dubito che sarei stato disposto a passare ore davanti a un televisore per guardare quel genere di conversazione tra un gruppo di persone solitamente descritte, in questi tempi di p.c., come maschi bianchi europei e morti».79
Steve insegnava a Harvard ma abitava a Manhattan e quindi eravamo vicini. C’erano in lui moltissimi aspetti diversi, aveva moltissime passioni. Gli piaceva camminare e aveva un’immensa cultura sull’architettura di New York e sulla sua configurazione di un secolo fa (soltanto una persona dotata come lui di una profonda sensibilità per l’architettura avrebbe introdotto la metafora dei pennacchi di San Marco a Venezia parlando di evoluzione). Aveva un grande senso musicale: cantava in un coro a Boston, e adorava Gilbert e Sullivan; credo che conoscesse tutta la loro produzione a memoria. In un’occasione, quando andammo insieme a trovare un amico a Long Island, Steve rimase per tre ore a crogiolarsi nella vasca per l’idromassaggio, e passò tutto quel tempo cantando Gilbert e Sullivan senza mai ripetersi. Conosceva anche un numero enorme di canti risalenti a entrambe le guerre mondiali.
Steve e sua moglie Rhonda erano amici d’una generosità impulsiva, ed erano felici di ospitare feste di compleanno; Steve preparava una torta seguendo una ricetta di sua madre, e scriveva sempre una poesia da recitare per l’occasione. Era bravissimo; un anno sfornò una splendida versione di Jabberwocky e a un’altra festa recitò questa:
FOR OLIVER’S BIRTHDAY, 1997
This man, who’s in love with a cycad
But once could have starred in a bike ad
King of multidiversity
Hip! Happy birth-i-day
You exceed what old Freud, past head psych, had.
One legg’d, migrained, color blinded
Awak’ning on Mars, and hat-minded
Oliver Sacks
Still lives life to the max
While his swimming leaves dolphins behinded.80
In occasione di un altro compleanno, sapendo che avevo un debole per la tavola periodica, Steve e Rhonda invitarono tutti a vestirsi impersonando un elemento particolare. Io sono negato per facce e nomi, ma non dimentico mai un elemento (ci fu un tale che venne alla festa con la mia vecchia amica Carol Burnett; ho dimenticato come si chiamasse, e anche la sua faccia, ma lo ricorderò sempre come argon). Steve era lo xenon, l’elemento 54, un altro gas nobile.
Leggevo con passione gli articoli che Steve pubblicava ogni mese su «Natural History» e spesso gli scrivevo a proposito delle questioni che vi sollevava. Discutevamo temi di ogni genere, dal ruolo della contingenza nelle reazioni dei pazienti, all’amore per i musei che ci accomunava (soprattutto quelli del vecchio tipo, con le vetrine; entrambi ci schierammo per la conservazione del meraviglioso Mütter Museum di Filadelfia).
Avevo anche un gran desiderio, risalente ai tempi della mia passione per la biologia marina, di sapere qualcosa di più sui sistemi nervosi e i comportamenti più primitivi, e qui Steve ebbe un’influenza importante su di me, ricordandomi incessantemente che in biologia nulla ha senso se non alla luce dell’evoluzione e del caso, della contingenza. Metteva tutto nel contesto del tempo evolutivo profondo.
Steven aveva concentrato la sua ricerca sull’evoluzione delle chiocciole nelle Bermuda e nelle Antille Olandesi, e per lui la vasta gamma degli invertebrati illustrava – ancor meglio dei vertebrati – tutta l’inventiva e la genialità della natura nel trovare nuovi usi per strutture e meccanismi diversi evoluti in precedenza: quelli che chiamò «exaptations». Condividevamo, quindi, l’ammirazione per le forme di vita «inferiori».
Nel 1993 scrissi a Steve a proposito dei modi per mettere in relazione aspetti particolari e generali – nel mio caso, le narrazioni cliniche con le neuroscienze – e lui mi rispose: «Da tempo vivo io stesso la medesima identica tensione, cercando di assecondare la mia passione per il dettaglio individuale nei saggi, e il mio interesse per gli aspetti generali negli scritti più tecnici. La ricerca sugli scisti di Burgess mi è stata tanto cara perché mi ha consentito di integrare le due prospettive».
Steve fu così gentile da leggere il manoscritto dell’Isola dei senza colore, e lo fece con grandissima attenzione, salvandomi da diverse cantonate.
Infine, avevamo in comune anche un interesse per l’autismo; come mi scrisse: «Le mie ragioni di rispetto sono in parte personali. Ho un figlio autistico, che è uno dei grandissimi calcolatori del calendario: lo fa istantaneamente, spaziando su migliaia di anni. Il suo scritto sui gemelli calcolatori è il saggio più toccante che abbia mai letto».
Aveva dedicato parole molto commoventi a suo figlio Jesse in un saggio che venne poi pubblicato in Il millennio che non c’è:
«Gli esseri umani sono soprattutto creature che narrano storie; noi organizziamo la realtà sotto forma di una serie di racconti. Ma come fa, allora, una persona a raccapezzarsi nell’ambiente confuso che la circonda, se non è in grado di capire una storia o di farsi un’idea delle intenzioni del prossimo? Negli annali dell’eroismo non trovo nulla di più nobile delle strategie di compensazione che gli individui si ingegnano di scoprire e mettere in atto quando le disgrazie della vita li privano dei fondamentali attributi della natura umana».
Steve aveva visto la morte in faccia prima che io lo conoscessi, quando aveva all’incirca quarant’anni. Aveva un mesotelioma, un tumore rarissimo e maligno, ma era determinato a smentire i calcoli delle probabilità e a sopravvivere a quel cancro particolarmente letale. Aiutato dalle radiazioni e dalla chemioterapia, fu uno dei fortunati. Era sempre stato una persona estremamente energica, ma dopo quell’esperienza, dopo aver affrontato la morte, lo divenne più che mai. Non c’era un minuto da perdere; chi poteva dire che cosa avesse in serbo il futuro?
Vent’anni dopo, sessantenne, Steve sviluppò un tumore in apparenza non legato al primo: un cancro polmonare che diede metastasi al fegato e al cervello. L’unica concessione che fece alla malattia, però, fu di far lezione seduto invece che in piedi. Era determinato a completare il suo opus magnum, La struttura della teoria dell’evoluzione, e il librò uscì nella primavera del 2002, in occasione del venticinquesimo anniversario della pubblicazione di Ontogenesi e filogenesi.
Qualche mese dopo, subito dopo aver tenuto la sua ultima lezione a Harvard, sprofondò nel coma e morì. Era come se si fosse imposto di andare avanti per pura forza di volontà e poi, una volta completato il suo ultimo semestre di insegnamento e pubblicato il suo ultimo libro, si fosse sentito pronto a lasciare che le cose facessero il loro corso. Morì a casa, nella sua biblioteca, circondato dai libri che amava.
72. Cecil Helman, che veniva da una famiglia di rabbini e di medici, era anche uno studioso di antropologia medica famoso per i suoi studi cross-culturali sulla narrazione, la medicina e la malattia, condotti in Sud Africa e in Brasile. Uomo molto premuroso, splendido insegnante, Helman ha raccontato la propria formazione di medico in Sud Africa durante l’apartheid nella sua autobiografia Suburban Shaman.
73. Parecchi residenti a Ealon House erano fumatori accaniti (come lo sono in genere molti pazienti schizofrenici «cronici»). Non so se fumino per noia – nella residenza non c’era un gran che da fare – o per gli effetti farmacologici della nicotina, siano essi stimolanti o calmanti. Una volta, al Bronx State, vidi un paziente, per la maggior parte del tempo apatico e chiuso in se stesso, che dopo qualche boccata di fumo dapprima si animava, e poi diventava iperattivo, turbolento, quasi tourettico. L’inserviente lo definiva un «Jekyll e Hyde nicotinico».
74. Il primo libro di Temple, Emergence: Labeled Autistic, fu pubblicato nel 1986, quando la sindrome di Asperger era quasi sconosciuta. In esso, Temple parlava della propria «guarigione»; infatti a quell’epoca, in genere, si pensava che nessuna persona con autismo potesse condurre una vita produttiva. Quando la conobbi io, nel 1993, Temple non parlava più di «guarire» l’autismo, ma piuttosto dei punti di forza e delle debolezze che possono manifestarsi nelle persone autistiche.
75. I Gregory nutrono un grande interesse per la visione e l’ottica da molte generazioni. Nel suo libro Hereditary Genius, Francis Galton seguì a ritroso le tracce dell’eccellenza intellettuale nella famiglia Gregory fino a James, contemporaneo di Newton, che apportò cospicui miglioramenti al suo telescopio riflettore. Il padre di Richard fu un importante astronomo.
76. In seguito discussi questa visione per «fotogrammi» con Francis Crick e ne scrissi nel mio In the River of Consciousness, un saggio pubblicato dalla «New York Review of Books» nel 2004.
77. La serie, intitolata The Mind Traveller, esplorò alcuni argomenti che mi interessavano da tempo, compresi la sindrome di Tourette e l’autismo. Mi diede inoltre l’occasione di fare alcune esperienze nuove: con le persone affette da sindrome di Williams (sulle quali avrei scritto in seguito in Musicofilia), con una comunità di Cajun sordociechi, e con un certo numero di persone sorde che non avevano mai acquisito alcun linguaggio.
78. Al mio ritorno trascrissi il diario e di lì a poco fui invitato a pubblicarlo all’interno di una serie del «National Geographic» dedicata a scritti di viaggio. Alcune pagine del Diario di Oaxaca sono identiche al mio diario manoscritto, che tuttavia arricchii aggiungendo qualche ricerca su altri temi che mi avevano colpito durante il viaggio: cacao e peperoncini, mezcal e cocciniglie, la cultura mesoamericana e gli allucinogeni del Nuovo Mondo.
79. In inglese «dead European white males», spesso ridotto all’acronimo DEWM: espressione coniata nel contesto del dibattito sul politically correct (pc) in riferimento alla tendenza, nelle università americane, di insegnare soltanto quanto scritto da europei di razza bianca, sesso maschile, preferibilmente già deceduti [N.d.T.].
80. «PER IL COMPLEANNO DI OLIVER, 1997 – Quest’uomo, innamorato di una cicadina, / un tempo poteva fare pubblicità a una due ruote / re della multidiversità / Hip! Happy birth-i-day / Ha una marcia in più del vecchio Freud, alla testa degli strizzacervelli del passato. // Su una gamba sola, con l’emicrania e senza colore / si risveglia su Marte con un interesse per i cappelli / Oliver Sacks / vive ancora al massimo / e quando nuota si lascia dietro i delfini» [N.d.T.].