SAN FRANCISCO
Ero arrivato a San Francisco, una città che sognavo da anni, ma non avevo la carta verde, e quindi non potevo essere assunto legalmente né guadagnare del denaro. Mi ero tenuto in contatto con Michael Kremer, il mio capo all’unità di neurologia del Middlesex (aveva approvato in pieno il fatto che saltassi il servizio militare; «adesso come adesso» aveva detto «è una perfetta perdita di tempo»), e quando gli accennai della mia idea di andare a San Francisco mi suggerì di rivolgermi ai suoi colleghi Grant Levin e Bert Feinstein, neurochirurghi al Mount Zion Hospital. I due erano pionieri nell’arte della chirurgia stereotassica, una tecnica che consentiva di inserire un ago direttamente in aree circoscritte del cervello, altrimenti inaccessibili, e di farlo in condizioni di sicurezza.13
Kremer aveva scritto loro per presentarmi e, quando li incontrai, Levin e Feinstein acconsentirono a farmi lavorare in nero. Proposero che li aiutassi nella valutazione dei loro pazienti prima e dopo l’intervento chirurgico; poiché non avevo la carta verde, non potevano darmi un salario, ma mi sostenevano allungandomi banconote da venti dollari (a quel tempo, venti dollari erano parecchi; un motel medio costava circa tre dollari a notte, e c’erano ancora dei parchimetri che accettavano i penny).
Levin e Feinstein dissero che di lì a qualche settimana mi avrebbero trovato una camera in cui stare all’interno dell’ospedale, ma nel frattempo – poiché avevo pochissimo denaro – mi sistemai in una struttura dell’YMCA; avevo sentito che c’era un loro grande ostello all’Embarcadero, di fronte al Ferry Building. Benché avesse un’aria malandata e un po’ fatiscente, l’atmosfera era accogliente e amichevole, e mi trasferii in una cameretta al sesto piano.
Intorno alle undici di sera, qualcuno bussò piano alla porta. Io dissi «Avanti!»: la porta non era chiusa a chiave. Un giovane mise la testa dentro e, vedendomi, esclamò: «Scusa, ho sbagliato camera».
«Non esserne troppo sicuro» risposi io, faticando a credere quello che stavo dicendo. «Perché non entri?». Per un attimo sembrò esitare, poi entrò chiudendo la porta dietro di sé. Questo fu il mio ingresso nella vita dell’Y: un continuo aprirsi e chiudersi di porte. Alcuni dei miei vicini, osservai, potevano avere anche cinque visitatori per notte. Provai un particolare senso di libertà, senza precedenti: non ero più a Londra, non più in Europa; questo era il Nuovo Mondo e – entro certi limiti – potevo fare quello che volevo.
Qualche giorno dopo, al Mount Zion dissero che c’era una stanza libera per me, e mi trasferii all’interno dell’ospedale – uscito indenne dall’avventura all’Y.
Passai i successivi otto mesi lavorando per Levin e Feinstein; il mio internato ufficiale al Mount Zion sarebbe cominciato solo nel luglio successivo.
È difficile immaginare due tipi più diversi di Levin e Feinstein – pacato e saggio il primo, appassionato e pieno di entusiasmo il secondo –, eppure costituivano una bella coppia di caratteri complementari, come lo erano stati Kremer e Gilliatt, miei superiori all’unità di neurologia a Londra (e Debenham e Brooks, all’unità di chirurgia del Queen Elizabeth Hospital di Birmingham).
Ero rimasto affascinato da quel genere di sodalizio anche da bambino; ai tempi della mia passione per la chimica, lessi della collaborazione tra Korkhoff e Bunsen e di come le loro menti diversissime, insieme, fossero state indispensabili per la scoperta della spettroscopia. Ero rimasto affascinato, a Oxford, leggendo il famoso articolo sul DNA di James Watson e Francis Crick, e nell’apprendere quanto i due uomini fossero diversi. E mentre sfacchinavo svolgendo il mio internato poco ispirato al Mount Zion, avrei letto di un’altra coppia di ricercatori, all’apparenza improbabile e incongrua, David Hubel e Torsten Wiesel, i quali stavano rendendo accessibile, nel modo più straordinario ed elegante, la fisiologia della visione.
Oltre a Levin e Feinstein, ai loro assistenti e agli infermieri, l’unità impiegava anche un ingegnere e un fisico – in tutto eravamo dieci – e spesso veniva in visita il fisiologo Benjamin Libet.14
Un paziente in particolare mi rimase impresso, e nel novembre del 1960 scrissi di lui ai miei genitori:
«Vi ricordate di quel racconto di Somerset Maugham che parla di un uomo a cui una giovane islandese abbandonata ha fatto un incantesimo, e che sviluppa un singhiozzo letale? Uno dei nostri pazienti, un barone del caffè, postencefalitico, ha avuto il singhiozzo per sei giorni dopo l’operazione, un singhiozzo refrattario a tutte le misure consuete, e anche ad alcune molto inconsuete, e temo che la cosa possa andare a finire nello stesso modo, a meno che non gli blocchiamo i nervi frenici o qualcosa di simile. Ho suggerito di chiamare un bravo ipnotista: mi domando se funzionerà. Vi è mai capitato qualcosa del genere, come problema grave?».
La mia proposta fu considerata con scetticismo (nutrivo qualche dubbio io stesso), ma poiché nient’altro aveva funzionato, Levin e Feinstein decisero di comune accordo di chiamare un ipnoterapeuta. Questi, suscitando la nostra meraviglia, riuscì a rendere inconscio il paziente e poi a impartirgli un comando postipnotico: «Quando schioccherò le dita, lei si sveglierà e non avrà più il singhiozzo».
Il paziente si svegliò liberato dal singhiozzo – che non tornò più.
Benché in Canada avessi tenuto un diario, smisi di farlo una volta arrivato a San Francisco, e non lo ripresi finché non fui di nuovo on the road. Continuai però a scrivere lunghe lettere piene di dettagli ai miei genitori, e nel febbraio del 1961 raccontai loro di aver visto due dei miei idoli, Aldous Huxley e Arthur Koestler, in occasione di una conferenza alla UCSF:
«Aldous Huxley ha tenuto uno straordinario discorso del dopocena sull’educazione. Non lo avevo mai visto prima, e sono rimasto meravigliato dalla sua altezza e dalla sua magrezza cadaverica. Adesso è quasi cieco, e continua a strizzare gli occhi spenti e a muovere i pugni davanti ad essi (questo lì per lì mi ha sconcertato, ma adesso credo che lo facesse per procurarsi una qualche visione stenopeica): ha lunghi capelli fluttuanti sulle spalle, come quelli d’un morto, e una pelle grigiastra che gli copre il contorno osseo della faccia in modo molto vago e approssimativo. Chino in avanti, intensamente concentrato, somigliava un po’ allo scheletro di Vesalio in meditazione. La sua mente meravigliosa, però, è valida come sempre, assistita da uno spirito, un calore, una memoria e un’eloquenza da far alzare tutti in piedi più di una volta ... E infine Arthur Koestler, sul processo creativo: un’analisi meravigliosa così poco udibile e talmente mal presentata che metà del pubblico è uscita. Koestler, a proposito, somiglia un po’ a Kaiser – un po’ a tutti i docenti di ebraico del mondo – e parla proprio come loro [Kaiser, il nostro insegnante di ebraico, era una figura familiare a casa nostra fin da quando ero piccolo]. Gli americani non hanno rughe, mentre la faccia da litvak di Koestler era ostentatamente rugosa, percorsa da grandi solchi di angoscia e intelligenza che sembravano quasi indecenti in quell’assemblea di facce lisce!».
Grant Levin, il mio capo generoso e cordiale, aveva procurato a tutti noi dell’unità di neurochirurgia i biglietti per assistere a una conferenza intitolata «The Control of Mind», e spesso distribuiva biglietti per spettacoli musicali e teatrali, o per altri eventi culturali a San Francisco: una ricca dieta che mi fece amare sempre di più la città. Scrissi ai miei genitori di aver visto Pierre Monteux con la San Francisco Symphony Orchestra:
«[Monteux] dirigeva (avevo la sensazione che fosse sempre una battuta dietro l’orchestra), e il programma comprendeva la Symphonie Fantastique di Berlioz (la scena dell’esecuzione mi ricorda sempre quella spaventosa opera di Poulenc); Till Eulenspiegel; Les Jeux di Debussy (grandissimo, potrebbe essere stato scritto dal primo Stravinskij) e una piccola cosa di Cherubini. Lo stesso Monteux ha ora quasi novant’anni, una prodigiosa forma a pera, un’andatura a piccoli passi oscillanti, e dei malinconici mustacchi, un po’ come quelli di Einstein. Il pubblico impazziva per lui: in parte, credo, per riappacificazione (sessant’anni fa lo fischiò) e in parte per quella mitomania volubile e un po’ condiscendente in virtù della quale l’età molto avanzata diventa, di per sé, una raccomandazione. Comunque, ammetto che è emozionante pensare al numero incalcolabile di prove, prime, fiaschi e successi stellari, come pure alle cascate di miliardi di note, che devono essere passati attraverso quel vecchio cervello nel corso dei suoi novant’anni».
Nella stessa lettera accennavo di aver avuto una strana esperienza quando ero andato giù a Monterey a una festa beat:
«La mia presentazione al padrone di casa fu bizzarra: dissero “è qui” e mi condussero in bagno. Lì vidi una figura simile a un Cristo, con la barba levata al cielo per il tormento, che si teneva il culo sotto la doccia calda. Senza dubbio la mia apparizione, nero e lucente, appena sceso dalla moto, era per lui in egual misura nuova e allarmante. Aveva un doloroso ascesso perianale, che gli incisi usando un rozzo ago da vela sterilizzato con un fiammifero. Ci fu una gran fuoriuscita di pus, e un urlo spaventoso, seguito dal silenzio: era svenuto. Quando si riprese stava molto meglio, e io assaporai la nuova gioia di essere l’uomo concreto, l’abile medico-chirurgo, che aveva aiutato l’artista sofferente. Più tardi, quel giorno, ci fu una folle festa in stile beatnik, in cui giovani donne con gli occhiali si alzavano e recitavano poesie sul proprio corpo».
In Inghilterra, uno veniva classificato non appena apriva bocca (classe operaia, classe media, classe superiore, quel che era); non ci si mescolava, non ci si sentiva a proprio agio con gente di una classe diversa: un sistema che, per quanto implicito, era tuttavia rigido e inviolabile come quello delle caste in India. L’America, immaginavo io, era una società senza classi, un luogo dove tutti, a prescindere da fattori quali nascita, colore, religione, istruzione o professione, potevano incontrare chiunque altro in quanto esseri umani, fratelli animali; un luogo in cui un professore poteva parlare con un camionista, senza che le categorie si frapponessero tra loro.
Avevo avuto un assaggio, una rapida visione, di una tale democrazia – di una tale eguaglianza – quando, negli anni Cinquanta, vagabondavo per l’Inghilterra sulla mia moto. Perfino nella rigida Inghilterra, le motociclette sembravano aggirare le barriere, rendendo tutti socialmente disinvolti e tolleranti. «Bella moto!» diceva uno, e da lì partiva la conversazione. I motociclisti erano gente amichevole; quando ci si incrociava sulla strada ci si salutava con la mano, e se capitava di incontrarsi in un locale si attaccava a discorrere senza difficoltà. Formavamo una sorta di società romantica, senza classi, all’interno della società più ampia.
Poiché pensavo che non avesse senso farmi spedire la moto dall’Inghilterra, decisi di acquistarne una nuova: una Norton Atlas da cross, con cui potevo andare fuori strada, sulle piste del deserto o sui sentieri di montagna. Potevo tenerla nel cortile dell’ospedale.
Cominciai a frequentare un gruppo di motociclisti, e ogni domenica mattina ci incontravamo in città, andavamo sul Golden Gate e percorrevamo, circondati dal profumo degli eucalipti, la strada che saliva, stretta e tortuosa, su Mount Tamalpais; quindi, con il Pacifico alla nostra sinistra, proseguivamo lungo la cresta, e poi ci lanciavamo giù, in ampie discese, per fare il brunch tutti insieme a Stinson Beach (o, di tanto in tanto, a Bodega Bay, che, di lì a poco, sarebbe stata resa famosa da Gli uccelli di Hitchcock). Quelle corse in moto, di primo mattino, significavano sentirsi intensamente vivi, sentirsi l’aria sulla faccia e il vento sul corpo, in un modo che solo ai motociclisti è dato di provare. Nel ricordo, quelle mattine hanno una dolcezza quasi intollerabile, e l’odore degli eucalipti ne evoca istantaneamente le immagini piene di nostalgia.
Di solito, nei giorni feriali, giravo in moto da solo per San Francisco. In un’occasione, però, accostai un gruppo molto diverso da quello tranquillo e rispettabile di Stinson Beach: una banda chiassosa e disinibita di uomini che bevevano lattine di birra e fumavano in sella alle loro moto. Quando fui più vicino, vidi sulle loro giacche il logo degli Hells Angels, ma ormai era troppo tardi per un’inversione, e così mi fermai e dissi: «Salve!». La mia audacia e il mio accento inglese attirarono il loro interesse, come anche – quando lo seppero – il fatto che fossi un medico. Fui approvato seduta stante, senza essere sottoposto ad alcun rito di iniziazione. Ero simpatico, non giudicavo, ed ero un medico: come tale, di tanto in tanto mi consultavano quando si facevano male. Non partecipai a nessuna delle scorribande o delle altre attività del gruppo, e il nostro rapporto blando e inatteso – inatteso per me, come per loro – si estinse gradualmente quando lasciai San Francisco un anno dopo.
Se i dodici mesi tra la mia partenza dall’Inghilterra e l’inizio del mio internato ufficiale erano stati pieni di avventura, imprevisti ed emozioni, essere un interno al Mount Zion – prestare servizio a rotazione per qualche settimana in medicina, chirurgia, pediatria, eccetera – fu, al confronto, monotono, noioso e anche frustrante, perché erano tutte cose che avevo già fatto in Inghilterra. Non riuscivo a considerare un ulteriore internato se non come una perdita di tempo imposta dalla burocrazia; d’altra parte, tutti i laureati in medicina stranieri dovevano fare due anni di internato, a prescindere dalla formazione precedente.
C’erano tuttavia alcuni vantaggi. Potevo restare un altro anno nell’amata San Francisco, senza sostenere spese: vitto e alloggio erano forniti dall’ospedale. Gli altri interni, provenienti da tutti gli States, formavano un gruppo variegato di persone spesso dotate; il Mount Zion aveva un’eccellente reputazione, e questo (insieme all’opportunità di passare un anno a San Francisco) costituiva una forte attrazione per i medici neolaureati – erano in centinaia a fare domanda, e l’ospedale poteva permettersi di essere altamente selettivo.
Ero legato in modo particolare a Carol Burnett, una talentuosa donna nera, una newyorkese che parlava bene molte lingue. In un’occasione fummo entrambi chiamati ad assistere a un complesso intervento di chirurgia addominale, anche se ci limitammo a tenere i divaricatori e passare i ferri ai chirurghi. Non vi fu alcun tentativo di mostrarci o insegnarci qualcosa, e se si esclude qualche brusco scatto («pinze, svelto!», «tenga stretto quel divaricatore!»), i chirurghi ci ignorarono. Parlavano molto fra di loro, invece, e a un certo punto passarono allo yiddish e fecero qualche brutto commento denigratorio sul fatto di avere un’interna nera in sala operatoria. Carol drizzò le orecchie e rispose loro in yiddish fluente. I chirurghi arrossirono entrambi, e l’operazione si fermò bruscamente.
«Non avevate mai sentito una schwartze parlare yiddish?» rincarò Carol, con un’allegra stoccatina extra. Pensavo che i chirurghi stessero per farsi cadere i ferri dalle mani. Imbarazzati, si scusarono con Carol e per il resto del nostro tirocinio in chirurgia si affannarono a trattarla con particolare riguardo. (Ci chiedevamo se l’episodio – insieme al fatto che avevano finito per conoscere e rispettare Carol come persona – avrebbe avuto un effetto duraturo su di loro).
Di solito, nel fine settimana, se non ero di turno uscivo in moto a esplorare la California settentrionale. Ero affascinato dalla sua storia ai tempi delle prime imprese di estrazione aurifera; avevo una particolare predilezione per la Highway 49 e per Copperopolis, una piccolissima città fantasma che attraversavo mentre ero diretto verso il Mother Lode.
A volte salivo su per la costiera, la Highway 1, oltre i boschi di sequoie più settentrionali fino a Eureka, e poi proseguivo verso Crater Lake in Oregon (all’epoca non mi disturbava sobbarcarmi una tirata di oltre mille chilometri). Fu in quello stesso anno, altrimenti monotono per via dell’internato, che scoprii le meraviglie di Yosemite e della Death Valley e feci una prima visita a Las Vegas, che a quei tempi senza inquinamento era visibile a ottanta chilometri di distanza, come uno scintillante miraggio nel deserto.
Se da un lato mi godevo San Francisco, stringevo nuove amicizie e andavo liberamente in giro nei fine settimana, dall’altro la mia formazione in campo neurologico era – o si sarebbe – arenata, se non fosse stato per Levin e Feinstein, che mi invitavano alle conferenze e mi permettevano di continuare a visitare i loro pazienti.
Era il 1958, credo, quando il mio vecchio amico Jonathan Miller mi diede un libro di poesie di Thom Gunn – The Sense of Movement, che era appena uscito – dicendo: «Devi conoscere Thom, è il tuo genere di persona». Io lo lessi d’un fiato e decisi che, se davvero fossi riuscito ad andare in California, per prima cosa mi sarei messo a cercare Thom Gunn.
Quando arrivai a San Francisco, cercai di rintracciarlo e mi dissero che si trovava in Inghilterra, per una fellowship a Cambridge. Qualche mese dopo, però, ormai era tornato e lo incontrai a una festa. Io avevo ventisette anni, lui era sulla trentina – in fondo non era una grossa differenza; tuttavia io ero intensamente consapevole della sua maturità e della sua sicurezza, di come sapesse bene chi fosse, quali fossero i suoi talenti, che cosa stesse facendo. All’epoca lui aveva pubblicato due libri; io non avevo ancora pubblicato nulla. Pensavo a Thom come a un maestro e un mentore (non come a un modello, però, giacché il nostro modo di scrivere era diversissimo). Vicino a lui mi sentivo ancora non del tutto formato, un feto. Teso com’ero, gli accennai che, sebbene ammirassi enormemente la sua poesia, ero rimasto turbato da uno dei suoi componimenti, The Beaters, per via dell’argomento sadomasochista. Lui sembrò imbarazzato, e mi rimproverò con garbo: «Non devi confondere la poesia con il poeta».15
In un modo o nell’altro – non so più ricostruire esattamente come – nacque un’amicizia, e qualche settimana dopo andai a trovarlo. A quell’epoca Thom abitava al 975 di Filbert Street, che all’improvviso si tuffa a capofitto in una discesa con una pendenza di trenta gradi – cosa che gli abitanti di San Francisco sanno benissimo ma che io ignoravo. Avevo la mia Norton da cross: lanciato su Filbert Street, affrontai troppo veloce quel tratto di strada e all’improvviso mi ritrovai a mezz’aria, in volo, come in un salto sugli sci. Per fortuna la moto assorbì bene l’impatto, ma io ne uscii terrorizzato – sarebbe potuta finire male. Il cuore ancora mi martellava quando suonai il campanello di Thom.
Lui mi fece entrare, mi offrì una birra e mi chiese perché avessi tenuto tanto a conoscerlo. Gli dissi, semplicemente, che molte delle sue poesie sembravano evocare qualcosa profondamente annidato dentro di me. Thom sembrò evasivo. Quali poesie? mi chiese. Perché? La prima che avevo letto era On the Move, ed essendo anch’io un motociclista, dissi, ero immediatamente entrato in risonanza con i suoi versi, proprio come mi era capitato anni prima leggendo The Road, un breve scritto pieno di poesia di T.E. Lawrence. E poi mi piaceva la sua poesia intitolata The unsettled motorcyclist vision of his death, perché ero convinto che, come Lawrence, sarei morto anch’io in sella alla mia moto.
Che cosa Thom vedesse in me a quell’epoca, proprio non lo so; quanto a me, trovavo in lui una miscela di grande calore e affabilità, insieme a una profonda integrità intellettuale. Anche allora Thom era lapidario e incisivo; io ero centrifugo ed espansivo. Era incapace di ambiguità o inganno, tuttavia la sua sincerità era sempre accompagnata, mi sembrava, da una sorta di tenerezza.
A volte Thom mi dava da leggere il manoscritto di nuove poesie. Mi piaceva la forza contenuta di quei componimenti – vedere la burrasca di energia e passione trattenuta, raffrenata dalla forma poetica più rigorosa e controllata. La mia preferita, fra le sue nuove composizioni, era forse L’allegoria del ragazzo lupo («Al tennis e al tè, / lui non è nostro, sul tappeto erboso, / ma di noi si fa gioco in una triste duplicità»).16 Quei versi corrispondevano a una certa duplicità che io stesso avvertivo dentro di me, alla quale pensavo, in parte, come al bisogno di avere un sé diverso per il giorno e per la notte. Di giorno ero l’affabile dottor Oliver Sacks, calato nel suo camice bianco; ma di notte svestivo i candidi panni del medico per entrare nella pelle del motociclista, e come un lupo scivolavo anonimo fuori dall’ospedale per vagabondare lungo le strade o per risalire le curve sinuose di Mount Tamalpais e poi sfrecciare sulla strada illuminata dalla luna fino a Stinson Beach o a Bodega Bay. Questa duplicità era assecondata dal fatto che il mio secondo nome è Wolf: per Thom e per i miei amici motociclisti io mi chiamavo Wolf, mentre per i colleghi medici il mio nome era Oliver. Nell’ottobre del 1961 Thom mi diede una copia del suo nuovo libro I miei tristi capitani, dedicandola «Al Ragazzo Lupo (nessuna metafora!) con alles gute e ammirazione, da Thom».
Nel febbraio del 1961 scrissi ai miei genitori che avevo ottenuto la carta verde; adesso ero un immigrato legittimo – un «residente straniero» – e avevo dichiarato la mia intenzione di prendere la cittadinanza, cosa possibile anche senza rinunciare a quella britannica.17
Accennai inoltre al fatto che a breve avrei sostenuto l’esame di stato: un esame abbastanza approfondito per verificare che i laureati in medicina stranieri fossero veramente all’altezza sia nelle conoscenze scientifiche di base, sia in quelle mediche.
Avevo scritto ai miei genitori, già in gennaio, che stavo contemplando la possibilità, «fra gli esami e l’inizio dell’internato, di fare un immenso viaggio attraverso gli States, tornando poi indietro passando dal Canada e magari deviando in Alaska: in tutto, probabilmente, circa quindicimila chilometri. Sarebbe un’opportunità unica di vedere il paese e visitare altre università».
E adesso, superato l’esame di stato e con una moto più adatta – avevo scambiato la mia Norton Atlas con una BMW R69 di seconda mano –, ero pronto per partire. Le ferie mi erano state ridotte, così non potei più includere l’Alaska nel mio giro americano. Scrissi di nuovo ai miei genitori:
«Ho tracciato una gran linea rossa sulla mia carta: Las Vegas, Death Valley, Grand Canyon, Albuquerque, Carlsbad Caverns, New Orleans, Birmingham, Atlanta, Blue Ridge Parkway fino a Washington, Philadelphia, New York, Boston. Poi su, attraverso il New England, fino a Montreal e deviazione nel Quebec. Toronto, Cascate del Niagara, Buffalo, Chicago, Milwaukee. Le Città Gemelle, su ai Glacier and Waterton National Parks, e poi giù a Yellowstone, Bear Lake e Salt Lake City. Ritorno a San Francisco. Circa tredicimila chilometri. Cinquanta giorni. Quattrocento dollari. Se evito: colpi di sole, congelamento, carcerazione, terremoti, avvelenamento da cibo e disastri meccanici – be’, dovrebbe essere il periodo più fantastico della mia vita! Scriverò la prossima lettera lungo la strada».
Quando raccontai a Thom dei miei programmi di viaggio, mi suggerì di tenere un diario – una descrizione delle mie esperienze, un «Incontro con l’America» – e di mandarglielo. Rimasi on the road per due mesi, e riempii diversi taccuini, che inviai a Thom uno dopo l’altro. Lui sembrava apprezzare le mie descrizioni di persone e luoghi, scene e immagini, e pensava che avessi un dono per l’osservazione, anche se a volte mi rimproverava le concessioni «al sarcasmo e al grottesco».
Uno dei taccuini che gli inviai era intitolato «Travel Happy».
TRAVEL HAPPY (1961)
Qualche miglio a nord di New Orleans, la moto ha avuto un cedimento. Mi sono fermato e ho cominciato ad armeggiare con il motore in una piazzola deserta. Mentre ero steso sul dorso, ho avvertito, con una sorta di sesto senso sismico, un tremore distante, come un terremoto in lontananza. Veniva verso di me, e si è trasformato in un rumore, poi in un rimbombo e infine in un ruggito, culminato in uno stridio di freni e in un’allegra assordante suonata di clacson. Paralizzato, ho alzato lo sguardo sul più gigantesco camion che abbia mai visto, un autentico Leviatano della strada. Un Giona sfrontato ha sporto la testa dal finestrino e mi si è rivolto gridando dall’alto della cabina.
«Posso fare qualcosa?».
«È andata!» ho risposto. «Ha ceduto un pistone, o qualcos’altro».
«Merda!» ha commentato cordiale. «Se si stacca ci rimetti una gamba! Ci vediamo».
Ha fatto una smorfia enigmatica, e ha riportato il suo enorme camion sulla strada.
Io ho proseguito il viaggio, lasciandomi subito alle spalle le basse pianure paludose del delta; ben presto mi sono ritrovato nel Mississippi. La strada tracciava, senza fretta alcuna, meandri capricciosi che serpeggiavano attraverso fitte foreste e pascoli aperti, frutteti e campi, incrociando e passando sopra cinque o sei corsi d’acqua, dentro e fuori fattorie e villaggi – tutti immobili e silenziosi nel sole mattutino.
Una volta varcato il confine con l’Alabama, però, la moto è peggiorata di colpo. Ero concentrato su qualsiasi variazione del suono del motore, arrovellandomi su rumori al tempo stesso sinistri e inintelligibili. Si stava rapidamente disintegrando, questo era certo; ma, ignorante e fatalista come sono, pensavo di non poter fare nulla per arrestare il suo destino.
Otto chilometri dopo Tuscaloosa il motore ha perso colpi e ha grippato. Ho stretto la frizione, ma uno dei cilindri stava già fumando vicino al mio piede. Sono sceso dalla moto e l’ho coricata a terra. Poi mi sono diretto verso il ciglio della strada tenendo nella mano sinistra un fazzoletto candido.
Il sole stava calando nel cielo, e si era alzato un vento gelido. Il traffico andava scemando.
Avevo quasi abbandonato la speranza e stavo agitando il fazzoletto meccanicamente quando, all’improvviso, ho notato incredulo un camion che si stava fermando. Sembrava familiare. Ho strizzato gli occhi e ho letto la targa: 26539, MIAMI, FLA. Sì, era lui: l’enorme camion che si era fermato per me la mattina.
Mentre correvo verso di lui, l’autista è sceso dalla cabina, ha accennato col capo alla moto e ha fatto un gran sorriso:
«E così alla fine sei riuscito a mandarla a puttane, eh?».
Un ragazzo lo ha seguito giù dal camion, e insieme abbiamo esaminato il relitto.
«C’è la possibilità di rimorchiarla fino a Birmingham?».
«Macché, è vietato!». Si è grattato la barba corta sul mento, mi ha lanciato uno sguardo d’intesa: «Tiriamola su e mettiamola dentro!».
Abbiamo lottato e ansimato issando la pesante macchina nel ventre del camion. Alla fine l’abbiamo messa al sicuro tra i mobili, fissandola con delle funi e nascondendola a occhi indiscreti sotto un mucchio di sacchi di tela.
L’uomo è risalito in cabina, seguito dal ragazzo e poi da me, e ci siamo sistemati – in quest’ordine – lungo l’ampio sedile. Ha accennato un inchino, ed è passato alle presentazioni formali:
«Questo è Howard, il mio compagno di viaggio. Tu come ti chiami?».
«Wolf».
«Fa niente se ti chiamo Wolfie?».
«No, fa’ pure. E tu come ti chiami?».
«Mac. Siamo tutti Mac, sai, ma io sono il Mac autentico originale! Lo vedi dal mio braccio».
Per qualche minuto siamo andati avanti in silenzio, studiandoci a vicenda di nascosto.
Mac sembra sulla trentina, ma potrebbe avere anche cinque anni di più o di meno. Con un bel viso energico e sveglio, naso dritto, labbra risolute e baffi curati, può passare per un ufficiale della cavalleria britannica; potrebbe recitare in una particina romantica sullo schermo o sul palcoscenico – ecco le mie prime impressioni.
Indossava il berretto con stemma e visiera che portano tutti i camionisti, e una camicia con stampato il nome della sua compagnia: ACE TRUCKERS, INC. Al braccio portava una fascetta rossa su cui è scritto: CORTESIA E SICUREZZA - QUESTO È IL MIO IMPEGNO, e mezzo nascosto sotto la manica arrotolata, avviluppato tra le spire di un pitone, il suo nome: MAC.
Howard può sembrare un sedicenne, se non fosse per le rughe profonde che gli disegnano un arco sopra la bocca. Le labbra sono sempre leggermente dischiuse, mostrando denti gialli e irregolari ma forti, e una stupefacente distesa di gengive. Gli occhi sono di un azzurro chiarissimo, come quelli di certi animali albini. È alto e ben fatto, ma sgraziato.
Dopo un po’ ha girato la testa e mi ha guardato con i suoi pallidi occhi animali. Prima mi ha fissato dritto negli occhi per un minuto; poi il suo sguardo si è allargato per abbracciare il resto della mia faccia, le parti visibili del mio corpo, la cabina del camion e la strada che scorreva monotona fuori dal finestrino. Mentre il suo raggio si ampliava, l’attenzione di Howard si è spenta, finché la sua faccia non ha riassunto la consueta sognante vacuità. L’effetto è stato dapprima inquietante, poi misterioso. Con un moto improvviso di orrore e pietà, ho capito che è ritardato.
Mac ha fatto una breve risata nel buio. «Allora, non pensi che siamo una bella coppia?».
«Adesso lo vedremo» ho risposto. «Fino a dove mi porti?».
«Fino alla fine del mondo, comunque a New York. Saremo là martedì, forse mercoledì».
È scivolato nuovamente nel silenzio.
Qualche miglio più avanti mi ha chiesto all’improvviso: «Mai sentito parlare del processo Bessemer?».
«Sì» ho ribattuto. «L’abbiamo fatto a scuola, in chimica».
«Mai sentito parlare di John Henry, il negro che conficcava l’acciaio nella roccia a martellate? Be’, viveva proprio qui. Quando costruirono una macchina per fare quel lavoro, dissero che la manodopera umana non avrebbe mai potuto competere. Allora i negri fecero una scommessa, e portarono il loro uomo più forte, John Henry. Dicono che le sue braccia misurassero più di cinquanta centimetri di circonferenza. Aveva una mazza in ogni mano, e conficcò un centinaio di barre, più velocemente della loro macchina. Poi cadde a terra e morì. Sissignore! Questo è il paese dell’acciaio».
Eravamo circondati da depositi di rottami, autodemolitori, binari di servizio e fonderie. Il clangore dell’acciaio rimbombava nell’aria, come se tutta Bessemer fosse stata una gigantesca ferriera o fabbrica d’armi. Grandi fiamme sormontavano le ciminiere, innalzandosi dalle fornaci sottostanti.
Ho visto solo un’altra volta una città illuminata dalle fiamme, ed è stato da bambino, quando avevo sette anni e vidi Londra durante il blitz del 1940.
Oltrepassate Bessemer e Birmingham, Mac ha cominciato a parlare di sé a ruota libera.
Ha acquistato il camion versando un acconto di cinquecento dollari e poi il saldo – ventimila dollari – nell’arco di un anno. Può portare fino a tredici tonnellate e mezza di carico, e va dappertutto: in Canada, negli States, in Messico, purché ci siano strade decenti e denaro da guadagnare. In media copre circa seicentocinquanta chilometri in una giornata di lavoro di dieci ore; benché capiti spesso di farlo, lavorare più a lungo senza fare soste è illegale. Viaggia sul suo camion, avanti e indietro, ormai da dodici anni, ed è «in coppia» con Howard soltanto da sei mesi. Ha trentadue anni, abita in Florida, con una moglie e due figli, e guadagna trentacinquemila dollari l’anno.
Ha abbandonato la scuola a dodici anni e, poiché sembrava più grande, aveva trovato lavoro come commesso viaggiatore. A diciassette anni si era arruolato in polizia, e a venti si era ormai fatto una notevole esperienza con le armi da fuoco. Quell’anno era stato coinvolto in una sparatoria e per poco non l’avevano colpito in faccia a bruciapelo. Dopo quell’episodio ha perso il suo coraggio e ha cambiato mestiere diventando camionista, benché sia ancora membro onorario delle forze di polizia della Florida, e riceva un compenso simbolico di un dollaro l’anno.
Mi ero mai trovato in mezzo a una sparatoria? – mi ha chiesto. No. A lui, invece, è capitato più volte di quante riesca a ricordarne, da poliziotto e da camionista. Se avessi dato un’occhiata, avrei trovato la sua pistola – l’«amica del camionista» – proprio sotto al sedile; tutti gli autisti portano un’arma sulla strada. La migliore, però, in un combattimento senza pistola, è un pezzo di corda da pianoforte. Una volta passatolo attorno al collo dell’avversario, quello non può fare più nulla. Basta una tiratina, e la testa cade: facile come tagliare il formaggio! Impossibile fraintendere il piacere nella sua voce.
Ha trasportato di tutto a bordo dei camion – dalla dinamite ai fichi d’india –, ma adesso si è assestato sul trasporto di mobili, anche se il termine include qualsiasi cosa un uomo possa tenere in casa. A bordo ha il contenuto di diciassette case, compresi 320 chilogrammi di pesi (proprietà di un culturista che sta lasciando la Florida); un pianoforte a coda fabbricato in Germania, che si dice sia il migliore esistente; dieci televisori (ieri sera ne hanno tirato fuori uno e l’hanno acceso); e un antico letto a baldacchino in viaggio per Filadelfia. Se mi va, ha detto Mac, posso dormirci quando voglio.
Il letto a baldacchino gli ha messo in faccia un sorriso nostalgico, così ha cominciato a parlare dei suoi exploit sessuali. Sembra aver avuto un incredibile successo in ogni tempo e in ogni luogo, tuttavia quattro donne hanno avuto un ruolo di primo piano nei suoi affetti: una ragazza di Los Angeles che una volta fuggì con lui viaggiando come clandestina sul suo camion; due fanciulle della Virginia con cui aveva fatto una cosa a tre, e che per anni l’avevano inondato di vestiti e denaro; e una ninfomane a Città del Messico, capace di farsi venti uomini in una notte, senza averne ancora abbastanza.
Mentre si scaldava parlando, le ultime tracce di diffidenza sono scomparse e Mac è emerso in tutto il suo splendore di Atleta del sesso e Narratore di storie. Per le donne sole, è un dono del cielo.
È stato durante il suo recital che Howard, in precedenza disteso in una sorta di stato stuporoso, ha drizzato le orecchie e ha dato i primi segni di animazione. Quando se n’è accorto, Mac dapprima lo ha assecondato, poi ha cominciato a stuzzicarlo con uno scambio di battute scherzose: stasera, ha detto, porterà una ragazza in cabina e chiuderà Howard a chiave nel rimorchio; ma una notte, se il ragazzo si agghinderà come si deve, gli procurerà una vera puttana (whore, ma lui lo pronuncia «hooorrh»). Howard, sempre più scatenato e arrapato, ha iniziato ad ansimare di eccitazione; alla fine si è avventato con rabbia su Mac.
Mentre si azzuffavano in cabina, un po’ per furia e un po’ per gioco, hanno dato un violento colpo al volante, e l’enorme camion ha sbandato pericolosamente lungo la strada.
Tra una frecciata e l’altra, però, Mac impartiva a Howard anche un’istruzione alla buona:
«Qual è la capitale dell’Alabama, Howard?».
«Montgomery, schifoso figliodiputtana!».
«Proprio così, giusto! La capitale dello stato non è mica sempre fra le città più grosse. Guarda laggiù, quelli sono alberi di pecan!».
«Fanculo, me ne sbatto!» ha grugnito Howard, allungando in ogni caso il collo per vederli.
Un’ora dopo ci siamo fermati in un’area di servizio per camionisti da qualche parte nel territorio disabitato dell’Alabama, perché Mac aveva deciso che dovevamo restare lì per la notte: il posto si chiama TRAVEL HAPPY – viaggia felice.
Siamo entrati per un caffè. Mac si è applicato, con cortese fermezza, al compito di intrattenermi con «storie divertenti», delle quali ha un archivio tanto infinito quanto esecrabile, peraltro molto inferiore alle sue esperienze di prima mano. Dopo aver adempiuto a questo amichevole dovere, si è allontanato per unirsi alla calca intorno al juke-box.
Il sabato sera i camionisti si riuniscono sempre intorno a un juke-box e fanno di tutto per arrivare alla stazione di servizio proprio quella sera. Il juke-box del Travel Happy, in particolare, gode di una certa fama, perché ha una splendida collezione di canzoni e ballate di camionisti, l’epica della strada: selvagge, sconce, malinconiche, oppure nostalgiche, ma tutte con un ritmo e un’energia incalzanti, con una particolare eccitazione che rappresenta la poesia stessa del movimento e delle strade senza fine.
In genere i camionisti sono uomini solitari. Eppure in qualche occasione – come quando ascoltano un disco infinitamente familiare strillato dal juke-box in una tavola calda soffocante e affollata – vengono come risvegliati e all’improvviso, senza bisogno di parole o azioni, sono trasfigurati da folla inerte a comunità orgogliosa: ciascuno, benché anonimo e di passaggio, è tuttavia consapevole della propria identità insieme a chi sta intorno a lui, e anche insieme a tutti quelli venuti prima e a quelli rappresentati nelle canzoni e nelle ballate.
La sera Mac e Howard, come tutti gli altri, si sono fatti assorti e orgogliosi, in un’involontaria trascendenza di se stessi, sprofondando in una fantasticheria senza tempo.
Intorno a mezzanotte, Mac ha avuto un forte sussulto e poi ha strattonato Howard per il colletto. «Benissimo, ragazzo,» ha detto «troviamoci un posto per dormire. Vuoi dire la preghiera del camionista prima di andare a letto?».
Ha tirato fuori dal portafogli un cartoncino spiegazzato e me lo ha porto. Io l’ho disteso e ho letto a voce alta:
Oh Signore, dammi la forza di fare questo viaggio,
non per spasso ma per denaro.
Ti prego aiutami a non bucare,
risparmiami i guai al motore, e non quelli soltanto.
Aiutami a passare il controllo del peso e dell’ICC18
o fa’ che il giudice mi lasci andare.
Tienimi alla larga gli autisti della domenica
e anche le donne al volante, ti prego.
E quando mi sveglio nella cabina puzzolente,
fa’ che ci siano uova e prosciutto a portata di mano.
Che il caffè sia forte, e le donne deboli,
e la cameriera graziosa – niente tipi strani.
Che le strade siano migliori, e la benzina costi meno,
e al mio ritorno, Signore, procurami un letto.
Se lo farai, Signore, con un po’ di fortuna
continuerò a guidare questo vecchio aggeggio.
Mac si è portato in cabina coperta e cuscino, Howard è strisciato in un angolino in mezzo ai mobili, e io mi sono preparato un letto su un mucchio di sacchi accanto alla moto (il letto a baldacchino che Mac mi aveva promesso è davanti, inaccessibile).
Ho chiuso gli occhi e ho drizzato le orecchie. Mac e Howard stavano sussurrando l’uno all’altro, usando le solide pareti del camion come conduttore. Mettendo l’orecchio su parte dell’intelaiatura adesso sentivo anche altri rumori – i suoni di chi scherzava, di chi beveva e di chi faceva l’amore – provenienti da tutti gli altri camion intorno a noi, che arrivavano all’antenna del mio orecchio.
Steso al buio, soddisfatto, mi sentivo in un autentico acquario di suoni; e ben presto mi sono addormentato.
La domenica è un giorno di riposo, al Travel Happy come in tutta l’America. Un vetro illuminato sopra di me, odore di paglia e tela di sacco, odore della giacca di pelle che mi fa da cuscino. In un attimo di confusione ho pensato di essere in un gran fienile da qualche parte, e poi tutt’a un tratto mi sono ricordato.
Ho sentito un suono sommesso di acqua corrente, iniziato all’improvviso e finito poi gradualmente, esitante, con un paio di getti brevi – quasi un ripensamento. Qualcuno stava pisciando contro la fiancata del camion; il nostro camion, ho pensato, con un’affermazione di possesso che mi era nuova. Mi sono tirato fuori da sotto i sacchi e sono andato in punta di piedi al portellone. Una traccia fumante correva dalla ruota giù fino al terreno, testimoniando l’atto criminoso – ma il colpevole ormai si era squagliato.
Sette di mattina. Mi sono seduto sul gradino più alto della cabina e ho cominciato a scribacchiare il mio diario. Un’ombra è caduta sulla pagina: ho alzato lo sguardo e ho riconosciuto un camionista che la sera prima avevo intravisto nella tavola calda piena di fumo. Era John, il biondo Lothario della Mayflower Transit Co., forse lo stesso uomo che aveva pisciato contro la nostra ruota. Abbiamo chiacchierato per un po’ e mi ha detto che era partito da Indianapolis – la nostra prossima destinazione – la sera prima: stava nevicando.
Qualche minuto dopo, un altro camionista, un uomo basso e grasso, si è avvicinato camminando dinoccolato; indossava una camicia a fiori della Tropicana Orange Juice Co. Fla., mezza sbottonata, che esponeva un ventre ballonzolante e peloso.
«Cristo, fa freddo qui» ha biascicato. «Ieri a Miami c’erano trentadue gradi!».
Altri si sono radunati intorno a me, parlando dei loro itinerari e dei loro viaggi, di montagne, oceani, pianure; di foresta e deserto; di neve e grandine Ieri sera, come ogni sera, al Travel Happy si è raccolto un mondo intero di viaggi e strane esperienze.
Sono andato dietro al camion e ho visto attraverso il portellone accostato Howard che dormiva nella sua nicchia. Aveva la bocca aperta e anche gli occhi – l’ho notato con apprensione – non erano del tutto chiusi. Per un attimo ho pensato che fosse morto durante la notte, finché non l’ho visto respirare e girarsi un po’ nel sonno.
Un’ora dopo Mac si è svegliato, arruffato e scompigliato, ed è barcollato fuori dalla cabina; è sparito in direzione dei servizi, portandosi dietro una grossa borsa Gladstone. Qualche minuto dopo, quando è tornato indietro, era perfettamente strigliato e rasato, lindo e vestito di tutto punto per il giorno del Signore.
Ci siamo incamminati insieme verso la tavola calda.
«Che facciamo con Howard?» ho chiesto io. «Devo svegliarlo?».
«No, il ragazzo si sveglia più tardi».
Evidentemente Mac sentiva il bisogno di parlare con me senza averlo tra i piedi.
«Fosse per lui dormirebbe tutto il giorno» ha brontolato a colazione. «È un bravo ragazzo, ma certo non una cima».
Lo ha incontrato sei mesi fa – uno straccione di ventitré anni – e gli ha fatto pena. Il ragazzo era scappato di casa dieci anni prima, e suo padre – un noto banchiere di Detroit – non si era dato granché da fare per ritrovarlo. Howard si era messo in viaggio e aveva vagabondato in lungo e in largo, facendo qualche lavoretto saltuario; a volte chiedendo l’elemosina e a volte rubando, riuscendo a evitare chiese e prigioni. Era stato per un breve periodo nell’esercito, ma ben presto l’avevano congedato perché ritardato.
Un giorno Mac lo ha preso a bordo del camion e lo ha «adottato»: adesso lo porta con sé in tutti i suoi viaggi, mostrandogli il paese, insegnandogli a imballare e a stivare il carico (e anche a parlare e a comportarsi) e pagandogli un regolare salario. Quando tornano in Florida, alla fine di un viaggio, Howard va a stare con la moglie e la famiglia di Mac, dove ha lo status di un fratello minore.
Mentre bevevamo la nostra seconda tazza di caffè, la bella faccia di Mac si è rannuvolata.
«Mi sa che non resterà con me ancora a lungo. Forse nemmeno io guiderò ancora per molto».
Mi ha spiegato che ha avuto un curioso «incidente» qualche settimana fa, quando, senza preavviso, gli è capitato un «blackout» e il suo camion è finito in un campo. Quelli dell’assicurazione hanno pagato, insistendo tuttavia affinché faccia una visita medica; hanno anche avuto da ridire sul fatto che porti un compagno in cabina, quale che sia l’esito della visita.
È chiaro che Mac teme – come probabilmente sospetta anche la sua assicurazione – che il «blackout» sia stato causato dall’epilessia, e che la visita medica segni la fine della sua vita al volante. Ha avuto la lungimiranza di prepararsi un buon lavoro a New Orleans, nel settore assicurativo.
A questo punto è entrato Howard, e Mac ha cambiato rapidamente argomento.
Dopo colazione Mac e Howard si sono seduti su un vecchio copertone, e hanno cominciato a tirare sassi contro un palo di legno. Abbiamo parlato in modo vago e incoerente di molte cose, concedendoci la dolce indolenza domenicale del camionista. Dopo un paio d’ore ne avevano abbastanza e sono saliti sul camion per rimettersi a dormire.
Io ho preso un paio di sacchi di iuta dal rimorchio e mi sono sistemato a prendere il sole, circondato da bottiglie rotte, pelli di salsicce, cibo, lattine di birra, contraccettivi in decomposizione e un’incredibile quantità di carta strappata e accartocciata: qua e là, dai rifiuti sbucava il gambo di una cipolla selvatica o un po’ di erba medica.
Mentre ero lì steso e sonnecchiavo o scrivevo, i miei pensieri andavano spesso al cibo. Dietro di me c’erano una ventina di polli striminziti che raspavano nella polvere, e di tanto in tanto li guardavo con un sospiro malinconico, giacché poco prima Mac aveva agitato al loro indirizzo la sua «amica del camionista» (un’automatica dall’aria efficiente), dicendo:
«Stasera, pollo per cena!» con una simpatica risatina.
All’incirca ogni ora mi alzavo per sgranchirmi le gambe, e mi facevo quattro caffè e un gelato di noce nera alla tavola calda, arrivando all’attuale totale di ventotto e sette, rispettivamente.
Ho anche fatto molte visite ai servizi, perché da quando, ieri sera, ho assaggiato i peperoncini piccanti di Mac, ho una diarrea incandescente.
Nel piccolo locale dei bagni ci sono cinque distributori di contraccettivi, un esempio interessante di come le pressioni commerciali seguano un uomo anche nelle sue attività più intime. Il costo di questi magnifici articoli («arrotolati elettronicamente, sigillati nel cellophane, flessibili, sensibili e trasparenti», come erano entusiasticamente descritti) è di tre per mezzo dollaro, ma la scritta è stata modificata, e invece di «three for half a dollar» si legge «THREE FOR A DOLL», tre per una bambola. C’è anche una macchina con la scritta PROLONG, che dispensa un unguento anestetico fatto apposta, afferma, «per aiutare a evitare l’orgasmo precoce». Tuttavia John – il biondo Lothario che si sta rivelando un autentico compendio di informazioni sessuali – sostiene che l’unguento per le emorroidi è molto meglio. Il Prolong è troppo forte – non sai mai se sei venuto o no.
A metà pomeriggio, tutt’a un tratto, Mac ha annunciato che saremmo restati al Travel Happy per un’altra notte. Sfoggiava un sorriso compiaciuto, deliberatamente misterioso – senza dubbio ha combinato con Sue o Nell per un appuntamento in cabina stanotte. In questa atmosfera da intrigo, Howard si stava comportando come un cane in calore. Nonostante il suo sfoggio di spavalderia ho il sospetto (e Mac me lo ha confermato) che non sia mai stato con una ragazza. In effetti, di tanto in tanto Mac gliene ha procurata qualcuna, ma lui – così esplicito quando si tratta di imprese immaginarie – diventa timido e rozzo quando deve affrontare la realtà, e le cose «saltano» sempre proprio all’ultimo momento.
Sono tornato a scrivere e alle mie tazze di caffè. Ogni tanto uscivo fuori a sgranchirmi le gambe, e a sbirciare curioso i camionisti che intorno a me russavano nelle loro cabine e a confrontare le loro facce e i loro atteggiamenti nel sonno.
Alle 4.20 è spuntata l’alba, con una luce soffusa e indecisa a oriente. Un camionista si è svegliato ed è andato verso il casotto dei servizi a pisciare. Quando è tornato al camion ha controllato il carico, si è issato in cabina e ha sbattuto la portiera. Ha acceso il motore con un ruggito, ed è partito lentamente. Gli altri camion sono rimasti muti e addormentati.
Alle cinque una pioggia fine ha preso il posto dell’alba, spenta sul nascere. Uno dei galletti male in arnese starnazzava mentre nell’erba cominciavano a frinire gli insetti.
Alle sei la tavola calda si è impregnata dell’odore di burro e frittelle, uova e bacon. Le cameriere del turno di notte hanno smontato, augurandomi buona fortuna nei miei vagabondaggi in giro per l’America. Il personale del turno di giorno ha preso servizio; vedendomi ancora seduto al tavolo che ho occupato per tutta la giornata di ieri mi hanno sorriso.
Adesso posso andare e venire nella piccola tavola calda a mio piacimento. Non mi fanno più pagare niente. Ho bevuto più di settanta tazze di caffè nelle ultime trenta ore, e questa impresa merita qualche piccola concessione.
Sono le otto, e Mac e Howard se ne sono appena andati di corsa a Coleman, per aiutare gli uomini della Mayflower a scaricare. Tutt’a un tratto il ritmo è diverso: oggi non hanno detto nulla, hanno saltato la colazione e non si sono lavati. La borsa Gladstone di Mac resterà riposta per un’altra settimana.
Sono scivolato in cabina, appena lasciata vuota da Mac – era ancora calda del suo sonno umido –, mi sono sistemato sotto la sua vecchia coperta lisa e in un attimo sono caduto addormentato anch’io. Alle dieci sono stato svegliato per un momento da un forte scroscio di pioggia sul tetto, ma ancora non c’era traccia di Mac o Howard.
Alla fine si sono presentati a mezzogiorno e mezzo, con il passo pesante e tutti inzaccherati per aver spostato il carico sotto un acquazzone.
«Cristo» ha detto Mac. «Sono morto. Mangiamo – e fra un’ora ci rimettiamo in viaggio».
Questo è successo tre ore fa, e ancora non ci siamo mossi! Hanno fumato, hanno fatto gli spacconi, hanno giocherellato e flirtato senza alcuna fretta, come se avessero davanti mille anni. Furioso e impaziente, mi sono ritirato in cabina con i miei taccuini. Lothario-John ha cercato di rabbonirmi:
«Non prendertela, ragazzo! Se Mac dice che arriverà a New York mercoledì, sarà così, anche se restasse al Travel Happy fino a martedì sera».
Dopo quaranta ore passate qui, quest’area di servizio mi è infinitamente familiare. Conosco una ventina di uomini – le loro simpatie e antipatie, i loro scherzi e le loro fissazioni. E loro conoscono le mie, o pensano di conoscerle, e mi chiamano «doc» o «professore», con benevolenza.
Io conosco tutti i camion: tonnellaggio, carichi, prestazioni, particolarità e contrassegni.
Conosco tutte le cameriere del Travel Happy – Carol, il capo, mi ha scattato una foto con la Polaroid, in piedi tra Sue e Nell, con la faccia non rasata e abbagliato dal flash. L’ha attaccata insieme ad altre foto, così che adesso ho il mio posto nella sua famiglia di mille fratelli, in mezzo ai suoi «boyfriends» che vanno e vengono sulle lunghe rotte tracciate dai camion attraverso il paese.
«Sì!» dirà Carol a qualche futuro cliente che esaminerà sconcertato la foto. «Quello è ‘Doc’. Un tipo fantastico, forse un filo strano. Viaggiava con Mac e Howard, quei due lassù. Spesso mi chiedo che ne sarà stato di lui».
13. Si era scoperto che, se si procuravano piccole lesioni in certe aree (iniettando alcol o mediante congelamento), tali lesioni non mettevano a rischio il paziente ma potevano interrompere un circuito diventato iperattivo, responsabile di molti sintomi del parkinsonismo. Nel 1967, con l’avvento della L-dopa, la chirurgia stereotassica fu praticamente abbandonata, ma adesso sta conoscendo una nuova vita per l’impianto di elettrodi e per la stimolazione cerebrale profonda in altre parti del cervello.
14. Fu al Mount Zion che Libet eseguì i suoi sbalorditivi esperimenti dimostrando che se si chiedeva ai soggetti di stringere il pugno, o di eseguire un’altra azione volontaria, il loro cervello registrava una «decisione» quasi mezzo secondo prima che vi fosse una qualsiasi decisione consapevole da attuare. Benché i soggetti ritenessero di aver compiuto un movimento consapevole esercitando il proprio libero arbitrio, sembrava che il cervello avesse preso una decisione molto prima di loro.
15. Trovai interessante constatare che, nel 1994, quando uscì il suo Collected Poems, quella fu l’unica poesia di The Sense of Movement che Thom decise di non ristampare.
16. Thom Gunn, I miei tristi capitani e altre poesie, trad. it. di C. Pennati, Mondadori, Milano, 1968 [N.d.T.].
17. L’intenzione era sincera, ma sono passati più di cinquant’anni e non sono ancora cittadino statunitense. Accadde lo stesso a mio fratello in Australia. Arrivò là nel 1950, ma prese la cittadinanza australiana solo cinquant’anni dopo.
18. Interstate Commerce Commission [N.d.T.].