CITY ISLAND

Benché nel 1965 avessi lasciato la West Coast per trasferirmi a New York, rimasi in stretto contatto con Thom Gunn e ogni volta che andavo a San Francisco passavo a trovarlo. Adesso condivideva una vecchia casa con Mike Kitay e, da quel che potei capire, con altre quattro o cinque persone. C’erano migliaia di libri, naturalmente – Thom leggeva in modo serio, incessante, appassionato –, ma anche una collezione di vecchie inserzioni pubblicitarie di birre, risalenti agli anni Ottanta dell’Ottocento, un’enorme quantità di dischi, e poi la cucina, piena di spezie e odori accattivanti. A entrambi, Thom e Mike, piaceva cucinare e la casa stessa aveva un buon profumo, animata dalla mescolanza di personalità e singolari stravaganze, dal continuo andirivieni di gente. Essendo sempre stato un tipo solitario, mi piacevano molto questi brevi assaggi di vita comunitaria, che mi pareva piena di affetto e tolleranza reciproca (senza dubbio c’erano anche i conflitti, ma io ne ero in larga misura inconsapevole).

Thom era sempre stato un camminatore formidabile, su e giù con la sua gran falcata per le colline di San Francisco. Non lo vidi mai in automobile o in bicicletta: era essenzialmente un camminatore – un camminatore come Dickens, che osservava tutto per poi assorbirlo e utilizzarlo, prima o poi, in ciò che scriveva. Gli piaceva anche vagabondare per New York; quando veniva facevamo un giro a bordo dello Staten Island Ferry, oppure prendevamo un treno diretto in qualche luogo fuorimano o, ancora, ce ne andavamo a fare quattro passi per la città. Di solito approdavamo in un ristorante, ma una volta cercai di preparare io qualcosa a casa, da me. (Thom stava prendendo degli antistaminici e si sentiva troppo intontito per uscire). Io non sono certo un cuoco, e andò tutto storto: il curry mi sfuggì di mano e mi ritrovai coperto di polvere gialla. Questo episodio doveva essergli rimasto impresso, perché nel 1984, quando mi mandò la sua poesia Yellow Pitcher Plant, dedicò il manoscritto «A Sacks, Mani-di-zafferano, da Dozy Gunn»: Gunn l’Intontito.63

Nella lettera di accompagnamento mi scrisse:

 

«Che bello vederti, Mani-di-zafferano! Può darsi che sembrassi intontito dagli antistaminici, ma nel mio intimo ero attento e interessato. Ho pensato a quello che hai detto sull’aneddoto e la narrativa. Credo che tutti noi viviamo in un vortice di aneddoti ... Noi (la maggior parte di noi) componiamo la nostra vita dandole la forma di una narrazione ... Mi domando da dove venga il bisogno di “comporre” se stessi».

 

Non sapevamo mai dove sarebbe andata a finire la nostra conversazione. Quel giorno avevo letto a Thom parte di un mio pezzo ancora inedito sul signor Thompson, un paziente amnesico costretto a rimettere insieme se stesso e tutto il suo mondo a ogni istante. Ciascuno di noi, avevo scritto, costruisce per sé una «narrazione» e la vive – ed è da essa definito. Thom era affascinato dalle storie sui pazienti, e spesso mi trascinava sull’argomento (non che mi occorresse un grande incoraggiamento). Scorrendo la nostra corrispondenza trovo, in una delle prime lettere che mi scrisse, queste parole: «È stato bello vederti lo scorso fine settimana, e da allora Mike e io abbiamo continuato a pensare agli arti fantasma»; e in un’altra lettera: «Ricordo il tuo discorso sul Dolore. Anche quello sarebbe un bel libro» (purtroppo, mai scritto).

Thom aveva cominciato a inviarmi i suoi libri (sempre con dediche molto belle e personalissime) negli anni Sessanta; quanto a me, potei ricambiare solo dopo la pubblicazione di Emicrania, al principio del 1971. In seguito, gli scambi fluirono in entrambe le direzioni e ci scrivemmo regolarmente (le mie lettere occupavano spesso diverse pagine, mentre le sue, incisive e senza divagazioni, stavano sovente su una cartolina). Di tanto in tanto ci capitava di parlare del processo di scrittura, quando sgorga di getto e quando si arena, delle illuminazioni e dei momenti di oscurità, tutti aspetti che parevano essere parte integrante del processo creativo.

Nel 1982 gli avevo accennato che i ritardi, le interruzioni e i cali di entusiasmo quasi insostenibili che avevano costellato la composizione del mio libro sulla gamba sembravano essersi finalmente esauriti, dopo otto anni. Thom mi rispose:

 

«Ho sempre trovato frustrante quel tuo negarci Su una gamba sola, anche se ora forse potremo leggerlo in una versione riveduta ... Al momento sono un po’ pigro. Il mio modello sembra essere questo: una lunga interruzione di qualsiasi attività di scrittura dopo che ho finito un manoscritto; poi una ripresa esitante, seguita, negli anni immediatamente successivi, da diversi accessi di attività che mi portano a percepire il nuovo libro nel suo complesso: momenti in cui compio, sui miei temi, scoperte che non mi sarei mai aspettato. È strana, la psicologia dell’essere scrittore. D’altra parte suppongo sia meglio che non sia troppo facile – i blocchi, quel senso di paralisi, i momenti in cui il linguaggio stesso sembra morto – ebbene, credo che alla fine tutto questo mi aiuti, perché, quando poi arrivano, le “accelerazioni” sono, per contrasto, quanto mai cariche di energia».

 

Per Thom era fondamentale che i tempi di lavoro fossero i suoi – la sua poesia non poteva essere incalzata: piuttosto, doveva affiorare da sé. Perciò, benché gli piacesse insegnare (e fosse amatissimo dai suoi studenti), limitava la docenza a Berkeley a un semestre all’anno. Sostanzialmente quello era il suo unico reddito, a parte le occasionali recensioni o gli scritti su commissione. «Il mio reddito» scrisse Thom «è in media circa la metà di quello di un autista di autobus o di uno spazzino, ma è una scelta mia, perché preferisco avere del tempo libero piuttosto che lavorare a tempo pieno». Non credo però che Thom si sentisse troppo condizionato dai suoi scarsi mezzi: non eccedeva nelle spese (sebbene con gli altri fosse generoso) e sembrava frugale per natura. (La situazione si fece meno dura nel 1992, quando ricevette un MacArthur Award, grazie al quale poté viaggiare di più, godersi qualche agio e concedersi qualcosa).

Spesso ci scrivevamo a proposito dei libri che ci avevano emozionato, o che pensavamo potessero piacere all’altro («II miglior nuovo poeta che ho scoperto negli ultimi anni è Rod Taylor ... uno scrittore originalissimo – hai già letto qualcosa di suo?». Io non avevo letto niente, ma comprai subito Florida East Coast Champion). I nostri gusti non sempre coincidevano, e un libro che mi aveva entusiasmato suscitò invece il suo disprezzo e la sua rabbia, stimolando una critica così feroce che fui felice di saperla contenuta in una lettera privata. (Come Auden, anche Thom recensiva raramente ciò che non gli piaceva, e in genere le sue analisi esprimevano valutazioni positive.64 Apprezzavo la generosità e l’equilibrio di questi suoi scritti critici, soprattutto in The Occasions of Poetry).

Quando si trattava di commentare a vicenda il nostro lavoro, Thom era di gran lunga più efficace di me. Io ammiravo quasi tutte le sue poesie, ma raramente tentavo di analizzarle, mentre Thom si dava sempre un gran da fare a definire, così come li percepiva, i punti forti e le debolezze di tutto ciò che gli inviavo. A volte, specialmente i primi tempi, ero terrorizzato dalla sua sincerità; terrorizzato, in particolare, dal fatto che potesse trovare i miei scritti, così com’erano, confusi, ambigui, privi di talento o peggio. All’inizio avevo temuto le sue critiche, ma a partire dal 1971, quando gli mandai Emicrania, cominciai ad aspettare le sue reazioni con impazienza; dipendevo da esse e davo loro maggior peso che a quelle di chiunque altro.

Negli anni Ottanta, inviai a Thom i manoscritti di alcuni saggi con i quali volevo completare L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Alcuni di essi gli piacquero moltissimo (in particolare «L’artista autistico» e «I gemelli»), ma uno, «Natale», lo definì «un disastro». (Alla fine, mi trovai d’accordo con lui e lo consegnai al cestino della carta straccia).

La risposta che più di tutte mi colpì, comunque, con quel suo mettere a confronto ciò che ero diventato con quello che ero quando ci eravamo conosciuti – stava in una lettera che mi scrisse dopo che gli avevo spedito Risvegli, nel 1973:

«Risvegli è comunque straordinario. Ricordo quando mi raccontasti, verso la fine degli anni Sessanta, il tipo di libro che volevi scrivere: al tempo stesso un buon libro scientifico e qualcosa che valesse la pena di leggere perché ben scritto – sicuramente è quello che hai fatto qui ... Ho anche pensato al Grande Diario che mi facevi leggere. Ti trovavo pieno di talento, ma terribilmente carente di una qualità, proprio la più importante: chiamala umanità, o empatia, o qualcosa di simile. Francamente disperavo che tu potessi mai diventare un bravo scrittore, perché non vedevo come si potesse imparare una qualità del genere ... La tua carenza di empatia si traduceva in un limite per le tue capacità di osservatore ... Quello che non sapevo era che spesso lo sviluppo di questa qualità umana arriva tardi, oltre la soglia dei trent’anni. Ciò che mancava in quegli scritti di allora, oggi è il supremo principio organizzatore di Risvegli – e lo è in modo meraviglioso. Ed è letteralmente anche il principio organizzatore del tuo stile, ciò che ti permette di essere così aperto, così recettivo, e così vario ... Mi chiedo se tu sappia che cosa è successo. È stato semplicemente il fatto di lavorare con i pazienti tanto a lungo, oppure l’apertura facilitata dall’acido, o il fatto di esserti innamorato veramente (e non infatuato) di qualcuno? O tutte e tre le cose...».

 

Questa lettera da un lato mi riempì di entusiasmo, dall’altro fu anche un po’ motivo di tormento. Non sapevo come rispondere alla domanda di Thom. Sì, mi ero innamorato – e anche disamorato; e, in un certo senso, ero innamorato dei miei pazienti (quel tipo di amore, o di affinità, che ti fa vedere le cose con chiarezza). Non pensavo che l’acido, del quale avevo fatto una discreta esperienza, avesse avuto un ruolo autentico nell’aprirmi, benché sapessi che per Thom era stato essenziale.65 (Trovai interessante, comunque, osservare come la L-dopa che somministravo ai miei pazienti postencefalitici producesse a volte effetti simili a quelli che io stesso avevo sperimentato con l’LSD e altre droghe). Credevo invece che la psicoanalisi avesse giocato una parte essenziale nel permettermi di maturare (ero in analisi intensiva dal 1966).

Quando Thom mi parlò della maturazione dell’empatia dopo i trent’anni, non potei fare a meno di chiedermi se stesse pensando anche a se stesso, in particolare ai cambiamenti verificatisi in lui e nella sua poesia, che erano riscontrabili in I miei tristi capitani (pubblicato quando aveva trentadue anni); a proposito di quel libro in seguito scrisse: «La raccolta è divisa in due parti. La prima rappresenta il culmine del mio vecchio stile – metrico e razionale, ma che stava forse cominciando a diventare un po’ più umano. La seconda metà consiste nel mio accogliere quell’impulso umano ... in una nuova forma [che] quasi necessariamente stimolava nuovi temi».

Quando lessi The Sense of Movement avevo venticinque anni e quel che allora mi affascinò, insieme alla bellezza delle immagini e alla perfezione della forma, fu la sua enfasi quasi nietzschiana sulla volontà. All’epoca in cui mi accingevo a scrivere Risvegli, ormai vicino ai quarant’anni, ero cambiato profondamente – e anche Thom. Fu allora che mi sentii più attratto dalle sue nuove poesie, con la loro immensa gamma di temi e sensibilità, e tutti e due fummo ben felici di lasciarci alle spalle la componente nietzschiana. Negli anni Ottanta, quando entrambi varcammo la soglia dei cinquanta, la poesia di Thom, pur non avendo mai perduto la sua perfezione formale, divenne in genere più delicata e più libera. La perdita degli amici, di sicuro, ebbe una parte in tutto questo – quando Thom mi inviò Lament, pensai che fossero i versi più potenti, più toccanti, che avesse mai scritto.

Mi piaceva, in molte sue poesie, il senso della storia, dei predecessori. Talora era esplicito, come in Poem After Chaucer (che mi mandò come biglietto di auguri di buon anno per il 1971); più spesso era implicito. Questo a volte mi faceva pensare che Thom fosse un Chaucer, un Donne, un Lord Herbert, che ora si trovava nell’America – nella San Francisco – della seconda metà del ventesimo secolo. Questo senso degli antenati, dei predecessori, era una parte essenziale del suo lavoro, e spesso capitava che alludesse ad altri poeti e ad altre fonti, o che vi attingesse. Non c’era alcuna tediosa insistenza sull’«originalità», eppure, naturalmente, tutto ciò di cui si serviva subiva nel processo una trasmutazione. In seguito Thom rifletté su questo in un saggio autobiografico:

 

«Devo considerare la scrittura come una parte essenziale del modo in cui affronto la vita. Sono, comunque, un poeta decisamente imitativo. Imparo ciò che posso da chi posso. Attingo a piene mani dalle mie letture, perché prendo la lettura seriamente. Fa parte della mia esperienza totale e molta parte della mia poesia si basa su quella esperienza. Non è che mi stia giustificando per il fatto di essere imitativo ... Per me non è stato di primario interesse sviluppare una personalità poetica mia esclusiva, e mi rallegra la bella osservazione di Eliot che l’arte è una fuga dalla personalità».

 

Quando i vecchi amici si incontrano c’è il rischio che parlino soprattutto del passato. Thom e io eravamo entrambi cresciuti nella parte nordoccidentale di Londra, avevamo vissuto l’evacuazione durante la seconda guerra mondiale, avevamo giocato a Hampstead Heath e bevuto al Jack Straw’s Castle; eravamo entrambi il prodotto delle nostre famiglie, delle nostre scuole, dei nostri tempi e delle nostre culture. Questo creava tra noi un certo legame, permettendoci un’occasionale condivisione di ricordi; molto più importante, però, era il fatto che fossimo stati entrambi attratti da una nuova terra, la California degli anni Sessanta, entrambi affrancati dal passato e catapultati in viaggi, evoluzioni e sviluppi non interamente prevedibili o controllabili: il fatto, insomma, che fossimo sempre in movimento. Nella poesia On the Move, che Thom scrisse fra i venti e i trent’anni, si legge:

 

Al peggio, si è in movimento; al meglio,
non raggiungendo un assoluto in cui fermarsi,
gli si è sempre più vicini non restando immoti.

 

Passati i settant’anni, Thom era ancora on the move, pieno di energia. Quando lo vidi l’ultima volta, nel novembre del 2003, sembrava più intenso – e non meno – del giovane uomo di quarant’anni prima. Negli anni Settanta mi aveva scritto: «Ho appena pubblicato Jack Straw’s Castle. Non ho idea di come sarà il mio prossimo libro». Nel 2000 era stato pubblicato Boss Cupid, e adesso, mi disse Thom, si stava preparando a un altro libro senza avere idea di come sarebbe stato. Da quel che posso giudicare, non aveva alcuna intenzione di rallentare o di fermarsi. Credo che abbia continuato a essere in movimento, on the move, fino all’istante stesso in cui morì.

 

 

 

Nell’estate del 1979, quando andai a Manitoulin, un’isola nel lago Huron, me ne innamorai. Stavo ancora cercando di lavorare al mio esasperante libro sulla gamba e avevo deciso di fare un lungo stacco, una vacanza in cui nuotare, pensare, scrivere e ascoltare musica. (Avevo con me solo due cassette audio, di Mozart, una con la Messa in do minore e l’altra con il Requiem. A volte tendo a fissarmi su uno o due pezzi di musica, e continuo ad ascoltarli e riascoltarli, e quelle erano le due opere che risuonavano nella mia mente cinque anni prima, quando stavo lentamente scendendo dalla montagna con una gamba inservibile).

Vagabondai a lungo a Gore Bay, la città più importante di Manitoulin. Di solito sono piuttosto timido, ma lì mi scoprii a intavolare una conversazione con degli estranei. Addirittura andavo in chiesa la domenica, perché mi piaceva percepire la comunità. Mentre mi stavo preparando a partire, dopo sei settimane idilliache ma non eccessivamente produttive, alcuni degli anziani di Gore Bay mi avvicinarono con una proposta che mi sorprese. «Sembra che lei abbia gradito il suo soggiorno qui; a quanto pare l’isola le piace» dissero. «Il nostro dottore è appena andato in pensione, dopo quarant’anni. Le interesserebbe prendere il suo posto?». Di fronte alla mia esitazione, dissero che la provincia dell’Ontario mi avrebbe dato una casa e che – come avevo visto – sull’isola si viveva bene.

Trovai molto toccante questa proposta, e ci riflettei per diversi giorni, fantasticando di fare il medico su un’isola. Poi però, con qualche rimpianto, pensai: non può funzionare. Non sono fatto per essere un medico generico; ho bisogno della città, per quanto chiassosa, e della sua popolazione vasta e varia di pazienti neurologici. Dovetti dire agli anziani di Manitoulin: «Vi ringrazio – però no».

Questo accadde più di trent’anni fa, ma a volte mi chiedo ancora come sarebbe stata la mia vita se avessi detto di sì agli anziani di Manitoulin.

 

In seguito, nel 1979, trovai casa su un’isola molto diversa. Sentii parlare di City Island – che fa parte di New York City – non appena cominciai a lavorare all’Einstein nell’autunno del 1965. Lunga soltanto due chilometri e mezzo e larga meno di uno, aveva l’atmosfera di un villaggio di pescatori del New England, e dava l’impressione di trovarsi a un intero mondo di distanza dal Bronx, benché fosse a soli dieci minuti dall’Einstein e vi abitassero diversi miei colleghi. L’isola offriva piacevoli scorci sul mare in tutte le direzioni, e recarsi a pranzo in uno dei suoi molti ristoranti che servivano pesce era una piacevole interruzione della giornata: giornata che, quando la ricerca era stimolante, poteva durare anche diciotto ore.

City Island aveva la sua identità, le sue regole e le sue tradizioni, e i nativi dell’isola, i «pescatori di vongole», sembravano particolarmente rispettosi dell’eccentricità: a prescindere dal fatto che si trattasse del dottor Schaumburg, un collega neurologo che aveva avuto la polio da bambino e andava lentamente su e già per City Island Avenue a bordo del suo triciclo; o di Mad Mary, Mary la pazza, una donna che periodicamente diventava psicotica e si metteva in piedi nel cassone del suo pickup, predicando il fuoco dell’inferno. Mary, però, era accettata – né più né meno – come una vicina. Anzi, sembrava avere un ruolo speciale di donna saggia, il cui robusto buon senso e buonumore erano stati forgiati tra le fiamme della psicosi.

Quando fui sfrattato dal mio appartamento al Beth Abraham, avevo preso in affitto da una simpatica coppia un attico a Mount Vernon, ma spesso andavo in auto o in bicicletta a City Island e a Orchard Beach. Nelle mattine d’estate raggiungevo la spiaggia in bici per fare una nuotata prima di recarmi al lavoro, e nei fine settimana nuotavo più a lungo, a volte facendo il giro completo di City Island, un’impresa che richiedeva circa sei ore.

Fu proprio durante una di queste nuotate, nel 1979, che individuai un bel gazebo vicino all’estremità dell’isola; uscii dall’acqua per guardarlo e poi camminai lungo la strada, dove vidi un cartello «vendesi» di fronte a una casetta. Bussai tutto gocciolante alla porta e conobbi il proprietario – un oculista dell’Einstein. Aveva appena terminato la sua fellowship e adesso si stava trasferendo, con la famiglia, sulla costa settentrionale del Pacifico. Mi mostrò tutta la casa (mi feci prestare un asciugamano per non gocciolare all’interno): fui preso all’amo. Ancora in costume da bagno, scalzo, risalii di buon passo City Island Avenue fino allo studio dell’agente immobiliare e le dissi che volevo acquistare la casa.

Avevo tanto desiderato una casa tutta mia, come quella che avevo affittato a Topanga Canyon ai tempi dell’UCLA. E la volevo vicino all’acqua, in modo da potermi infilare sandali e costume e andare a piedi direttamente al mare. La casetta rossa rivestita di legno, su Horton Street, a neanche un isolato dalla spiaggia, era quindi l’ideale.

Come proprietario di casa ero del tutto inesperto, e il disastro non si fece attendere. Quel primo inverno, quando me ne andai per passare una settimana a Londra, non avevo pensato che avrei dovuto lasciare acceso il riscaldamento per evitare che le condutture dell’acqua gelassero. Tornato da Londra, aprii la porta e trovai ad accogliermi uno spettacolo spaventoso. Una tubatura era scoppiata allagando il piano di sopra, e tutto l’intonaco del soffitto della sala da pranzo penzolava sbrindellato sopra il tavolo. Tavolo e sedie erano completamente rovinati, come pure il tappeto sotto di essi.

Mentre ero a Londra, mio padre mi aveva suggerito – adesso che avevo una casa – di prendere il suo pianoforte; era uno splendido Bechstein a coda del 1895, il suo anno di nascita. Lo possedeva da più di cinquant’anni, e l’aveva suonato tutti i giorni, ma adesso, a ottantacinque anni, le mani gli si stavano irrigidendo per via dell’artrite. Alla vista di quello scempio, fui investito da un’ondata di orrore reso più acuto dal pensiero che – se avessi comprato la casa qualche mese prima – quello era esattamente il punto in cui si sarebbe trovato il pianoforte.

Molti miei vicini di City Island erano marinai. La casa adiacente alla mia apparteneva a Skip Lane e a sua moglie Doris. Per gran parte della sua vita Skip era stato capitano su grandi mercantili e la sua casa era talmente piena di bussole, timoni, chiesuole e lanterne da sembrare essa stessa un’imbarcazione. Le pareti erano tappezzate di fotografie delle navi che aveva capitanato.

Skip aveva un repertorio infinito di storie di vita marinara, ma adesso che era in pensione aveva rinunciato alle sue grandi navi per una minuscola Sunfish che governava da solo; spesso, portandola a vela, attraversava Eastchester Bay, e arrivare fino a Manhattan non lo impressionava affatto.

Benché dovesse pesare 110 chili buoni, Skip aveva una forza enorme ed era sorprendentemente agile. Spesso lo vedevo fare riparazioni sul tetto della sua casa – credo che gli piacesse la sensazione di stare in alto – e una volta in cui era stato sfidato si arrampicò su un pilone del City Island Bridge, alto nove metri, tirandosi su a forza di muscoli e poi tenendosi in equilibrio su una delle travate.

Skip e Doris erano vicini perfetti, mai invadenti ma all’occorrenza infinitamente disponibili, dotati di grande energia e di gusto per la vita. Su Horton Street c’era soltanto una dozzina di case, forse in tutto eravamo una trentina, e se tra noi ci fu mai un leader, un uomo capace di decidere, quello era Skip.

Un giorno, al principio degli anni Novanta, ci avvertirono che un grosso uragano si stava dirigendo verso di noi, e la polizia arrivò con i megafoni per dirci di evacuare. Ma Skip, che conosceva tutti i capricci delle tempeste e del mare, e che aveva una voce più forte di qualsiasi megafono in dotazione alla polizia, non era d’accordo. «Fermi!» ruggì. «Non muovetevi!». Ci invitò tutti, a mezzogiorno, nel portico di casa sua a uno hurricane party, per guardare l’occhio del ciclone passare oltre. Proprio prima di mezzogiorno, come aveva previsto Skip, il vento cessò e calarono una quiete e un silenzio improvvisi. Adesso, nell’occhio del ciclone, il sole brillava e il cielo era terso: una calma magica e idilliaca. Skip ci disse che a volte si potevano vedere uccelli o farfalle che erano stati trasportati nell’occhio del ciclone per migliaia di chilometri, perfino dall’Africa.

A Horton Street, nessuno chiudeva a chiave la porta di casa. Tutti ci guardavamo l’un l’altro e tenevamo d’occhio anche la nostra spiaggetta comune. Era profonda solo qualche metro, ma era la nostra spiaggia, e a ogni Labor Day facevamo una festa su quel piccolo tratto di sabbia, arrostendo lentamente un intero maiale allo spiedo.

Spesso me ne andavo nella baia a fare lunghe nuotate con David, un altro vicino, dotato della prudenza e del buon senso che a me facevano difetto, e che in definitiva mi teneva lontano dai guai. Talora, però, mi spingevo troppo lontano; una volta nuotai fino al Throgs Neck Bridge, e poco mancò che fossi tagliato a metà da un’imbarcazione. Quando glielo raccontai, David rimase scioccato e mi disse che, se avessi insistito a nuotare («come un idiota») sulle rotte delle navi, avrei dovuto, quanto meno, portarmi dietro un galleggiante di segnalazione arancione per rendermi visibile.

A volte, nelle acque a largo di City Island, incontravo delle piccole meduse, ma ignoravo il leggero bruciore che mi provocavano sfiorandomi; a metà degli anni Novanta, però, cominciarono a comparirne di molto più grosse. Si trattava di Cyanea capillata, la medusa criniera di leone (la stessa responsabile di una morte misteriosa nell’ultimo racconto di Sherlock Holmes). Da queste era meglio non farsi toccare. Lasciavano dolorosissime bruciature sulla pelle, oltre a produrre spaventosi effetti sulla frequenza cardiaca e la pressione ematica. In un’occasione, il figlio di uno dei miei vicini, un bambino di dieci anni, ebbe una pericolosa reazione anafilattica alla puntura di una di esse; la faccia e la lingua gli si gonfiarono al punto che quasi non poteva più respirare, e solo una tempestiva iniezione di adrenalina gli salvò la vita.

Quando il problema delle meduse peggiorò, cominciai a nuotare con una muta integrale, completa di maschera per coprire la faccia; mi restavano esposte soltanto le labbra, che spalmavo abbondantemente di vaselina. Anche così, un giorno provai un autentico terrore quando mi trovai sotto un’ascella una Cyanea delle dimensioni di un pallone da football; quell’episodio segnò la fine delle mie nuotate spensierate.

Ogni anno – a maggio e a giugno, nel periodo di luna piena – sulla nostra spiaggia, come su quelle di tutto il Nordest, si celebrava un rituale antico e meraviglioso, quando i limuli, creature cambiate pochissimo dal Paleozoico a oggi, si arrampicavano sulla riva per l’accoppiamento annuale. Nell’osservare quel rituale, che si ripeteva ogni anno da più di quattrocento milioni di anni, percepivo intensamente la realtà del tempo profondo.

 

City Island era un luogo per passeggiare, per andarsene in giro a camminare tranquillamente – su e giù per City Island Avenue e per le sue traverse, ciascuna non più lunga d’un paio di isolati. C’erano molte belle case di epoca vittoriana con il tetto a due spioventi; e c’erano ancora alcuni cantieri navali rimasti dai tempi del massimo splendore dell’isola come centro per la costruzione di imbarcazioni da diporto. City Island Avenue era costeggiata da ristoranti che imbandivano piatti di mare: dall’elegante e venerando Thwaite’s Inn, al Johnny’s Reef Restaurant, un locale all’aperto che serviva fish and chips. Il mio preferito, un posto tranquillo e senza pretese, era Spouter’s Inn, con le pareti tappezzate di fotografie di pesca alla balena – e zuppa di piselli tutti i giovedì. Era anche il preferito di Mad Mary.

Nell’atmosfera di questa cittadina, gran parte della mia timidezza si scioglieva. Ero in confidenza con il direttore di Spouter’s, con il gestore della stazione di servizio e con gli impiegati dell’ufficio postale (secondo i quali, a memoria d’uomo, nessuno aveva mai ricevuto o spedito tante lettere come me: quantità che aumentò di un ordine di grandezza dopo la pubblicazione del Cappello).

Talora, oppresso dal vuoto e dal silenzio della casa, andavo al Neptune, un ristorante stranamente poco frequentato e poco conosciuto, proprio in fondo a Horton Street, e me ne stavo lì seduto per ore a scrivere. Credo che ai padroni piacesse quel loro silenzioso scrittore, che ordinava un piatto diverso all’incirca ogni mezzora, giacché mai avrebbe voluto che il locale subisse un danno economico per colpa sua.

 

Al principio dell’estate del 1994 fui adottato da una gatta randagia. Una sera, rientrando dopo essere stato in città, la trovai lì, tranquillamente acciambellata nel portico. Entrai in casa e le portai fuori un piattino di latte; lei lo lappò assetata. Poi mi guardò con un’espressione che diceva: «Grazie, amico, ma io avrei anche fame...».

Le riempii di nuovo il piattino e tornai con un pezzo di pesce, il che sigillò tra noi un patto implicito ma chiaro: se fossimo riusciti a organizzare una convivenza, lei sarebbe restata con me. Le trovai un cestino e glielo misi su un tavolo nel portico davanti alla casa; la mattina dopo fui felice di vedere che era rimasta. Le diedi dell’altro pesce, le lasciai una ciotola di latte, e me ne andai al lavoro. La salutai con la mano; credo avesse capito che sarei tornato.

Quella sera la trovai lì ad aspettarmi; anzi, mi salutò facendo le fusa, inarcando il dorso e strofinandosi contro la mia gamba, e quando lo fece io mi sentii stranamente commosso. Dopo che ebbe mangiato, mi sistemai io stesso, come mi piaceva fare, su un divano accanto alla finestra affacciata sul portico, per cenare. La gatta saltò sul suo tavolo fuori, e si mise a osservarmi mentre mangiavo.

La sera seguente, quando tornai a casa, misi il suo pesce ancora fuori sul pavimento, ma questa volta, per chissà quale ragione, la gatta non lo mangiò. Quando posai il pesce sul tavolo, lei ci salì con un balzo, ma fu solo quando anch’io mi fui sistemato sul divano accanto alla finestra che, mettendosi parallela a me, cominciò a mangiare la sua cena mentre io consumavo la mia. E così mangiammo insieme, in sincronia. Trovavo straordinario questo rituale, che si sarebbe ripetuto ogni sera. Credo che entrambi provassimo un senso di amicizia: cosa che uno potrebbe aspettarsi da un cane, ma raramente da un gatto. Alla gatta piaceva stare con me; addirittura, dopo qualche giorno cominciò ad accompagnarmi alla spiaggia e a sedermisi accanto su una panchina.

Una volta mi portò un uccellino, e capii che doveva essere andata a caccia, come fanno i gatti: ma non so che cosa facesse durante la giornata. Quando io ero in casa, però, lei stava sempre nel portico. Ero incantato e affascinato da questa relazione interspecifica. Era forse così che l’uomo e il cane si erano incontrati, centomila anni fa?

Quando cominciò a fare più freddo, verso la fine di settembre, diedi la gatta – la chiamavo soltanto Puss, e lei mi rispondeva – ad alcuni amici, e Puss visse felice con loro per i successivi sette anni.

 

Fui fortunatissimo a trovare Helen Jones: una splendida cuoca e donna di casa che viveva nelle vicinanze e veniva da me una volta alla settimana. Quando arrivava, ogni giovedì mattina, uscivamo per andare nel Bronx e fare insieme un po’ di spesa: la nostra prima tappa era un negozio di pesce di Lydig Avenue, gestito da due fratelli siciliani che si somigliavano come gemelli.

Quando ero bambino, il pescivendolo veniva a casa nostra ogni venerdì portando un secchio pieno di carpe e altri pesci vivi. Mia madre lessava i pesci, li condiva e li tritava tutti insieme e poi preparava una gran ciotola di gefilte fish; questo, insieme a insalate, frutta e challah, ci accompagnava per tutto lo Shabbath, quando non era consentito cucinare. I pescivendoli siciliani su Lydig Avenue erano ben lieti di venderci carpe, coregoni e lucci. Non avevo idea di come Helen, una brava cristiana che frequentava la chiesa, si arrangiasse a preparare una simile prelibatezza ebraica, ma la sua capacità di improvvisazione era formidabile e preparava un gefilte fish stupendo (lei lo chiamava filter fish): buono – dovetti ammettere – come quello di mia madre. Helen perfezionava il suo filter fish ogni volta che lo preparava, e i miei amici e i miei vicini impararono ad apprezzarlo. Lo stesso accadde agli amici che frequentavano la chiesa di Helen: mi piaceva pensare ai suoi compagni di fede battista che si abbuffavano di gefilte fish in occasione degli eventi sociali della loro chiesa.

 

In un giorno d’estate, negli anni Novanta, tornando dal lavoro mi imbattei, sul portico di casa mia, in una strana apparizione: un uomo con un’enorme barba nera e una gran testa di capelli. Un folle vagabondo, fu la mia prima impressione. Solo quando il vagabondo aprì bocca, capii chi era: il mio vecchio amico Larry. Erano molti anni che non lo vedevo e avevo finito per pensare, come molti di noi, che probabilmente fosse morto.

Avevo conosciuto Larry al principio del 1966, quando stavo cercando di riprendermi da quei miei primi terribili mesi di dipendenza dalle droghe a New York. Stavo mangiando bene, facevo movimento e riacquistavo le forze, andando regolarmente in una palestra del West Village. Il sabato mattina la palestra apriva alle otto in punto e spesso io ero il primo a entrare. Un sabato iniziai il mio allenamento con la macchina per gli esercizi di distensione delle gambe; in California ero stato un potente squatter e mi chiedevo quanta forza avessi recuperato. Portai il peso a 360 chili – facile; a 450 – stimolante; 540 – una follia. Sapevo che per me era troppo, ma rifiutai di ammettere il fallimento. Feci tre-quattro ripetizioni soltanto, e alla quinta le forze mi vennero meno. Ero inerme, steso sotto 540 chili, con le ginocchia schiacciate contro il torace. Riuscivo a malapena a respirare, figuriamoci se potevo gridare per chiedere aiuto: cominciai a domandarmi quanto avrei potuto resistere. Sentivo che la testa mi si stava ingorgando di sangue, e temevo un ictus da un momento all’altro. In quell’istante la porta si spalancò ed entrò un giovane possente che si accorse della mia situazione e mi aiutò a sollevare il bilanciere. Lo abbracciai e gli dissi: «Mi hai salvato la vita».

Nonostante l’intervento tempestivo, Larry sembrava molto timido. Per lui era difficile stabilire un contatto, e aveva un’espressione ansiosa, ossessiva, con gli occhi che non si posavano mai. Adesso che il contatto era stato stabilito, però, non poteva più smettere di chiacchierare: forse io ero la prima persona con cui parlava da settimane. Aveva diciannove anni, mi disse, e l’anno prima era stato congedato dall’esercito perché mentalmente instabile. Si manteneva con una piccola pensione erogata dal governo. Stando a quel che vedevo, si sostentava a latte e pane, passava sedici ore al giorno a camminare per le strade (o a correre, se era in campagna) e la notte si contentava di dormire dove capitava.

Non aveva mai conosciuto i suoi genitori, mi disse. Quando era nato, sua madre aveva una sclerosi multipla in stato avanzato ed era fisicamente incapace di occuparsi di lui. Suo padre era un alcolizzato e aveva abbandonato lui e la madre subito dopo la sua nascita; così Larry era passato da un affido all’altro. Mi sembrava che non avesse mai conosciuto un’autentica stabilità.

Benché all’epoca non lesinassi termini psichiatrici, non mi interessava formulare una «diagnosi» per Larry. Riuscivo soltanto a pensare all’amore, all’attenzione e alla stabilità che gli erano stati negati – a tutto il rispetto che gli era stato negato – e mi meravigliavo che fosse sopravvissuto psichicamente. Era molto intelligente e decisamente più informato di me sugli eventi d’attualità. Trovava in giro vecchi giornali e li leggeva da cima a fondo. Rifletteva con piglio tenace e implacabile su tutto quello che aveva letto o gli era stato raccontato. Non credeva a nulla sulla parola.

Non aveva alcuna intenzione di trovarsi un lavoro, il che, pensavo io, richiedeva una particolare integrità. Era ben determinato a evitare un arrabattarsi privo di senso; era frugale, e con la sua modesta pensione riusciva a vivere e anche a risparmiare.

Passava le giornate a camminare; per lui, percorrere i trenta chilometri abbondanti che separavano il suo appartamento nell’East Village dalla mia casa a City Island non era insolito. A volte restava a dormire sul mio divano; un giorno trovai in fondo al frigo alcune barre molto pesanti – barre d’oro che Larry aveva acquistato nel corso degli anni. Le aveva nascoste a casa mia, convinto che sarebbero state più al sicuro lì che da lui. L’oro, diceva, era l’unico bene su cui si potesse fare affidamento in un mondo instabile; azioni, titoli, terreni e opere d’arte potevano tutti perdere il proprio valore nel giro di una notte, ma l’oro («l’elemento 79», come era solito chiamarlo per farmi piacere) avrebbe sempre conservato il suo valore. Perché avrebbe dovuto lavorare, avere un posto di lavoro, quando poteva vivere ed essere indipendente, un uomo libero, senza farlo? Mi piaceva il suo coraggio, la sua onestà, nel dire questo; e, in un certo senso, ero convinto che fosse una delle creature più libere che avessi mai conosciuto.

Larry era trasparente, aveva un carattere mite e molte donne lo trovavano attraente. Era stato sposato per qualche anno, nell’East Village, con una donna dalle forme generose che però un giorno era stata assassinata in modo atroce da alcuni delinquenti che irruppero nel loro appartamento cercando della droga. Non la trovarono, ma Larry trovò il corpo senza vita di lei.

In larga misura, Larry era sempre vissuto nutrendosi di latte e pane, e adesso, nel suo dolore per la morte della moglie, non voleva altro che latte. Era consumato da una fantasia, immaginava di andare in giro per il mondo insieme a una donna enorme che lo cullava come un neonato e lo allattava attaccandoselo al seno. Non ho mai sentito parlare di una fantasia più primaria di questa.

A volte non vedevo Larry per settimane o per mesi – non avevo modo di contattarlo –, ma poi, all’improvviso, lui ricompariva.

Era un alcolista, come suo padre, e l’alcol innescava nel suo cervello un che di maligno e autodistruttivo. Lui lo sapeva e di solito evitava di bere. Un paio di volte, verso la fine degli anni Sessanta, ci calammo un acido insieme, e a lui piaceva venire con me in moto a visitare mia cugina Cathy, una delle figlie di Al Capp, che viveva nella Bucks County. Cathy era schizofrenica, ma lei e Larry si capivano istintivamente, e stabilirono uno strano legame.

Anche Helen adorava Larry, che piaceva a tutti i miei amici; era un essere umano del tutto indipendente, una sorta di moderno Thoreau urbano.

 

 

 

A New York conobbi alcuni miei cugini americani, i Capp (il loro cognome originale era Caplin, e in realtà erano miei secondi cugini). Il più anziano era Al Capp, il fumettista. Al aveva una sorella, Madeline, e due fratelli più giovani, entrambi fumettisti come lui: Bence ed Elliott, quest’ultimo anche autore teatrale.

Ho ricordi intensi del primo seder a cui partecipai, in casa Capp, nel 1966. Avevo trentadue anni, e Louis Gardner, il marito di Madeline, era un quarantottenne giovanile e prestante, molto impettito, con un portamento militaresco; oltre che architetto, era colonnello nelle riserve. A capotavola, Louis conduceva il seder, Madeline era seduta all’estremo opposto, e in mezzo c’era uno straordinario gruppo di famiglia: Bence, Elliott e Al, con le mogli. I bambini di Louis e Madeline correvano da tutte le parti, quando non recitavano le quattro domande o non cercavano l’afikomen.

Eravamo tutti nel fiore degli anni, a quel tempo. Al, ancora il brillante e amato creatore di Li’l Abner, era letto e ammirato in tutta l’America. Elliott, il più riflessivo dei fratelli, era apprezzato per i suoi saggi e i suoi lavori teatrali. Bence (Jerome) era scoppiettante di energia creativa e Madeline, la beniamina dei suoi fratelli, era al centro di tutto. Erano quattro conversatori brillanti ed esuberanti, e a volte pensavo che Madeline fosse la più intelligente; l’ictus che l’avrebbe resa afasica era ancora lontano, nel futuro.66

Vidi Al molto spesso; a metà degli anni Sessanta, quando lo conobbi, era uno strano personaggio. Trent’anni prima, tutti i fratelli erano stati comunisti impegnati o simpatizzanti, ma di recente Al era andato incontro a una strana inversione politica, diventando amico di Nixon e di Agnew (benché io abbia il sospetto che quelli non si fidassero del tutto di lui, giacché il suo spirito e la sua satira potevano essere puntati contro chiunque detenesse il potere).

Al aveva perso una gamba a nove anni, in un incidente stradale, e sfoggiava una gamba di legno molto grossa (mi faceva pensare alla gamba d’osso di balena del capitano Achab). Può darsi che la sua aggressività, la sua competitività, la sua sessualità sfrontata avessero a che fare, in parte, con l’essere stato menomato, con l’idea di dover dimostrare di non essere uno storpio ma una sorta di superuomo – tuttavia io non mi imbattei mai in questo aspetto di Al. Con me fu sempre gentile e cordiale; maturai per lui un vero entusiasmo e pensavo fosse pieno di vitalità creativa e di fascino.

Al principio degli anni Settanta, accanto all’attività di fumettista, Al tenne molti corsi universitari. Era un oratore brillante e un beniamino dei giri di conferenze, anche se intorno a lui cominciavano a raccogliersi voci inquietanti, cioè che forse si prendeva qualche libertà di troppo con alcune studentesse. Le voci si fecero sempre più inquietanti, e furono mosse delle accuse. Ne seguì uno scandalo, e Al fu licenziato dalle centinaia di giornali con i quali lavorava da una vita. All’improvviso, l’amato fumettista che aveva creato Dogpatch e lo Shmoo, l’uomo che in un certo senso era, in campo grafico, il Dickens d’America, si ritrovò insultato e senza lavoro.

Per un po’ di tempo si ritirò a Londra, dove viveva in albergo e di tanto in tanto pubblicava qualche articolo e qualche striscia. Ma ormai, come si dice, era un uomo finito; la sua incontrollabile esuberanza e la sua vitalità lo abbandonarono. Rimase depresso e con la salute sempre più malferma fino alla morte, nel 1979.

 

Un altro cugino, Aubrey «Abba» Eban, era il prodigio della famiglia, l’intelligentissimo figlio di Alida, sorella di mio padre. Fin da bambino aveva mostrato di possedere talenti fuori dal comune e aveva fatto una sfolgorante carriera a Cambridge, dove era stato eletto presidente della Cambridge Union, aveva conseguito risultati di assoluta eccellenza, ed era poi diventato professore di lingue orientali. Aveva dimostrato che – nonostante l’antisemitismo diffuso nell’Inghilterra degli anni Trenta – un ragazzo ebreo senza alcun vantaggio di censo, nascita o relazioni sociali, con la sola dotazione di un cervello straordinario, poteva arrivare ai vertici di una delle più antiche università inglesi.

A vent’anni, la sua eloquenza appassionata e il suo grandissimo spirito erano già pienamente sviluppati, ma era poco chiaro se queste doti lo avrebbero indirizzato a una vita politica – nel 1917 sua madre, mia zia, aveva tradotto la Dichiarazione Balfour in francese e in russo, e Aubrey era stato un sionista impegnato e idealista fin da giovanissimo – o se invece avrebbe condotto una vita di studio rimanendo a Cambridge. La guerra e gli sviluppi in Palestina determinarono il corso della sua vita.

Aubrey aveva quasi vent’anni più di me, e io non ebbi molti contatti con lui fino a metà degli anni Settanta. La sua vita era in Israele; la mia, prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti; la sua era la vita di un diplomatico e di un politico; la mia, quella di un medico e di uno scienziato. Ci vedevamo raramente e brevemente in occasione di matrimoni e altri eventi familiari. Quando visitava New York, come ministro degli esteri o vice primo ministro di Israele, sembrava sempre attorniato dagli uomini della sicurezza e le possibilità di dirsi più di qualche parola erano limitate.

Un giorno del 1976, però, fummo entrambi invitati a un pranzo da Madeline, e non appena ci trovammo fu evidente – a noi e a tutti i presenti – che avevamo sorprendenti somiglianze nei gesti e nella postura: nel modo in cui sedevamo, nei movimenti bruschi e goffi, nel nostro stile di conversazione e di pensiero. Tutt’a un tratto, a un certo momento, ci alzammo, agli estremi opposti della tavola, e andammo a collidere sulla gelatina di barbabietola, che piaceva a entrambi ma tutti gli altri detestavano. L’intera tavolata scoppiò a ridere di fronte a queste somiglianze e a queste coincidenze, e io dissi a Aubrey: «Non ti ho visto quasi mai, e facciamo una vita decisamente diversa, ma ho la sensazione che ci sia una somiglianza genetica maggiore fra noi due che non tra me e i miei tre fratelli». Lui disse che aveva avuto la stessa sensazione, che in qualche modo io gli fossi più affine dei suoi tre fratelli.

Come poteva essere? chiesi io. «Atavismo» fu la sua istantanea risposta.

«Atavismo?» sgranai gli occhi.

«Sì, atavus, nonno» replicò Aubrey. «Tu non hai conosciuto il nostro nonno Elivelva (anche se porti il suo stesso nome ebreo e yiddish): morì prima che tu nascessi. Ma fu lui ad allevarmi quando venimmo in Inghilterra, fu lui il mio primo vero maestro. La gente rideva quando ci vedeva insieme; diceva che tra il vecchio e il bambino c’era una somiglianza misteriosa. Non c’era nessun altro, nella sua stessa generazione, che parlasse o si muovesse o pensasse come lui; e nessuno come lui nemmeno nella generazione dei miei genitori; e io pensavo che non ci fosse neppure nella mia, finché tu non sei entrato da quella porta, e ho pensato che il nonno fosse tornato in vita».

Per Aubrey, che si era conquistato l’attenzione del mondo come la «voce di Israele», il futuro aveva in serbo uno sviluppo tragico, o paradossale: la sua eloquenza appassionata e raffinata, il suo accento di Cambridge finirono per essere considerati pomposi e superati da una nuova generazione; la padronanza dell’arabo e la conoscenza della cultura araba, ispirate alla tolleranza, lo resero poi quasi sospetto, in un’atmosfera sempre più partigiana (il suo primo libro era stato una traduzione del Diario di un procuratore di campagna di Tawfīq al-H.akīm). Così, alla fine, perse la sua posizione di potere e tornò a una vita di studioso e storico (e divenne anche un brillante commentatore, nei suoi libri e alla televisione). Aveva, mi disse, sentimenti conflittuali: dopo decenni di totale immersione nella politica e nella diplomazia, sentiva «un vuoto», e d’altra parte provava anche una pace della mente, improvvisa e senza precedenti. Il suo primo atto, da uomo libero, fu di andare a farsi una nuotata.

Una volta, nel periodo in cui era visiting professor all’Institute of Advanced Study di Princeton, gli chiesi come si trovasse nell’ambiente accademico. Lui assunse un’espressione malinconica e disse: «Mi struggo per l’arena politica». Ma quando quell’arena divenne più tempestosa, limitata e partigiana, Aubrey, con le sue simpatie culturali allargate e la sua apertura mentale, provò sempre meno struggimento. Una volta gli chiesi come volesse essere ricordato, e lui rispose: «Come un insegnante».

A Aubrey piaceva raccontare storie e, conoscendo il mio interesse per le scienze fisiche, mi narrò diversi episodi sui suoi contatti con Albert Einstein. Dopo la morte di Chaim Weizman, nel 1952, Aubrey fu incaricato di offrire a Einstein (che ovviamente declinò) di succedergli alla presidenza di Israele. In un’altra occasione – Aubrey lo raccontava con un sorriso – lui e un collega del consolato israeliano avevano fatto visita allo scienziato nella sua casa di Princeton. Einstein li aveva invitati a entrare e poi aveva cortesemente chiesto loro se desiderassero un caffè, al che (pensando che se ne sarebbe occupato un assistente o una governante) Aubrey disse di sì. Rimase invece «inorridito», come lui stesso raccontava, quando Einstein in persona se ne andò trottando in cucina. Subito dopo sentirono sbattere tazze e pentole, insieme a qualche coccio che cadeva in terra, mentre il grand’uomo, molto cordiale ma un tantino goffo, preparava loro il caffè. Secondo Aubrey, questo – più di qualsiasi altra cosa – gli aveva mostrato il lato tenero e umano del più grande genio del mondo.

Negli anni Novanta, non più gravato dagli impegni o reso inarrivabile dalla sua carica, Aubrey veniva a New York in modo più libero e rilassato, e lo vidi più di frequente, a volte con la moglie Suzy, e spesso con la sorella minore Carmel, che abitava anche lei a New York. Aubrey e io diventammo amici, mentre le grandissime differenze tra le nostre vite e i quasi vent’anni che ci separavano contavano sempre meno.

 

 

 

Cara, tremenda Carmel! Esasperava chiunque, perlomeno tutti i suoi familiari, ma io avevo un debole per lei.

Per molti anni, Carmel, attrice da qualche parte in Kenya, fu una figura mitica; negli anni Cinquanta, però, venne a New York e sposò un regista di nome David Ross, con il quale fondò un piccolo teatro per mettere in scena le opere di Ibsen e Čechov che più le erano care (anche se le sue preferenze andavano sempre a Shakespeare).

Quando la conobbi, nel maggio del 1961, mi ero appena lasciato alle spalle San Francisco in sella alla mia moto – quella di seconda mano, morta in Alabama – e avevo fatto il resto del viaggio fino a New York in autostop. Quando mi ricevette nel suo elegante appartamento sulla Fifth Avenue, ero alquanto sporco e trasandato; mi intimò di fare un bagno e mi procurò dei vestiti puliti mentre i miei venivano lavati.

All’epoca David stava andando alla grande, aveva avuto una serie di successi di critica e di pubblico e – mi raccontò Carmel – stava cominciando a essere considerato un personaggio importante nel mondo del teatro newyorkese. Quando lo incontrai, era in vena di ostentazione ed eccessi; parlava urlando, ruggiva come un leone, e ci portò alla Russian Tea Room per una cena incredibilmente costosa, da sei portate: tutto quello che c’era sul menù, innaffiato da cinque o sei tipi diversi di vodka. Questo andava oltre la mera esuberanza, e mi chiesi se non vi fosse, in lui, una nota maniacale.

Anche Carmel era alquanto su di giri; non vedeva alcuna ragione per non poter padroneggiare il norvegese e il russo – con il suo orecchio per le lingue ci avrebbe messo solo qualche settimana – e fornire così lei stessa le sue traduzioni di Ibsen e Čechov. È probabile che quelle traduzioni spieghino in parte perché, al suo debutto a Londra, il John Gabriel Borkman di David fu un fiasco e gli fece perdere un mucchio di soldi. Gran parte di quel denaro Carmel l’aveva ottenuta circuendo i suoi familiari – che non potevano permettersi di perderlo – e non lo restituì mai. Alcuni anni dopo, David, che era soggetto a gravi depressioni, dovette essere ricoverato a New York e di lì a poco morì: non si appurò mai se per un’overdose accidentale o un atto suicida. Carmel, profondamente scossa, tornò a Londra, dove aveva familiari e amici.

 

Ci incontrammo di nuovo nel 1969, mentre mi trovavo a Londra impegnato a scrivere le prime storie di Risvegli, ed Emicrania era ancora in corso di stampa presso Faber & Faber. Carmel mi chiese di vedere quello che avevo scritto e, dopo aver letto le bozze di Emicrania, mi disse: «Ma guarda un po’, sei proprio uno scrittore!». Nessuno mi aveva mai detto prima una cosa del genere; Emicrania stava per essere pubblicato dalla divisione medica di Faber & Faber ed era considerato dai miei editori un libro di medicina, una monografia eccentrica sull’emicrania – non un’opera di «scrittura». Inoltre, per il momento, ancora nessuno aveva letto le prime storie dei casi di Risvegli – a parte Faber & Faber, che le aveva respinte come impubblicabili. Perciò fui rinfrancato dalle parole di Carmel e dalla sua convinzione che Emicrania potesse essere accolto bene non solo dai medici, ma anche dal pubblico generale e perfino da lettori di inclinazione «letteraria».

Quando Faber & Faber posticipò l’uscita di Emicrania, io sentii crescere in me la frustrazione e Carmel, capendo la situazione, intervenne in modo decisivo.

«Devi prenderti un agente» disse. «Uno che ti rappresenti e non permetta che ti imbroglino».

Fu Carmel a presentarmi Innes Rose, l’agente che fece pressione sui miei editori per l’uscita del libro. Senza Innes, e senza Carmel, probabilmente Emicrania non avrebbe mai visto la luce.

Carmel tornò a New York a metà degli anni Settanta, dopo la morte di sua madre, e prese un appartamento sulla Sessantatreesima Est. Divenne una sorta di agente sia per me, sia per Aubrey, che allora era impegnato con una serie di libri e programmi televisivi sulla storia degli ebrei. Ma né il lavoro di agente, né la recitazione, entrambi svolti part-time, potevano pagare il suo affitto in una New York sempre più costosa; e così per i successivi trent’anni Aubrey e io colmammo l’ammanco.

In quegli anni, Carmel e io ci vedemmo moltissimo. Andavamo spesso a teatro insieme, e uno dei lavori che vedemmo fu Wings, in cui Constance Cummings interpretava il ruolo di un’aviatrice che perde l’uso della parola in seguito a un ictus. A un certo punto Carmel, voltandosi verso di me, mi chiese se non trovassi profondamente toccante la sua performance, e rimase sorpresa quando le dissi di no.

Perché no? mi chiese. Perché, risposi, il suo modo di parlare non somigliava per niente a quello delle persone con afasia.

«Oh, voi neurologi!» fece lei. «Non puoi dimenticare per un momento la tua neurologia e lasciarti trascinare dal dramma, dalla recitazione?».

«No» dissi. «Se il linguaggio non somiglia per niente a quello degli afasici, allora tutto il lavoro mi sembra irreale». Carmel scosse la testa di fronte alla mia intransigenza e alle mie vedute ristrette.67

Quando Hollywood prese in considerazione Risvegli e io incontrai Penny Marshall e Robert De Niro, Carmel era emozionatissima. Il suo istinto, però, le giocò un brutto scherzo nel momento in cui, in occasione del mio cinquantacinquesimo compleanno, De Niro (con quel suo modo di fare invisibile) venne alla mia festa a City Island, riuscendo ad arrivare alla mia casetta e a sistemarsi tranquillamente al piano di sopra senza che nessuno lo riconoscesse. Quando dissi a Carmel che era arrivato De Niro, lei replicò a voce molto alta: «Ma quello non è mica De Niro. È un sosia, un doppio, uno mandato dallo studio. Io lo so com’è un attore vero, e questo non me la fa nemmeno per un istante». Carmel sapeva come proiettare la voce, e tutti sentirono il suo commento. Io stesso ebbi un attimo di incertezza, e andai alla cabina telefonica all’angolo, da dove chiamai lo studio dell’attore. Sconcertati, mi dissero che ovviamente il mio ospite era il vero De Niro. Nessuno si divertì più di lui che aveva sentito gli schiamazzi di Carmel.

 

Cara, tremenda Carmel! La sua compagnia mi piaceva – quando non mi esasperava. Era brillante, divertente, un’imitatrice dal talento micidiale; impulsiva, geniale, inconcludente, ma anche una visionaria, un’isterica e una sanguisuga: costantemente intenta a succhiare denaro, e poi ancora denaro, da chiunque avesse a tiro. Era un’ospite pericolosa (lo appresi in seguito): trafugava libri d’arte dalla biblioteca del padrone di casa per rivenderli, di seconda mano, alle librerie. Spesso pensavo a nostra zia Lina, che estorceva donazioni a persone abbienti per dare fondi all’Università Ebraica. Carmel non si macchiò mai di estorsione nei confronti di nessuno, ma somigliava a Lina sotto diversi aspetti: anche mia zia era tremenda, detestata da alcuni membri della famiglia, e io avevo un debole per lei. A Carmel la somiglianza non era sfuggita.

Quando suo padre morì, le lasciò gran parte delle sue proprietà, ben sapendo che, tra i suoi figli, era la più bisognosa. Qualsiasi risentimento, da parte di fratelli e sorelle, fu in parte compensato dalla convinzione che adesso, con il suo patrimonio, Carmel era pronta ad affrontare la vita, purché si comportasse in modo ragionevole ed evitasse follie e stravaganze; non avrebbe più dovuto scroccare, né farsi mantenere da loro. Anch’io ero contento, giacché non mi sarei più sentito in obbligo di inviarle un assegno mensile.

Lei, però, aveva altri piani; da quando era morto David, aveva sentito la mancanza del mondo del teatro. Adesso aveva del denaro e poteva produrre, dirigere e interpretare lei stessa uno dei suoi lavori teatrali preferiti; scelse L’importanza di chiamarsi Ernesto, così da poter recitare nel ruolo di Miss Prism. Affittò un teatro, mise insieme un cast, organizzò la pubblicità e, come sperava, lo spettacolo fu un successo. Poi, però, nel modo misterioso in cui di solito accadono le cose, non vi fu alcun seguito. Carmel aveva scialacquato la sua eredità, fino all’ultimo centesimo, in un unico gesto idiota e sconsiderato. La sua famiglia era furiosa e lei, ancora una volta, era al verde.

Carmel prese tutto abbastanza allegramente, anche se, in un certo senso, era una ripetizione di quanto accaduto trent’anni prima con il John Gabriel Borkman. Adesso, però, le sue capacità di ripresa erano minori. Aveva settant’anni, anche se appariva più giovane; aveva il diabete, che trascurava; e i familiari (con la sola eccezione di Aubrey, che fu sempre dalla sua parte, a prescindere da quanto lei lo esasperasse) non le rivolgevano più la parola.

Aubrey e io riprendemmo la consuetudine degli assegni mensili, ma dentro di lei, a un livello più profondo, si era spezzato qualcosa. Carmel credeva, penso, di aver avuto la sua ultima chance per cogliere fama e celebrità a Broadway. La sua salute peggiorò, e ciò la costrinse a ricoverarsi in una residenza assistita. A volte delirava, vuoi per la demenza incipiente, vuoi per il diabete, o per entrambe le cose; e a volte la trovavano, scarmigliata e disorientata, a vagabondare per le strade nei pressi della Hebrew Home. A un certo punto si convinse di stare recitando con Tom Hanks in un film diretto da Steven Spielberg.

C’erano tuttavia altri giorni senza incidenti, nei quali si godeva le uscite a teatro – il suo primo e ultimo amore – e le passeggiate nei bei giardini di Wave Hill, nei pressi della Hebrew Home. A quel punto decise di metter mano a un’autobiografia: scriveva bene e con facilità, e aveva da raccontare una storia personale insolita e affascinante. Ma la sua memoria autobiografica stava cominciando a tradirla, mentre la demenza progrediva insidiosamente.

Al contrario, la memoria legata alla «performance», all’esecuzione – la sua memoria d’attrice – era intatta. Dovevo solo imbeccarla con l’incipit di un qualsiasi monologo di Shakespeare, e lei proseguiva, diventando Desdemona, Cordelia, Giulietta, Ofelia, chiunque: completamente posseduta dal personaggio che stava interpretando. Le infermiere, che di solito la consideravano una anziana donna demente e malata, erano colpite da queste trasformazioni. Carmel una volta mi disse di non avere un’identità sua, ma solo quella dei personaggi che interpretava; questa era un’esagerazione perché, da giovane, aveva personalità ed ego da vendere – ma adesso che la demenza si portava via la sua identità, era proprio così, in modo quasi letterale. Carmel tornava in sé, tornava una persona completa, solo negli istanti in cui diventava Cordelia o Giulietta.

L’ultima volta che le feci visita aveva la polmonite; il suo respiro era rapido, irregolare, sibilante. Aveva gli occhi aperti, ma non vedeva; non sbatté le palpebre quando le feci passare una mano davanti al viso – ma forse, pensai, era ancora in grado di sentire e riconoscere una voce.

«Addio, Carmel!» le dissi, e qualche minuto dopo era morta. Quando telefonai a suo fratello Raphael per dirgli che se n’era andata, lui commentò: «Che il Signore accolga in pace la sua anima – sempre che ne avesse una».

 

 

 

Al principio del 1982, ricevetti da Londra un pacco contenente una lettera di Harold Pinter insieme al manoscritto di un nuovo lavoro, Una specie di Alaska, per il quale diceva di essersi ispirato a Risvegli. Nella sua lettera Pinter affermava di aver letto il libro quando era uscito nel 1973 e di averlo trovato «straordinario». Si era interrogato sulla possibilità di una trasposizione drammatica, ma poi, non vedendo con chiarezza come procedere, aveva accantonato l’idea fino a quando, otto anni dopo, era riaffiorata. Una mattina dell’estate precedente si era svegliato con le prime battute del dramma, nitide e incalzanti: «Sta accadendo qualcosa». Il lavoro si era poi rapidamente «scritto da sé», diceva, nei giorni che seguirono.

Una specie di Alaska è la storia di Deborah, una paziente rimasta per ventinove anni in uno stato di congelamento estremamente bizzarro e inaccessibile. Un giorno si risveglia senza avere idea della propria età o di che cosa le sia capitato. Pensa che la donna dai capelli grigi vicino a lei sia una cugina lontana o «una zia che non ha mai conosciuto» e la rivelazione che si tratta invece della sorella più piccola la sconvolge, scaraventandola nella realtà della sua condizione.

Pinter non aveva mai visto i nostri pazienti, né il documentario di Risvegli; nondimeno la mia paziente Rose R. era stata chiaramente il modello per la sua Deborah. Immaginavo che Rose leggesse il testo e dicesse: «Oddio! Mi ha colta in pieno». La mia impressione fu che Pinter avesse percepito più di quanto io avevo scritto; aveva, in un modo o nell’altro, indovinato, inesplicabilmente, una verità più profonda.

Nell’ottobre del 1982 assistetti alla prima rappresentazione del dramma al Natona Theatre di Londra, dove Judi Dench diede un’interpretazione straordinaria di Deborah. Questo mi stupì, come del resto mi aveva stupito la verosimiglianza della creazione di Pinter; come lui, infatti, anche Dench non aveva mai visto un paziente postencefalitico. Anzi, raccontò che, mentre si preparava per il ruolo, Pinter le aveva proibito di farlo, perché riteneva che il personaggio di Deborah dovesse essere creato basandosi esclusivamente sulle sue indicazioni. L’interpretazione di Dench fu coinvolgente (in un secondo tempo l’attrice vide il documentario e visitò alcuni pazienti postencefalitici ricoverati allo Highland Hospital; la mia impressione fu che dopo di allora, benché forse più realistica, la sua interpretazione fosse meno potente: può darsi che Pinter avesse ragione).

Fino a quel momento avevo nutrito qualche riserva sulle trasposizioni drammatiche del mio lavoro, o su qualsiasi altra cosa «basata su», «tratta da» o «ispirata a» esso. Risvegli dava il quadro reale, e tutto il resto sarebbe stato sicuramente «non reale». Come avrebbe potuto essere reale senza il contatto diretto con i pazienti? E invece il dramma di Pinter mi dimostrò che un grande artista può rielaborare, riimmaginare, la realtà. Compresi che Pinter mi aveva dato tanto quanto gli avevo dato io: io gli avevo offerto una realtà, lui me ne aveva restituita un’altra.68

 

Nel 1986 mi trovavo a Londra quando fui avvicinato dal compositore Michael Nyman: che ne pensavo, mi chiese, di un’«opera da camera» basata sulla storia che aveva dato il titolo a L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello? Io dissi che non riuscivo a immaginare una cosa del genere, e lui rispose che non occorreva lo facessi: l’avrebbe immaginata lui. In realtà l’aveva già fatto, perché il giorno dopo mi presentò una partitura e mi parlò di un librettista a cui aveva pensato, Christopher Rawlence.

Parlai a lungo con Chris del dottor P. e alla fine dissi che non potevo acconsentire senza l’approvazione della sua vedova. Suggerii a Chris di incontrare la signora e di indagare con delicatezza come si sentisse all’idea di un’opera (lei e il dottor P. erano stati entrambi cantanti lirici).

Chris riuscì a stabilire un rapporto molto caldo e cordiale con la signora P., la quale ha nell’opera un ruolo molto più importante che nel mio libro. Quando l’opera fu eseguita la prima volta a New York ero comunque molto teso. La signora P. venne alla prima e io continuavo a guardarla, fraintendendo – pieno di timore com’ero – ogni espressione del suo volto. Dopo lo spettacolo, però, la signora venne da noi tre – Michael, Chris e io – e disse: «Avete reso onore a mio marito». Ne fui felice: mi fece capire che non avevamo approfittato di lui né avevamo dato una rappresentazione scorretta della sua situazione.

 

Nel 1979 fui contattato da due giovani produttori, Walter Parkes e Larry Lasker. Avevano letto Risvegli qualche anno prima, in un corso di antropologia a Yale, e speravano di farne una trasposizione cinematografica. Visitarono il Beth Abraham e incontrarono molti pazienti postencefalitici; io acconsentii a lasciar loro sviluppare una sceneggiatura. Passarono poi diversi anni durante i quali non ne seppi più nulla.

Avevo quasi dimenticato il progetto quando, otto anni dopo, mi ricontattarono, spiegando che Peter Weir aveva letto Risvegli e la sceneggiatura ispirata al libro, ed era molto interessato a dirigere il film. Mi inviarono la sceneggiatura, scritta da un giovane autore di nome Steve Zaillian; mi arrivò a Halloween del 1987, il giorno prima del mio incontro con Peter Weir. Il testo non mi piacque – in particolare per quanto riguardava una digressione in cui il personaggio del medico si innamorava di una paziente – e, quando Weir arrivò, glielo dissi senza mezzi termini. Lui fu comprensibilmente colto di sorpresa, anche se capì la mia posizione. Qualche mese dopo, si ritirò dal progetto, dicendo che vedeva ogni sorta «di secche e di scogli», e che non pensava di potergli rendere giustizia.

Nel corso dell’anno successivo, la sceneggiatura andò incontro a molti perfezionamenti e Steve, Walter e Larry lavorarono per ottenere qualcosa che rimanesse fedele al libro e alle esperienze dei pazienti. All’inizio del 1989 mi dissero che Penny Marshall avrebbe diretto il film e sarebbe venuta a trovarmi insieme a Robert De Niro, scelto per interpretare il paziente Leonard L.

Non ero affatto sicuro di che cosa pensare della sceneggiatura, perché, se per certi versi mirava a una ricostruzione fedelissima degli avvenimenti, per altri introduceva varie divagazioni completamente inventate. Dovetti rinunciare all’idea che fosse, in alcun modo, il «mio» film: non era mia la sceneggiatura e non lo era il film, che in larga misura sarebbe stato fuori dal mio controllo. Ammetterlo di fronte a me stesso non fu proprio facile: d’altra parte, rappresentò anche un sollievo. Avrei potuto consigliare e suggerire, così da garantire precisione storica e scientifica; avrei fatto del mio meglio per dare al film un’autentica base di partenza, ma non avrei dovuto sentirmi responsabile del risultato.69

 

La passione con cui Robert De Niro si impegna per comprendere quello che si accinge a ritrarre, per studiarne i dettagli microscopici, è leggendaria. Prima di allora non avevo mai assistito alla ricerca di un attore sul suo personaggio, ricerca che culmina infine nella trasformazione dell’attore che diventa il personaggio.

Nel 1989 ormai quasi tutti i pazienti postencefalitici del Beth Abraham erano morti, ma ve n’erano ancora nove allo Highlands Hospital di Londra. Bob credeva che fosse importante incontrarli e così ci andammo insieme. Passò molte ore parlando con loro e riprendendoli, in modo da avere registrazioni video utili per le sue ricerche, da poter studiare nei dettagli. Rimasi impressionato e colpito dalle sue capacità di osservazione e immedesimazione, e credo che anche i pazienti fossero commossi da quell’attenzione, di un tipo in cui si erano imbattuti raramente. «Quello ti osserva davvero, guarda dritto dentro di te» mi disse uno di loro il giorno dopo. «Nessuno ha mai fatto una cosa simile dai tempi del dottor Purdon Martin. Lui cercava di capire sul serio quel che ti succedeva».

Al mio ritorno a New York mi incontrai con Robin Williams, che avrebbe interpretato il dottore – me. Robin voleva vedermi in azione, mentre interagivo con lo stesso tipo di pazienti con i quali avevo lavorato e vissuto in Risvegli, e quindi andammo dalle Piccole Sorelle dei Poveri, dov’erano ricoverati due pazienti postencefalitici in cura con la L-dopa che seguivo da diversi anni.

Qualche giorno dopo, Robin venne con me al Bronx State. Avevamo passato qualche minuto in un reparto geriatrico molto agitato, con cinque o sei pazienti che gridavano e parlavano in modo bizzarro tutti insieme. Più tardi, mentre ci allontanavamo in macchina, tutt’a un tratto Robin esplose, producendo un’incredibile replica del reparto e imitando alla perfezione la voce e lo stile di ognuno. Aveva assorbito tutte le diverse voci e le conversazioni sovrapposte, serbandole nella mente e ricordandole tutte, e adesso le stava riproducendo, o piuttosto ne era quasi posseduto. Questa capacità istantanea di apprendimento e di riproduzione – per la quale il termine «mimesi» è troppo debole (erano imitazioni piene di umorismo, di sensibilità e di creatività) – era sviluppata a un altissimo livello in Robin; finii tuttavia per convincermi che costituisse solo il primo passo nella sua ricerca d’attore.70

Presto mi trovai a essere io l’oggetto della sua ricerca. Dopo i nostri primi incontri, Robin cominciò a rispecchiare alcuni miei manierismi, le mie posture, la mia andatura, il mio modo di parlare: tutti aspetti dei quali fino allora ero stato inconsapevole. Era sconcertante vedere me stesso in quello specchio vivente, ma mi piaceva stare con Robin, andare in giro in auto con lui, mangiare fuori insieme, ridere alla raffica delle sue battute incandescenti, impressionato com’ero dalla vastità della sua cultura.

Qualche settimana dopo, mentre stavamo chiacchierando per strada, assunsi quella che – mi hanno detto – è una mia caratteristica posa meditabonda, e all’improvviso mi accorsi che anche Robin aveva assunto esattamente la stessa posizione. Non mi stava imitando; in un certo senso, era diventato me: come se tutt’a un tratto avessi acquisito un gemello più giovane. Questo ci inquietò un poco entrambi, e decidemmo che fosse opportuno mantenere una certa distanza fra noi due, in modo che lui potesse creare un personaggio suo: basato su di me, forse, ma con una vita e una personalità sue.71

Portai diverse volte il cast e la troupe al Beth Abraham, in modo da far cogliere loro l’atmosfera e l’umore del luogo, e soprattutto perché vedessero i pazienti e i membri del personale che ricordavano gli eventi di vent’anni prima. A un certo punto invitammo tutti i medici, le infermiere, i terapeuti e gli assistenti sociali che avevano lavorato con i postencefalitici nel 1969 a una sorta di rimpatriata. Alcuni di noi avevano lasciato l’ospedale da tempo, e altri non si erano più rivisti da anni; ma quella sera di settembre ci scambiammo i nostri ricordi per ore, e le rievocazioni di ciascuno stimolavano quelle degli altri. Capimmo, una volta di più, quanto quell’estate fosse stata travolgente e storica, e allo stesso modo come quegli eventi fossero stati umani e anche comici. Fu una serata di risa e di lacrime, di nostalgia e di gravità, mentre ci guardavamo l’un l’altro accorgendoci che erano passati vent’anni, e che ormai quasi tutti quei pazienti straordinari erano morti.

Anzi, tutti tranne una, Lillian Tighe, tanto espressiva nel documentario. Bob, Robin, Penny e io le facemmo visita, e ci meravigliammo della sua resistenza, del suo spirito allegro, della sua autenticità, senz’ombra di autocommiserazione. Nonostante il progredire della malattia e le imprevedibili reazioni alla L-dopa, aveva conservato tutto il suo buonumore, l’attaccamento alla vita, il coraggio.

Durante i mesi delle riprese, passai moltissimo tempo sul set di Risvegli. Mostrai agli attori come sedevano i pazienti parkinsoniani, immobili, con il volto inespressivo, senza alcun lampo negli occhi; la testa forse rovesciata all’indietro, o girata da un lato; la bocca spesso aperta, a lasciar colare un filo di saliva dalle labbra (particolare che ci sembrò troppo difficile, e forse anche troppo sgradevole, per il film, e perciò non vi insistemmo). Mostrai loro le comuni posture distoniche delle mani e dei piedi; feci loro vedere tremori e tic.

Mostrai agli attori come i pazienti parkinsoniani stavano in piedi, o si sforzavano di farlo; come camminavano, spesso curvi, a volte accelerando e in preda alla festinazione; come potevano bloccarsi, congelarsi, senza essere più in grado di proseguire. Mostrai loro diversi tipi di voci e rumori parkinsoniani; e la calligrafia parkinsoniana. Li consigliai di immaginarsi confinati in piccoli spazi, o immersi in una vasca piena di colla.

Ci esercitammo nella cinesia paradossa, l’improvvisa liberazione dal parkinsonismo mediante la musica, oppure attraverso risposte spontanee, come quella di afferrare una palla (agli attori piaceva fare questo esercizio con Robin, il quale, pensavamo noi, sarebbe diventato un grande lanciatore, se non si fosse dedicato alla recitazione). Ci esercitammo nella catatonia, e nell’imitazione dei postencefalitici quando giocano a carte: quattro pazienti siedono completamente bloccati, con le carte strette fra le mani, finché qualcuno (ad esempio un’infermiera) fa la prima mossa; questa innesca all’improvviso una straordinaria raffica di movimenti e il gioco, dapprima paralizzato, procede e termina in pochi secondi. (Avevo visto e filmato una di queste partite a carte nel 1969). La cosa più simile a tali stati accelerati e convulsivi è la sindrome di Tourette, e così portai sul set diversi giovani tourettici. Questi esercizi, quasi di impronta zen – stare immobili, svuotarsi, oppure accelerarsi, magari per ore di seguito –, erano per gli attori tanto affascinanti quanto spaventosi. Stavano cominciando a provare sulla propria persona e con tremenda chiarezza che impressione potesse fare trovarsi davvero bloccati in quel modo, sempre.

Può un attore con un sistema nervoso e una fisiologia normali «diventare» realmente qualcuno con un sistema nervoso, un’esperienza e un comportamento profondamente disturbati? In un’occasione Bob e Robin stavano recitando una scena in cui il medico esamina i riflessi posturali del paziente (riflessi che nel parkinsonismo possono essere gravemente compromessi o del tutto assenti). Presi per un attimo il posto di Robin per mostrargli come si facesse: si sta in piedi dietro al paziente e, con molta delicatezza, lo si tira all’indietro (una persona normale può compensare, ma un parkinsoniano o un postencefalitico cadranno all’indietro come birilli). Mentre facevo la prova su Bob, lui cadde all’indietro, venendomi addosso, completamente inerte e passivo, senza mostrare alcuna traccia di azione riflessa. Sbigottito, gli diedi una leggera spinta per rimetterlo diritto, ma allora cominciò a cadere in avanti; non riuscivo a tenerlo in equilibrio. Provai una sensazione di smarrimento mista a panico. Per un momento pensai che vi fosse stata un’improvvisa catastrofe neurologica, che avesse davvero perso tutti i riflessi posturali. Una recitazione come questa, mi chiedevo, può forse alterare davvero il sistema nervoso?

Il giorno dopo, mentre parlavo con Bob nel suo camerino, prima che cominciassero le riprese, mi accorsi che il suo piede destro era girato verso l’interno, con la stessa identica curvatura distonica che assumeva sul set quando impersonava Leonard L. Glielo feci notare, e lui sembrò piuttosto stupito. «Non me n’ero accorto» disse. «Dev’essere inconscio». A volte restava nel personaggio per ore o per giorni; per esempio, a cena, faceva commenti che in realtà appartenevano a Leonard e non a lui, quasi che gli fosse rimasto attaccato qualche residuo del suo pensiero e della sua personalità.

A febbraio del 1990 – dopo quattro mesi di riprese, per non parlare dei mesi di ricerche che le avevano precedute – eravamo sfiniti. Ma avvenne un episodio che galvanizzò tutti noi: Lillian Tighe, l’ultima postencefalitica sopravvissuta al Beth Abraham, venne a visitare il set, dove avrebbe interpretato la parte di se stessa in una scena con Bob. Che cosa avrebbe pensato dei falsi postencefalitici intorno a lei? Gli attori avrebbero superato la prova? Al suo ingresso sul set si creò un sentimento di soggezione: tutti la riconobbero, perché l’avevano vista nel documentario.

Quella sera, scrissi sul mio diario:

 

«Per quanto gli attori possano calarsi e identificarsi nel loro ruolo, stanno solo recitando la parte di un paziente; Lillian dovrà esserlo per il resto della sua vita. Gli attori potranno spogliarsi dei loro ruoli, Lillian no. Che effetto le fa, questo? (Che impressione fa, a me, Robin che mi impersona? Per lui è un ruolo temporaneo; per me durerà tutta la vita).

«Quando Bob viene fatto entrare, spinto su una sedia a rotelle, e assume la posizione distonica e congelata di Leonard L., Lillian T., lei stessa congelata, gli lancia un’occhiata attenta, critica. Come si sente Bob, che finge di essere congelato, nei confronti di Lillian, a un metro scarso da lui, che lo è veramente? E che cosa pensa lei, che lo è davvero, nei confronti di lui, che sta solo recitando? Lillian mi ha strizzato l’occhio, e mi ha fatto un cenno appena percettibile, con i pollici rivolti verso l’alto, per farmi intendere: “È bravo – ha capito! Sa veramente com’è”».

 

 

 

63. Conoscendo il mio lato botanico, Thom mi mandava sempre le sue poesie «sulle piante». Dopo aver ricevuto Nasturtium, gli scrissi: «Spero tu possa comporre altre poesie come questa, esaltazioni di piante coraggiose in terreni abbandonati, fossati, crepe ... – ricorda come il personaggio di Hadji Murad era tornato in mente a Tolstoj nel momento in cui vide sul ciglio della strada un cardo schiacciato, ma ancora combattivo».

64. All’inizio del 1970, quando aspettavo Thom a New York, gli dissi che Auden avrebbe dato come sempre una festa di compleanno il 21 febbraio, e gli chiesi se volesse partecipare. Lui declinò, e fu solo nel 1973, dopo la morte di Auden, che disse qualcosa in merito (in una lettera del 2 ottobre 1973): «A parte Shakespeare, probabilmente [Auden] è stato il poeta che mi ha influenzato più profondamente, quello che mi fece sembrare possibile che io stesso diventassi scrittore. Non credo che mi apprezzasse molto, almeno così mi hanno detto, ma questo non ha maggior importanza, per me, dello scoprire di non esser piaciuto a Keats».

65. Thom scrisse molto su questo argomento nel suo saggio autobiografico My Life Up To Now : «Non va più di moda tessere le lodi dell’LSD, ma io non ho alcun dubbio sul fatto che per me, come uomo e come poeta, sia stato della massima importanza ... Il viaggio con l’acido è [un’esperienza] non strutturata: ti apre a infinite possibilità e tu aneli all’infinito».

66. Madeline fu colpita dall’ictus quando aveva solo circa cinquant’anni. Da allora rimase afasica, ma lo era con un tale spirito, un tale stile e una tale genialità da conferire all’afasia un significato nuovo.

67. Dopo lo spettacolo, andammo dietro le quinte per salutare Cummings, e io le chiesi se avesse conosciuto molte persone con l’afasia. «No, nemmeno una» rispose. Io non dissi nulla, ma pensai: «Si vede».

68. Da allora mi è capitato di provare questa sensazione anche per altri lavori ispirati al mio, soprattutto per le brillanti trasposizioni teatrali di Peter Brook – L’Homme qui... nel 1983 e The Valley of Astonishment nel 2014 – e per un balletto ispirato a Risvegli, con musiche di Tobias Picker.

69. Tutti gli attori che avrebbero interpretato i postencefalitici studiarono nei minimi dettagli il documentario di Risvegli, che divenne la fonte visiva primaria per il film, insieme ai chilometri di pellicola Super 8 e alle registrazioni audio che io stesso avevo prodotto nel 1969 e nel 1970.
Il documentario non era mai stato trasmesso fuori dal Regno Unito, e l’uscita del film di Hollywood sembrava un’occasione ideale per offrirlo alla PBS. Ma alla Columbia Pictures insistettero affinché non lo facessimo; pensavano che il documentario avrebbe distratto dall’«autenticità» del loro film, un’idea assurda.

70. Questo mi fece ricordare quando, un paio d’anni prima, era venuto a trovarmi Dustin Hoffman, che a quel tempo si stava preparando per interpretare il ruolo di un uomo autistico nel film Rain Man. Visitammo insieme un mio giovane paziente autistico del Bronx State, e poi andammo a fare quattro passi all’orto botanico. Io stavo chiacchierando con il suo regista, e Hoffman ci seguiva a distanza di qualche metro. All’improvviso credetti di sentire il mio paziente. Mi voltai, sorpreso, e vidi che in realtà era Hoffman, che stava pensando tra sé, con la voce e con il corpo, «recitativamente».

71. Nei successivi venticinque anni, Robin e io diventammo buoni amici e io cominciai ad apprezzare – non meno del suo spirito brillante e delle sue improvvisazioni fulminee ed esplosive – anche la sua vasta cultura, la profondità del suo ingegno e i suoi interessi umanitari.
Una volta, durante una mia conferenza a San Francisco, un uomo del pubblico mi pose una strana domanda: «Lei è inglese o ebreo?».
«Entrambe le cose» replicai.
«Non può essere entrambe le cose» fece lui. «Dev’essere o l’una o l’altra».
Robin, che era stato fra il pubblico, a cena riprese l’episodio e, usando un accento di Cambridge, ultra-inglese, condito di espressioni e aforismi yiddish, dimostrò in modo stupefacente come in realtà uno potesse essere entrambe le cose. Vorrei aver registrato quella perla di improvvisazione.