IL TORO SULLA MONTAGNA

Dopo la morte di mia madre, feci ritorno in una New York gelida. Appena licenziato dal Beth Abraham, non avevo più una casa, né un vero e proprio lavoro, e nemmeno un’entrata significativa.

Stavo tuttavia lavorando come specialista, una volta alla settimana, in un ambulatorio neurologico presso il Bronx Psychiatric Center, confidenzialmente noto come il «Bronx State»; visitavo pazienti ai quali di solito era stata diagnosticata una schizofrenia o un disturbo maniaco-depressivo, per capire se avessero anche qualche problema neurologico. Capitava spesso, infatti, che i soggetti in cura con i tranquillanti maggiori sviluppassero, come mio fratello Michael, disturbi del movimento (parkinsonismo, distonia, discinesia tardiva, eccetera); ed era frequente che tali disturbi fossero ancora presenti quando la terapia farmacologica era stata ormai interrotta da tempo. Parlai con molti pazienti che sostenevano di poter convivere con i loro disturbi mentali, ma non con i disturbi del movimento che avevamo causato loro.

Visitai anche persone con psicosi o disturbi affini alla schizofrenia causati da patologie neurologiche (o da esse amplificati). Nei reparti per lungodegenti del Bronx State individuai diversi pazienti postencefalitici non diagnosticati o mal diagnosticati, insieme ad altri con tumori al cervello o malattie cerebrali degenerative.

Questo lavoro però mi occupava soltanto per qualche ora alla settimana ed era pagato pochissimo. Comprendendo la mia situazione, il direttore del Bronx State, Leon Salzman (uomo molto cordiale che aveva scritto un libro eccellente sulla personalità ossessiva), mi propose di lavorare part-time nell’ospedale. Pensava che avrei trovato particolarmente interessante il Reparto 23, dove si trovavano ammassati, tutti insieme, giovani adulti con problemi diversi tra i quali autismo, ritardo mentale, sindrome alcolica fetale, sclerosi tuberosa e schizofrenia a esordio precoce.

A quel tempo l’autismo non era un tema scottante, tuttavia a me interessava, e quindi accettai l’offerta. All’inizio stare in quel reparto mi piacque, benché l’esperienza mi sconvolgesse nel profondo. I neurologi, forse più di qualsiasi altro specialista, hanno a che fare con casi tragici: persone colpite da malattie incurabili e spietate che possono causare enormi sofferenze. Insieme alla solidarietà, all’empatia e alla compassione, deve esserci anche una sorta di distacco, così che uno non sia indotto a identificarsi troppo con i pazienti.

Nel Reparto 23, però, vigeva un cosiddetto programma di modificazione comportamentale che faceva leva su ricompense e punizioni, in particolare «punizioni terapeutiche». Io detestavo vedere come erano trattati i pazienti, a volte chiusi a chiave in camere di isolamento, lasciati senza cibo o sottoposti a misure di contenzione. Fra l’altro, mi ricordava come ero stato trattato io stesso, da piccolo, in un collegio dove spesso un preside capriccioso e sadico puniva me e gli altri bambini. A volte sentivo di precipitare, quasi del tutto indifeso, nell’identificazione con i pazienti.

Li osservavo con molta attenzione, ero addolorato per loro e cercavo, come medico, di farne affiorare il potenziale positivo. Ogni volta che era possibile, tentavo di coinvolgerli nella sfera moralmente neutra del gioco. Con John e Michael, due gemelli autistici ritardati, calcolatori del calendario e savants aritmetici, il gioco assumeva la forma della ricerca di fattori o di numeri primi; nel caso di José, un ragazzo autistico con un talento per l’espressione grafica, il gioco si svolgeva nell’ambito del disegno e delle arti visive; mentre per Nigel – un ragazzo autistico muto e probabilmente ritardato – era essenziale la musica. Feci portare il mio vecchio piano verticale nel Reparto 23 e, quando suonavo, lui e alcuni altri giovani pazienti mi si raccoglievano intorno. Nigel, se la musica gli piaceva, eseguiva strane danze elaborate (in un referto parlai di lui come di un «Nijinsky idiota»).

Steve, anch’egli muto e autistico, era attratto da un tavolo da biliardo che avevo trovato nel seminterrato dell’ospedale e che avevo fatto portare su in reparto. Imparò con una velocità sorprendente e, benché passasse ore da solo al tavolo, era chiaro che gli piaceva giocare con me. Da quanto mi era dato capire, questa era la sua sola interazione sociale o personale. Quando non era assorbito dal tavolo da biliardo, era iperattivo, correva di qua e di là, in costante movimento, tutto preso a sollevare oggetti e a esaminarli: una sorta di comportamento di esplorazione, per metà compulsivo e per metà ludico, simile a quanto a volte si osserva nella sindrome di Tourette o in certi disturbi dei lobi frontali.

Ero affascinato da questi pazienti e all’inizio del 1974 cominciai a scrivere di loro. Ad aprile avevo ormai completato ventiquattro pezzi: abbastanza, pensavo, per un piccolo libro.

Il 23 era un reparto chiuso, e per Steve essere confinato era particolarmente duro. A volte si metteva seduto vicino alla finestra o accanto alla porta a pannelli – di vetro con armatura metallica –, desiderando con tutto se stesso di trovarsi fuori. Non lo facevano mai uscire: «scapperebbe via» dicevano. «Se la darebbe a gambe».

A me dispiaceva moltissimo per lui e benché non potesse parlare, a giudicare da come mi cercava e mi stava attaccato al tavolo da biliardo, ero convinto che da me non sarebbe scappato. Parlai con uno psicologo dei Bronx Developmental Services, un programma diurno nel quale lavoravo anch’io una volta alla settimana; dopo aver visitato Steve, il collega convenne che noi due avremmo potuto tranquillamente portarlo fuori insieme. Esponemmo l’idea al dottor Taketomo, il direttore del Reparto 23, il quale ci rifletté a lungo e poi acconsentì dicendo: «Se lo portate fuori è sotto la vostra responsabilità. Badate che torni indietro tutto intero».

Quando lo facemmo uscire dal reparto, Steve si mostrò sorpreso, ma sembrò capire che stavamo andando a fare un giro fuori. Salì in macchina e insieme ci dirigemmo all’orto botanico, distante dieci minuti dall’ospedale. A Steve piacevano le piante; era maggio, e i lillà erano in piena fioritura. Gli piacevano i pendii erbosi e i grandi spazi tutt’attorno. A un certo punto raccolse un fiore, lo fissò e pronunciò la prima parola che gli avessimo mai sentito dire: «Soffione!».

Eravamo sbalorditi; non immaginavamo che Steve fosse in grado di riconoscere un fiore qualsiasi, e meno che mai che sapesse nominarlo. Passammo mezzora all’orto botanico e poi tornammo indietro lentamente, in auto, per fargli osservare bene la folla e i negozi su Allerton Avenue, l’animato andirivieni dal quale, al Reparto 23, era completamente tagliato fuori. Quando rientrammo in ospedale fece un po’ di resistenza, ma poi sembrò capire che avrebbero potuto esserci altre uscite.

I membri del personale sanitario, che si erano unanimemente opposti alla nostra escursione prevedendo che si sarebbe conclusa in un disastro, sembrarono infuriarsi quando ci ascoltarono descrivere il buon comportamento di Steve, la sua evidente felicità all’orto botanico, e la sua prima parola. Fummo accolti da facce scure.

Avevo sempre cercato di evitare le grandi riunioni dello staff che si tenevano il mercoledì, ma il giorno dopo la nostra uscita con Steve il dottor Taketomo insistette perché ci andassi. Ero in apprensione per quello che avrei potuto sentire, e ancora di più per quello che avrei potuto dire. Apprensione pienamente giustificata.

Lo psicologo responsabile del reparto affermò che era stato istituito un programma di modificazione comportamentale, che il programma era bene organizzato e dava buoni risultati, e che io lo stavo mettendo a rischio con le mie idee di «gioco» svincolato da gratificazioni o punizioni esterne. Risposi difendendo l’importanza del gioco e criticando il modello gratificazione-punizione. Dissi che secondo me costituiva un mostruoso abuso a danno dei pazienti, perpetrato in nome della scienza, a volte in odore di sadismo. La mia replica non fu accolta troppo gentilmente, e la riunione si concluse in un silenzio carico di risentimento.

Due giorni dopo Taketomo salì da me e disse: «Gira voce che lei stia abusando sessualmente dei suoi giovani pazienti».

Ero scioccato, e risposi che una cosa del genere non mi sarebbe mai passata per la mente. Io consideravo i pazienti come persone affidate a me, sotto la mia responsabilità, e non avrei mai usato il mio potere di figura terapeutica per approfittare di loro.

Mentre la rabbia mi montava dentro, aggiunsi: «Forse saprà che, quando era un giovane neurologo, Ernest Jones – collega e biografo di Freud – lavorò a Londra con bambini ritardati e disturbati finché non cominciarono a circolare voci che stesse abusando di loro. Quelle voci lo indussero ad abbandonare l’Inghilterra e ad andarsene in Canada».

Taketomo disse: «Sì, lo so. Ho scritto una biografia di Ernest Jones».

Volevo rivoltarmi e dirgli: «Brutto pezzo di idiota, perché mi hai messo in questa situazione?», ma non lo feci; probabilmente pensava di non essere altro che il mediatore in una discussione civile.

Andai da Leon Salzman e gli raccontai l’accaduto; lui fu comprensivo e si irritò molto, prendendo le mie parti, ma pensava che – nel mio interesse – lasciare il Reparto 23 fosse la cosa migliore da fare. Nell’abbandonare i miei giovani pazienti provai un senso di colpa schiacciante, benché irrazionale, e la sera della partenza gettai nel camino i ventiquattro pezzi che avevo scritto su di loro. Avevo letto che Jonathan Swift, in un momento di disperazione, aveva gettato nel fuoco il manoscritto dei Viaggi di Gulliver, e che il suo amico Alexander Pope l’aveva recuperato. Ma io ero da solo, e non avevo un Pope che salvasse il mio libro.

Il giorno dopo la mia partenza, Steve fuggì dall’ospedale e si arrampicò in cima al Throgs Neck Bridge; per fortuna lo trassero in salvo prima che potesse buttarsi. Questo mi fece capire che l’improvviso abbandono dei miei pazienti, a cui ero stato costretto, era duro e pericoloso per loro almeno quanto lo era per me.

Lasciai il Reparto 23 ribollente di senso di colpa, rimpianto e rabbia: senso di colpa perché abbandonavo i pazienti, rimpianto per aver distrutto il mio libro, e rabbia per le accuse. Erano false, ma mi misero profondamente a disagio; così pensai che tutto quanto avevo espresso in poche parole decisive, a proposito della gestione del reparto, in quella riunione del mercoledì, l’avrei adesso rivelato al mondo intero, in un libro di denuncia che si sarebbe intitolato «Reparto 23».

 

 

 

Appena lasciato il Reparto 23, partii per la Norvegia, perché pensavo che sarebbe stato un luogo ideale, pieno di pace, per lavorare al mio scritto polemico. Incappai tuttavia in una serie di incidenti, uno dopo l’altro, sempre più seri. Dapprima mi allontanai in barca, remando, in uno dei più grandi fiordi norvegesi, l’Hardangerfjord, e poi persi maldestramente un remo in acqua. Riuscii in un modo o nell’altro a tornare indietro con un remo solo, ma mi ci vollero diverse ore, e in un paio di momenti dubitai di farcela.

Il giorno dopo partii per una breve camminata in montagna. Ero da solo e non avevo detto a nessuno dov’ero diretto. Ai piedi della montagna vidi un cartello scritto in norvegese che diceva «attenti al toro»; c’era anche il disegno di un uomo incornato da un toro. Pensai fosse umorismo norvegese: come si fa a tenere un toro su una montagna?

Rimossi il pensiero, ma alcune ore dopo, mentre imboccavo con nonchalance una curva intorno a un gran masso, mi ritrovai faccia a faccia con un toro enorme, piazzato sul sentiero. «Terrore» è un termine troppo blando per descrivere ciò che provai, e la paura scatenò una sorta di allucinazione: il muso del toro sembrò espandersi fino a riempire l’universo. Con grande eleganza, come se per puro caso avessi deciso di terminare la mia passeggiata proprio in quel punto, mi girai e cominciai a tornare sui miei passi. Poi però il coraggio mi venne meno, il panico prese il sopravvento e mi misi a correre giù per il sentiero fangoso e sdrucciolevole. Alle mie spalle sentivo un forte ansimare e il rumore sordo di passi pesanti (era il toro che mi inseguiva?) e poi, all’improvviso – non so come accadde –, mi ritrovai sul fondo di un dirupo con la gamba sinistra torta in modo grottesco sotto di me.

In momenti di estremo pericolo è possibile sperimentare una dissociazione: il mio primo pensiero fu che qualcuno, qualcuno che io conoscevo, avesse avuto un incidente, un brutto incidente, e solo allora capii che quel qualcuno ero io. Cercai di rimettermi in piedi, ma la gamba cedette come pasta frolla, completamente flaccida. La esaminai, molto professionalmente, immaginando di essere un ortopedico intento a mostrare una lesione a un gruppo di studenti: «Potete osservare che il tendine del quadricipite si è completamente strappato, la rotula può essere spostata avanti e indietro, il ginocchio lussato può essere iperesteso: così». Al che, gridai. «Questo fa gridare il paziente» aggiunsi, e poi, nuovamente, capii di non essere un professore che descriveva un soggetto infortunato: la persona infortunata ero io. Avevo usato un ombrello come bastone da passeggio e adesso, tolto il manico, adoperai il fusto per steccarmi la gamba servendomi di strisce di tessuto strappate dalla giacca a vento; poi cominciai la discesa, spingendomi giù facendo leva con le braccia. Al principio procedetti molto silenziosamente, perché temevo che il toro potesse essere ancora nelle vicinanze.

Mentre trascinavo me stesso e la mia gamba inservibile lungo il sentiero, attraversai stati d’animo diversi. Non vidi la mia vita in un lampo, ma molti, moltissimi ricordi mi passarono davanti come un film. Erano quasi tutti ricordi felici e grati, di pomeriggi estivi, di essere stato amato, di aver ricevuto delle cose, ricordi di riconoscenza perché anch’io avevo dato qualcosa in cambio. In particolare pensavo di aver scritto un libro buono e uno molto buono; mi ritrovai a usare il passato. Nella mia mente continuava a scorrere un verso di Auden: «Che i vostri ultimi pensieri siano di gratitudine».

Trascorsero otto lunghe ore, ed ero quasi in stato di shock, con un gran gonfiore alla gamba, che per fortuna non sanguinava. Di lì a poco avrebbe fatto buio; la temperatura stava già calando. Non c’era nessuno che mi cercasse; nessuno sapeva dove fossi. All’improvviso sentii una voce. Alzai lo sguardo e vidi due sagome su una cresta – un uomo con un fucile e una figura più piccola accanto a lui. Vennero giù e mi salvarono, e allora pensai che essere salvati da una morte quasi certa fosse una delle esperienze più belle della vita.

 

Venni imbarcato su un volo per l’Inghilterra e quarantott’ore più tardi fui operato per riparare la lacerazione del muscolo quadricipite e del suo tendine. Tuttavia, dopo l’intervento, non riuscii a muovere o a sentire la gamba lesionata per almeno due settimane. Mi sembrava una cosa aliena, come se non facesse parte di me, ed ero profondamente sconcertato e confuso. Il mio primo pensiero fu di aver avuto un ictus mentre ero sotto l’effetto dell’anestesia. Il secondo, che dovesse trattarsi di una paralisi isterica. Mi ritrovai incapace di comunicare la mia esperienza al chirurgo che mi aveva operato; tutto quello che gli riuscì di dire fu: «Sacks, lei è unico. Non ho mai sentito niente di simile, prima!».

Alla fine, quando i nervi guarirono, il quadricipite tornò alla vita: dapprima ci furono delle fascicolazioni, con singoli fasci di fibre muscolari che si contraevano nel muscolo in precedenza flaccido e inerte; poi comparve la capacità di eseguire piccole contrazioni volontarie del quadricipite, di tendere il muscolo (il quale, nei dodici giorni precedenti, era stato simile a gelatina, impossibile da contrarre); e infine la capacità di flettere l’anca, anche se il movimento era erratico, debole e fonte di affaticamento.

A questo punto mi portarono in sala gessi per togliere i punti e cambiare l’ingessatura. Quando quest’ultima fu rimossa, la gamba mi sembrò del tutto aliena – non «mia», simile invece a un bel modello di cera esposto in un museo anatomico – e mentre mi toglievano i punti non sentii nulla.

Una volta reingessata la gamba, fui portato al dipartimento di fisioterapia per essere messo in piedi ed esser fatto camminare. Uso questa strana costruzione passiva – «essere messo in piedi ed esser fatto camminare» – perché avevo dimenticato come stare in piedi e camminare, come farlo attivamente da solo. Sollevato in piedi, mentre cercavo di reggermi, fui assalito da immagini rapidamente fluttuanti della mia gamba sinistra: sembrava molto lunga, molto corta, molto magra, molto grossa. Queste immagini modularono assestandosi su una relativa stabilità nel giro d’un paio di minuti, mentre il mio sistema propriocettivo si ricalibrava, immaginavo io, adeguandosi al flusso di input sensoriali e al primo balbettante output motorio in una gamba che per due settimane era rimasta priva di sensazione o movimento. Muovere la gamba, però, era un po’ come manipolare l’arto di un robot – un’operazione consapevole, sperimentale, eseguita un passo alla volta. Non aveva nulla della fluidità di un normale camminare. E poi, all’improvviso, «sentii», con la forza di un’allucinazione, uno stupendo passaggio ritmico del Concerto per violino di Mendelssohn (Jonathan Miller me ne aveva portata una registrazione su nastro quando ero entrato in ospedale, e io lo avevo ascoltato in continuazione). Con questa musica in mente, mi ritrovai all’improvviso capace di camminare, di riacquistare, come dicono i neurologi, la «melodia cinetica» del camminare. Quando la musica interiore si fermò, dopo qualche secondo, mi fermai anch’io; per continuare a camminare, avevo bisogno di Mendelssohn. Ma, in capo a un’ora, avevo riacquistato una camminata fluida e automatica, e non dipendevo più dal mio immaginario accompagnamento musicale.

Due giorni dopo mi spostarono a Caenwood House, un vecchio imponente convalescenziario ad Hampstead Heath. Il mese che vi trascorsi fu insolitamente denso di attività sociale: vennero a visitarmi non solo papà e Lennie, ma anche mio fratello David (che aveva organizzato il mio trasferimento in aereo dalla Norvegia e il ricovero di emergenza a Londra) e perfino Michael. E vennero anche nipoti, cugini, vicini, persone che frequentavano la sinagoga e – quasi tutti i giorni – i miei vecchi amici Jonathan ed Eric. Tutto questo, combinato con la sensazione di essere stato salvato dalla morte e di recuperare giorno per giorno mobilità e indipendenza, conferì una qualità particolarmente gioiosa alle settimane che trascorsi nel convalescenziario.

A volte papà veniva a trovarmi dopo il suo giro di visite della mattina (benché quasi ottantenne, aveva ancora una giornata lavorativa piena). Insisteva per visitare alcuni dei vecchi parkinsoniani ricoverati a Caenwood e cantava con loro canzoni dei tempi della prima guerra mondiale; molti di quei pazienti, benché non fossero in grado di parlare, riuscivano però a cantare se mio padre li faceva iniziare. Lennie veniva di pomeriggio, e ci sedevamo fuori, nel tiepido sole di ottobre, a chiacchierare per ore. Quando acquisii maggior mobilità e fui promosso dalle stampelle a un bastone, andavamo a piedi nelle sale da tè di Hampstead o di Highgate Village.

L’incidente alla gamba mi insegnò – in un modo che forse non avrei potuto imparare altrimenti – che il nostro corpo e lo spazio circostante sono mappati nel cervello, e che il danno a un arto, soprattutto se associato all’immobilizzazione e all’ingessatura, può distorcere profondamente questa mappatura centrale. Mi diede anche una percezione della vulnerabilità e della mortalità come non l’avevo mai avuta. Quando ero più giovane e andavo in moto, ero estremamente spericolato. Secondo i miei amici, sembrava che mi ritenessi immortale o invulnerabile; ma dopo la caduta e la mia quasi-morte, la paura e la prudenza si insinuarono nella mia vita e da allora mi sono rimaste accanto, nel bene o nel male. Una vita spensierata si trasformò, in una certa misura, in una vita prudente. Capii che quella era la fine della giovinezza e che ero entrato nella mezza età.

Quasi subito dopo l’incidente, Lennie si convinse che io dovessi scrivere un libro sull’accaduto, ed era felice di vedermi, penna alla mano, prendere appunti sul mio taccuino. («Non usare una penna a sfera!» mi ammoniva brusca: lei scriveva sempre con la stilografica e aveva una calligrafia armoniosa, magnificamente leggibile).

Colin si allarmò quando seppe del mio incidente, ma rimase affascinato quando gli raccontai che cosa era successo e quello che stava accadendo all’ospedale. «Ma questa è roba grandiosa!» esclamò. «Devi scrivere tutto quanto». Si fermò un momento e poi aggiunse: «È come se tu vivessi effettivamente il libro, proprio adesso». Qualche giorno dopo mi portò l’enorme menabò di un libro appena pubblicato (il menabò è un volume che ha solo la copertina, con tutte pagine bianche senza testo) – settecento pagine vuote, bianco panna –, così che potessi scrivere mentre giacevo nel mio letto d’ospedale. Quell’enorme taccuino mi piaceva moltissimo, era il più grande che avessi mai avuto, e presi appunti molto dettagliati sul mio involontario viaggio d’andata e ritorno – così lo consideravo – in un limbo neurologico. (Altri pazienti, vedendomi con quel libro enorme, dicevano: «Razza di fortunato bastardo, neanche fai in tempo a uscirne che già ci stai scrivendo un libro»). Colin telefonava di frequente per controllare i miei progressi – il progresso del «libro» non meno di quello di me come paziente – e spesso veniva anche sua moglie Anna, portandomi in dono trote affumicate e frutta.

Il libro che volevo scrivere avrebbe parlato della perdita e del recupero di un arto. Poiché avevo intitolato il mio ultimo libro Awakenings – Risvegli –, pensavo di intitolare quest’altro «Quickenings».49

Con questo libro, però, ci furono problemi d’un tipo che non avevo mai avuto prima, perché scriverlo comportò di rivivere l’incidente, rivivere la passività e l’orrore della condizione di paziente; e comportò anche l’esposizione di alcuni dei miei sentimenti più intimi, in un modo mai avvenuto nei miei scritti più «da medico».

Si presentarono molti altri problemi. Le reazioni a Risvegli mi avevano esaltato e anche un po’ scoraggiato. Auden e altri avevano detto quello che io non avrei mai osato pensare, e cioè che Risvegli era un’opera importante. Se davvero era così, però, non vedevo alcun modo di darle un seguito che reggesse il confronto. E se Risvegli, ricco com’era di osservazioni cliniche, era stato ignorato dai miei colleghi, che accoglienza potevo aspettarmi per un libro riguardante in modo esclusivo l’esperienza singolare e soggettiva di un unico individuo, e cioè di me stesso?

Ormai, nel maggio del 1975, avevo scritto la prima stesura di «Quickenings» (che in seguito, grazie a un suggerimento di Jonathan Miller, si sarebbe intitolato A Leg to Stand On – Su una gamba sola). Pensavo, come del resto anche Colin, che il manoscritto potesse essere preparato in breve tempo per la pubblicazione. Colin, anzi, era a tal punto fiducioso, che lo incluse nell’imminente catalogo 1976-1977.

In quell’estate del 1975, però, mentre facevo di tutto per chiudere il libro, tra Colin e me qualcosa si inceppò. In agosto i Miller andarono in Scozia e mi consentirono di usare la loro casa a Londra. Proprio di fronte a quella di Colin, non avrebbe potuto essere più vicina: quale situazione migliore per il lavoro che mi aspettava? Sfortunatamente, però, la prossimità che era stata tanto piacevole e produttiva nel caso di Risvegli, adesso sortì l’effetto opposto. La mattina scrivevo, poi trascorrevo il pomeriggio a camminare o a nuotare, e tutte le sere, intorno alle sette o alle otto, Colin passava da me. A quell’ora aveva già mangiato e di solito anche abbondantemente bevuto: molto spesso tendeva a essere su di giri, irritabile e polemico. Le sere d’agosto erano calde e soffocanti, e forse c’era qualcosa, in me o nel mio manoscritto, che faceva affiorare la sua rabbia; quell’estate ero teso e ansioso, incerto sul mio lavoro di scrittura. Lui prendeva uno dei fogli dattiloscritti, leggeva una frase o un paragrafo, e poi gli si scagliava contro: attaccava il tono, lo stile, la sostanza. Prendeva ogni frase, ogni pensiero, e li faceva a pezzi – o almeno così pareva a me. Non mostrava, pensavo io, nulla del buonumore e della cordialità che in precedenza mi avevano trasmesso tanto ottimismo, ma un atteggiamento censorio così inflessibile da mortificarmi. Dopo quelle sedute serali, avevo l’impulso di stracciare il lavoro della giornata, di pensare che il libro fosse un’idiozia e che non fossi in grado, o comunque non dovessi, andare avanti.

L’estate del 1975 si concluse in un’atmosfera negativa e (benché da allora non abbia più visto Colin in uno stato simile) gettò un’ombra sugli anni a venire. Alla fine, Su una gamba sola non fu completato quell’anno.

Lennie si preoccupava per me: Risvegli era finito, il nuovo libro stava incontrando delle difficoltà, e sembrava che io non avessi alcun progetto particolare che mi desse slancio. Mi scrisse: «Spero tanto ... che ti si presenti, e che continui a presentartisi, il tipo di lavoro che fa per te. Sono fermamente convinta che tu debba scrivere, a prescindere dal fatto che sia o meno dell’umore giusto». Due anni dopo, aggiunse: «Levati dalla testa il libro sulla gamba, e scrivi il prossimo».

 

Negli anni successivi scrissi molte versioni di Su una gamba sola, ciascuna delle quali più lunga, più intricata, più labirintica della precedente. Perfino le lettere che inviavo a Colin erano di una lunghezza spropositata: una, del 1978, arrivò a oltre cinquemila parole, con un addendum di altre duemila.

Scrissi anche a Lurija, il quale rispose con pazienza e riguardo alle mie lettere esageratamente lunghe. Alla fine, quando vide che mi ossessionavo senza darmi tregua per un libro realizzabile, mi inviò un telegramma di due parole: «LO FACCIA».

A questo messaggio fece seguire una lettera nella quale parlava delle «ripercussioni centrali di una lesione periferica». Poi proseguì: «Lei sta scoprendo un campo interamente nuovo ... Pubblichi, la prego, le sue osservazioni. Contribuiranno a far superare lo stile “ veterinario” con cui si affrontano i disturbi periferici, e ad aprire la strada a una medicina più profonda e più umana».

Ma il lavoro di scrittura – la scrittura incessante e l’incessante distruzione delle bozze – continuò. Su una gamba sola si rivelò più doloroso e difficile di qualsiasi altra cosa avessi scritto e alcuni miei amici (in particolare Eric), vedendomi così bloccato e tormentato, mi esortarono a considerarlo un lavoro venuto male e a lasciarlo perdere.

 

 

 

Nel 1977, Charlie Markham, che era stato mio mentore in neurologia all’UCLA, venne in visita a New York. Io ero entusiasta di Charlie e avevo passato un po’ di tempo con lui quando stava facendo delle ricerche sui disturbi del movimento. Mentre pranzavamo, si informò sul mio lavoro ed esclamò: «Ma tu non hai una posizione!».

Gli dissi che io avevo una posizione.

«Ma quale? Che genere di posizione hai?» incalzò Charlie (che di recente aveva ottenuto la cattedra di neurologia all’UCLA).

«Al cuore della medicina» risposi io. «Ecco dove sto».

«Pffft» fece lui, con un cenno sprezzante.

Ero arrivato a pensarla in quel modo negli anni dei «risvegli» dei miei pazienti, quando occupavo l’appartamento accanto all’ospedale, e passavo dodici o quindici ore al giorno insieme a loro. Quando venivano a trovarmi, erano i benvenuti; alcuni tra i più attivi passavano a casa mia per una tazza di cioccolata la domenica mattina, e ne accompagnavo qualcuno all’orto botanico, proprio di fronte all’ospedale. Tenevo sotto controllo la loro terapia e il loro stato neurologico spesso instabile, ma facevo anche del mio meglio affinché avessero una vita il più possibile piena, considerando le loro limitazioni fisiche. Ero convinto che cercare di animare la vita di questi pazienti, rimasti immobilizzati e chiusi in ospedale per tanti anni, fosse una parte essenziale del mio ruolo, come loro medico.

Benché non avessi più una posizione o uno stipendio al Beth Abraham, continuavo ad andarci regolarmente. Ero troppo vicino ai miei pazienti per consentire una qualsiasi soluzione di continuità nei nostri contatti; cominciai tuttavia a visitare anche malati ricoverati in altre strutture: case di riposo in tutta New York, da Staten Island a Brooklyn al Queens.50 Divenni un neurologo peripatetico.

In alcuni di questi luoghi, genericamente indicati come «residenze», vidi il completo assoggettamento del senso di umanità all’arroganza e alla tecnologia dei medici. In alcuni casi la negligenza era intenzionale e criminale – pazienti lasciati senza assistenza per ore o addirittura sottoposti ad abusi fisici o mentali. In una «residenza» trovai un paziente con una frattura all’anca, in preda a fortissimi dolori e in una pozza d’urina, ignorato dal personale. Ho lavorato anche in case di riposo dove non vi era negligenza, ma i pazienti non ricevevano nulla che andasse oltre l’assistenza medica di base. Il fatto che chi entrava in quelle case di riposo avesse bisogno di un senso – una vita sua, un’identità, rispetto di sé e un certo grado di autonomia – era ignorato o eluso; l’«assistenza» fornita era esclusivamente meccanica e medica.

Secondo me, a modo loro, queste case di riposo erano orribili come il Reparto 23, e forse ancora più inquietanti, giacché non potevo fare a meno di chiedermi se rappresentassero presagi o «modelli» del futuro.

Nelle case delle Piccole Sorelle dei Poveri trovai una situazione esattamente opposta a quella delle altre «residenze».

La prima volta che sentii parlare delle Piccole Sorelle fu da bambino, perché entrambi i miei genitori prestavano la propria opera nelle loro case di Londra: mio padre come medico generico e mia madre come specialista in chirurgia. Zia Len diceva sempre: «Se mi viene un ictus, Oliver, o se diventassi invalida, portami dalle Piccole Sorelle; offrono l’assistenza migliore del mondo».

Le loro case sono concentrate sulla vita: sul vivere nel modo più pieno e ricco di senso possibile, considerando le limitazioni e le esigenze dei ricoverati. C’è chi ha avuto un ictus, chi soffre di demenza o di parkinsonismo, chi ha problemi di natura «clinica» (per esempio cancro, enfisema o cardiopatie), e anche chi è cieco o sordo; e altri ancora, benché sanissimi, sono sprofondati nella solitudine e nell’isolamento e anelano al calore e al contatto umano di una comunità.

Oltre all’assistenza medica, le Piccole Sorelle forniscono terapie di ogni genere: fisioterapia, terapia occupazionale, logopedia, musicoterapia e (se necessario) psicoterapia e counseling. In aggiunta a tutto questo, vi sono poi attività di vario tipo (non meno terapeutiche): attività non fittizie ma reali, come il giardinaggio e la cucina. All’interno delle case molti residenti hanno ruoli o identità specifici, che possono spaziare dall’aiuto in lavanderia al suonare l’organo nella cappella, e alcuni hanno animali domestici di cui prendersi cura. Le uscite prevedono visite ai musei, corse di cavalli, spettacoli teatrali, passeggiate ai giardini. I residenti con famiglia possono pranzare fuori nei fine settimana, oppure stare con i parenti durante le vacanze; le case sono inoltre visitate regolarmente dai bambini delle scuole vicine, i quali interagiscono in modo spontaneo e senza imbarazzo alcuno, e riescono a stabilire legami di affetto con persone che hanno settanta o ottant’anni più di loro. La religione è fondamentale ma non obbligatoria; non vi sono prediche, tentativi di evangelizzazione o pressioni religiose di alcun tipo. Non tutti i ricoverati sono credenti, anche se tra le Sorelle vi è una grandissima devozione religiosa, e del resto è difficile immaginare quel genere di premurosa assistenza senza una completa consacrazione.51

Nel lasciare la propria casa per andare a vivere in una comunità può (e forse deve) esserci un difficile periodo di adattamento; tuttavia, quasi tutte le persone ricoverate nelle case delle Piccole Sorelle sono in grado di crearsi una vita autonoma e piacevole, una vita che abbia un senso, a volte più di quanto capitasse loro da anni; al tempo stesso hanno la certezza che tutti i loro problemi sanitari saranno monitorati e curati con sensibilità e che, quando arriverà il momento, potranno morire in pace e con dignità.

Tutto questo esemplifica un’antica tradizione di assistenza – custodita dalle Piccole Sorelle fin dagli anni Quaranta dell’Ottocento e in effetti risalente alle tradizioni ecclesiastiche del Medioevo (descritte in modo molto toccante da Victoria Sweet in God’s Hotel) – insieme a quanto di meglio la medicina moderna abbia da offrire.

Le «residenze» mi avvilivano e ben presto smisi di andarci; le Piccole Sorelle invece mi ispirano, e mi piace visitare le loro case: ormai ne frequento alcune da più di quarant’anni.

 

 

 

Al principio del 1976, ricevetti una lettera da Jonathan Cole, uno studente di medicina del Middlesex di Londra. Diceva di aver apprezzato Emicrania e Risvegli e aggiungeva di aver fatto ricerca per un anno, a Oxford, nel campo della neurofisiologia sensoriale, prima di passare al lavoro in ambito clinico. Si chiedeva se non fosse possibile trascorrere con me il periodo del suo tirocinio, circa due mesi. «Mi piacerebbe» scriveva «osservare i metodi adottati dal suo dipartimento e seguirei volentieri qualsiasi eventuale corso».

Essere interpellato da un giovane che studiava presso lo stesso ospedale dove ero stato studente anch’io quasi vent’anni prima mi emozionò e mi lusingò. Dovetti però disilluderlo in merito a varie sue idee riguardanti la mia posizione e la possibilità, da parte mia, di fornirgli il tipo di insegnamento che si riceve in una scuola di medicina; così gli risposi:

Caro Mr. Cole,

la ringrazio per la sua lettera del 27 febbraio, e mi dispiace di aver impiegato tanto a risponderle.

Il mio ritardo è dovuto al fatto che non so che cosa risponderle. La mia situazione, grosso modo, è la seguente.

Io non ho un Dipartimento.

Io non sono in un Dipartimento.

Piuttosto, sono un nomade, e sopravvivo – in modo alquanto marginale e precario – lavorando qua e là.

Quando ero impiegato a tempo pieno al Beth Abraham capitava spesso che qualche studente passasse con me un po’ di tempo per il tirocinio, ed era un’esperienza sempre molto piacevole e gratificante.

Adesso però io mi ritrovo, per così dire, senza una posizione o una sede o una casa: piuttosto, sono peripatetico – sto qua e là. Difficilmente potrei offrirle un insegnamento formale, quale che sia, o qualunque cosa le possa poi essere formalmente riconosciuta.

A livello informale (a volte penso che) vedo, imparo e faccio moltissimo con i pazienti estremamente vari che visito in diversi ambulatori e case di riposo, e ogni situazione in cui vedo-apprendo-agisco è, eo ipso, una situazione pedagogica. A mio avviso, ogni paziente che visito, ovunque, è intensamente vivo, interessante e gratificante. Non mi è mai capitato un paziente che non mi abbia insegnato qualcosa di nuovo, o che non abbia suscitato in me nuovi sentimenti e nuovi treni di pensieri; e credo che coloro che vivono con me tali situazioni condividano questo senso di avventura, e vi contribuiscano (io considero tutta la neurologia, tutto, come una sorta di avventura!).

Mi scriva e mi faccia sapere come si risolve la sua situazione – le ripeto, mi farebbe un grandissimo piacere vederla in modo informale, non strutturato, peripatetico; ma non sono in alcun modo «organizzato» per un insegnamento formale di qualsiasi genere.

Con i migliori auguri e ringraziamenti,
Oliver Sacks

 

I preparativi e i finanziamenti richiesero quasi un anno, ma al principio del 1977 Jonathan arrivò da me per il suo tirocinio.

Credo che fossimo entrambi un po’ tesi: dopo tutto, benché privo di posizione, io ero l’autore di Risvegli; quanto a Jonathan, aveva fatto ricerca a Oxford nel campo della neurofisiologia sensoriale ed era ovviamente molto più sofisticato e aggiornato di me sul pensiero fisiologico. Sarebbe stata un’esperienza nuova e senza precedenti per tutti e due.

Scoprimmo subito di condividere un forte interesse. Eravamo entrambi affascinati dal «sesto senso», la propriocezione: inconscio, invisibile, ma verosimilmente più vitale di tutti gli altri cinque, siano essi considerati uno per uno o nel loro insieme. Un individuo poteva essere cieco e sordo, come Helen Keller, eppure condurre una vita relativamente ricca; la propriocezione, d’altro canto, era essenziale per riuscire a percepire il proprio corpo, come pure la posizione e il movimento delle proprie membra nello spazio; essenziale – in effetti – per avvertirne l’esistenza. Come potrebbe sopravvivere un essere umano se la sua propriocezione venisse meno?

Un interrogativo del genere affiorerà difficilmente nel normale corso della vita; la propriocezione è sempre lì, mai invadente, guida silenziosa di ogni nostro movimento. Non so se avrei mai pensato ad essa più di tanto se non avessi patito quel bizzarro problema che (proprio nel periodo in cui Jonathan venne a New York) stavo faticosamente cercando di descrivere nel mio libro sulla gamba, un problema derivante in larga misura, così pensavo, dal venir meno della propriocezione: una compromissione così profonda che non potevo dire, senza guardare, dove si trovasse la mia gamba sinistra, né che fosse – o che la sentissi – «mia».

Per coincidenza, poi, più o meno quando Jonathan venne a New York, la mia collega e amica Isabelle Rapin indirizzò da me una paziente, una giovane donna che in seguito a una malattia virale aveva improvvisamente perso tutta la propriocezione e il senso del tatto dal collo in giù.52 Nel 1977 Jonathan non avrebbe potuto immaginare che, in futuro, la sua vita si sarebbe profondamente intrecciata con quella di un altro paziente afflitto dallo stesso problema.

Jonathan venne con me dalle Piccole Sorelle e in altre case di riposo di New York, vedendo così un gran numero di pazienti diversi. Uno, in particolare, rimase impresso nella mente di entrambi: un uomo con la sindrome di Korsakoff, costretto dall’amnesia a una continua confabulazione. Nel giro di tre minuti, il «signor Thompson», come lo chiamai in seguito, mi identificava (mentre indossavo il camice bianco) come un cliente del suo negozio di gastronomia, come un vecchio amico con il quale andava alle corse, come un macellaio kosher e come l’addetto a una pompa di benzina; solo a quel punto, con qualche piccolo aiuto, ipotizzava che potessi essere il suo medico.53 Mentre lui passava da una pseudoidentificazione o confabulazione comica all’altra, io scoppiai a ridere e il serio Jonathan (come mi confessò in seguito) rimase scioccato – scioccato per il fatto che io sembrassi prendermi gioco di un paziente. Ma quando il signor Thompson, da irlandese effervescente qual era, cominciò anch’egli a ridere e a farsi beffe delle bizzarrie della sua immaginazione korsakoffiana, Jonathan si rilassò e cominciò a ridere pure lui.

Quando andavo a visitare i pazienti, ero solito portare con me una videocamera, e Jonathan era molto interessato agli usi della videoregistrazione e della riproduzione immediata del registrato: a quei tempi, negli ospedali, era una tecnica alquanto nuova, usata raramente. Jonathan era affascinato nel constatare come i pazienti con parkinsonismo, per esempio, che erano inconsapevoli della propria tendenza ad accelerare o a inclinarsi da un lato, potessero – guardando le proprie posture o la propria andatura in un video – diventarne coscienti e apprendere le misure necessarie per correggersi.

Portai diverse volte Jonathan al Beth Abraham: era particolarmente entusiasta di incontrare i pazienti di cui aveva letto in Risvegli. Era anche molto incuriosito, mi raccontò, dal fatto che avessi potuto scrivere di questi pazienti e perfino filmarli, continuando a essere considerato da loro un medico degno di fiducia, e non qualcuno che li avesse sfruttati o traditi. Jonathan doveva aver ben presente tutto questo quando, otto anni dopo, incontrò Ian Waterman, l’uomo che avrebbe cambiato la sua vita.

Ian, come Christina – la «disincarnata» –, aveva patito una neuropatia sensoriale devastante. Era un robusto diciannovenne quando, tutt’a un tratto, un virus lo deprivò di tutta la propriocezione dalla testa in giù. In massima parte, le persone che si trovano in questa rara situazione non sono assolutamente in grado di controllare gli arti e possono solo trascinarsi, o rimanere confinate su una sedia a rotelle. Ian, d’altra parte, aveva scoperto molti modi sorprendenti per far fronte alla sua condizione e riusciva a condurre un’esistenza relativamente normale, nonostante i suoi deficit neurologici profondi.

Gran parte di ciò che per tutti noi è automatico e ha luogo senza bisogno di una supervisione della coscienza, Ian può intraprenderlo solo con una decisione e un monitoraggio coscienti. Quando si siede, per non cadere in avanti, deve mantenersi dritto consapevolmente; riesce a camminare solo fissando le articolazioni delle ginocchia e continuando a tenere gli occhi puntati sull’azione in corso. Mancando del «sesto senso» della propriocezione, deve sostituirlo con la vista. Tutta questa attenzione e questa concentrazione implicano che non riesce facilmente a fare due cose in una volta. Può stare in piedi, oppure parlare; ma se deve stare in piedi e insieme parlare, gli occorre un sostegno. Magari sembra perfettamente normale, ma se tutt’a un tratto manca la luce senza preavviso cade inerme a terra.

Con il passare del tempo, Jonathan e Ian hanno instaurato una relazione profonda: come medico e paziente, ricercatore e soggetto di ricerca, e – sempre di più – come colleghi e amici (ormai lavorano insieme da trent’anni). Nel corso di questa collaborazione pluridecennale, Jonathan ha scritto su Ian decine di articoli scientifici e un libro straordinario, Pride and a Daily Marathon (e attualmente sta lavorando al seguito).54

Nel corso degli anni, sono poche le cose che ho trovato più toccanti del vedere Jonathan, il mio studente, diventare egli stesso un medico, un fisiologo e uno scrittore prestigioso: oggi è autore di quattro libri importanti e di oltre un centinaio di articoli di fisiologia.

 

 

 

Dopo che mi fui trasferito a New York nel 1965, cominciai a esplorare in moto le strade di campagna, alla ricerca di un luogo adatto in cui rifugiarmi ogni tanto nel fine settimana. Una domenica, mentre attraversavo le Catskills, trovai un vecchio albergo, il Lake Jefferson Hotel: una costruzione pittoresca, tutta in legno, sulla riva di un lago. I proprietari erano una coppia di cordiali tedeschi-americani, Lou e Bertha Grupp, e in breve arrivammo a conoscerci reciprocamente. Io ero soprattutto incantato dalla premura che mostravano per la mia moto, che mi permettevano di tenere nell’atrio; per i locali, essa divenne presto una vista familiare nel fine settimana. «Il dottore è di nuovo qui» dicevano vedendo la moto.

Mi piacevano soprattutto le sere del sabato nel vecchio bar, gremito di personaggi vivaci che bevevano e raccontavano lunghe storie, e pieno di vecchie fotografie che mostravano l’hotel ai tempi del suo splendore, negli anni Venti e Trenta. Svolgevo gran parte del mio lavoro di scrittura in una nicchia adiacente al bar, dove potevo starmene da solo, in disparte, invisibile – e tuttavia riscaldato e stimolato dall’intensa vita del bar.

Dopo una dozzina di fine settimana, raggiunsi un accordo con i Grupp: avrei affittato una camera nel seminterrato dell’albergo, sarei andato e venuto quando volevo, e avrei tenuto lì le mie cose: fondamentalmente, una macchina per scrivere e tutta la roba per il nuoto. Potevo avere la camera, godere della cucina e del bar e usufruire di tutti i servizi dell’albergo per soli duecento dollari al mese.

La vita al Lake Jeff era sana e austera. Al principio degli anni Settanta rinunciai alla moto: avevo cominciato a trovare il traffico di New York troppo pericoloso, e andare in moto non era più un piacere; sull’auto, però, tenevo sempre un portabici, e nelle lunghe giornate estive pedalavo per ore. Spesso mi fermavo alla vecchia distilleria di sidro vicino all’albergo e acquistavo un paio bottiglioni da quasi due litri l’uno che poi agganciavo al manubrio. A me piace il sidro, e i due bottiglioni, dai quali attingevo a poco a poco e simmetricamente – un sorso da questo, un sorso da quello –, mi mantenevano idratato e leggermente brillo durante tutta la lunga giornata in bicicletta.

Non lontano dall’albergo c’era una scuderia dove a volte andavo, la mattina del sabato, per passare un paio d’ore in sella a un gigantesco Percheron, con il dorso così largo che mi sembrava di cavalcare un elefante. A quel tempo ero pesante, intorno ai 110 chili, ma quell’animale enorme sembrava non far caso alla mia stazza; erano cavalli come quello, riflettei, che un tempo portavano cavalieri e sovrani con l’armatura completa; si diceva che Enrico VIII, armato di tutto punto, pesasse 225 chili.

La gioia più grande, però, era nuotare nel lago tranquillo, dove a volte capitava un pescatore che ammazzava il tempo disteso nella sua barca a remi, ma mai un’imbarcazione a motore o una moto d’acqua che minacciassero l’ignaro nuotatore. I tempi d’oro del Lake Jeff Hotel appartenevano ormai al passato, e la sua elaborata piattaforma galleggiante, insieme a zattere e gazebo, era completamente abbandonata e in silenzioso disfacimento. Nuotare senza pensare al tempo – senza timori o preoccupazioni – mi rilassava e faceva lavorare il mio cervello. Pensieri e immagini, a volte interi paragrafi, cominciavano a nuotarmi nella mente, e ogni tanto dovevo tornare a riva per riversarli su un blocco per appunti giallo che tenevo sopra un tavolo da picnic vicino all’acqua. A volte il senso d’urgenza era tale che non avevo neanche il tempo di asciugarmi, e mi precipitavo al blocco, tutto bagnato e gocciolante.

 

 

 

Io ed Eric Korn – così ci hanno raccontato – ci siamo conosciuti quando eravamo ancora sul passeggino, e siamo rimasti grandissimi amici per quasi ottant’anni. Spesso viaggiavamo insieme, e nel 1979 prendemmo un battello per l’Olanda e affittammo due biciclette per girare il paese e poi tornare ad Amsterdam, la nostra città preferita. Io mancavo dall’Olanda da diversi anni – mentre Eric, abitando in Inghilterra, ci era andato di frequente – e quindi rimasi sorpreso quando, in un caffè, ci offrirono della cannabis in modo del tutto esplicito. Eravamo seduti a un tavolo quando un giovane ci avvicinò e con un gesto esperto aprì d’un colpo una sorta di portafoglio contenente una buona decina di diverse qualità di marijuana e hashish; in Olanda, negli anni Settanta, l’uso e il possesso di quantità modeste di cannabis erano perfettamente legali.

Eric e io ne acquistammo una bustina ma poi dimenticammo di fumarla. A dire il vero, dimenticammo proprio di averla finché non arrivammo all’Aia per prendere la nave che ci avrebbe riportati in Inghilterra, e ci presentammo alla dogana. Ci fecero le solite domande.

Avevamo acquistato qualcosa in Olanda? si informarono. Liquori, forse?

«Sì, dello jenever» replicammo.

Sigarette? No, non fumavamo.

Marijuana? Oh, sì: ce n’eravamo completamente dimenticati. «Be’, gettatela via prima di arrivare in Inghilterra» disse il doganiere. «Lì non è legale». La portammo con noi, pensando che avremmo potuto goderci un po’ di fumo a bordo.

Facemmo una fumatina, e poi gettammo il resto del sacchetto in mare. Probabilmente fu qualcosa di più di una fumatina: nessuno di noi due aveva più fumato da anni, e quella marijuana era molto più forte di quanto ci fossimo aspettati.

Dopo qualche minuto mi allontanai e mi ritrovai vicino alla timoniera del capitano. Illuminata mentre calava il crepuscolo, sembrava un luogo incantato, appartenente a un racconto di fate. Il capitano governava l’imbarcazione con le mani sul timone, e un bambino di circa dieci anni stava in piedi al suo fianco, affascinato dalla sua uniforme, dai quadranti degli strumenti in ottone e vetro, e dal mare che si apriva davanti alla prua della nave. La porta non era chiusa a chiave e così entrai in cabina anch’io. Né il capitano né il bambino al suo fianco furono disturbati dal mio ingresso e io mi misi silenziosamente sull’altro lato del capitano. Questi ci mostrò come manovrava la nave e ci fece vedere tutti gli strumenti; il bambino e io lo tempestammo di domande. Eravamo talmente assorbiti che perdemmo la percezione del tempo e fummo colti di sorpresa quando il capitano disse che ci stavamo avvicinando a Harwich, sulla costa inglese. Noi due ce ne andammo, il bambino alla ricerca dei genitori, io di Eric.

Quando lo trovai, sembrava consumato dall’ansia, e quasi pianse di sollievo non appena mi vide. «Ma dov’eri?» chiese. «Ti ho cercato dappertutto, pensavo che fossi saltato in acqua. Grazie al cielo sei vivo!». Dissi a Eric che ero stato nella timoniera del capitano e che mi ero divertito molto. Poi, sorpreso dall’intensità delle sue parole e della sua espressione, dissi: «Ma tu ti sei preoccupato, tieni veramente a me!».

«Ma certo che ci tengo!» disse lui. «Come potevi dubitarne?».

Non era facile, per me, credere di stare a cuore a qualcuno; a volte penso che non riuscissi a capire quanto i miei genitori tenessero a me. È solo adesso, leggendo le lettere che mi scrivevano quando venni qui in America cinquant’anni fa, che comprendo quanto profondo fosse il loro attaccamento.

E quanto anche molti altri abbiano forse tenuto a me: l’immaginaria mancanza di interesse nei miei confronti non poteva essere invece la proiezione di qualcosa che mancava, o era inibito, in me? Una volta ascoltai un programma radiofonico dedicato ai ricordi e ai pensieri di coloro che – come era accaduto a me – erano stati evacuati durante la seconda guerra mondiale, separati dalla loro famiglia in tenera età. L’intervistatore osservava come queste persone si fossero adattate bene agli anni penosi e traumatici della loro infanzia. «Sì» ammise un uomo. «Però io ho ancora dei problemi a stabilire legami, a provare un senso di appartenenza, e a fidarmi degli altri». Credo che in una certa misura questo valga anche per me.

Nel settembre del 1978 inviai a Lennie un’altra parte del manoscritto di Su una gamba sola, e lei mi rispose dicendo che secondo lei, adesso, quello poteva essere «un libro felice, un libro danzante»: il fatto che finalmente sembrassi passare ad altri interessi la sollevava. Verso la fine della lettera, menzionò una questione più cupa:

 

«Sto aspettando di entrare in ospedale, perché il mio simpaticissimo e ottimo chirurgo crede sia giunto il momento di un’operazione importante all’esofago e alla mia stupida ernia iatale. Papà e David non sembrano molto entusiasti, ma io ho piena fiducia in lui».

 

Questa fu l’ultima lettera che Len mi scrisse. Entrò in ospedale, e le cose andarono male. Quella che doveva essere un’operazione semplice si trasformò in una disastrosa eviscerazione, o quasi. Quando Lennie lo seppe, pensò che non valesse la pena di vivere alimentata per via endovenosa e con un cancro che andava diffondendosi nel suo corpo. Decise quindi di smettere di nutrirsi, benché assumesse acqua. Mio padre insistette affinché fosse visitata da uno psichiatra, ma quello disse: «È la persona più sana di mente che io abbia mai visto. Dovete rispettare la sua decisione».

Non appena venni a sapere tutto questo, presi un volo per l’Inghilterra e passai molti giorni sereni ma infinitamente malinconici al capezzale di Lennie, mentre le forze l’abbandonavano. Nonostante la debolezza fisica, rimase sempre e pienamente se stessa. Quando dovetti tornare negli States, passai una mattina a raccogliere tutte le foglie di alberi diversi che riuscii a trovare ad Hampstead Heath e gliele portai. Le piacquero, le identificò tutte, e disse che la riportavano indietro, ai tempi trascorsi a Delamere Forest.

Alla fine del 1978, le inviai un’ultima lettera; non so se l’abbia letta:

 

Carissima Len,

abbiamo tutti sperato tanto che questo fosse il mese della tua ripresa; purtroppo, così non doveva essere.

Ho il cuore a pezzi quando sento della tua debolezza e della tua sofferenza – e, adesso, del tuo desiderio di morte. Tu, che hai sempre amato la vita e sei stata una straordinaria fonte di forza e di vita per tantissime persone, puoi affrontare la morte, perfino sceglierla, con serenità e coraggio, naturalmente insieme al dolore che accompagna sempre la fine. Noi, io, riusciamo molto meno a sopportare il pensiero di perderti. Tu mi sei stata più cara di chiunque altro al mondo.

Continuo a sperare che tu possa superare questa sofferenza e tornare nuovamente alla gioia di una vita piena. Ma se così non dovesse essere, devo ringraziarti: grazie, ancora una volta, un’ultima volta, per aver vissuto – per essere stata quella che sei.

Con affetto,
Oliver

 

 

 

Nei comuni contesti sociali io sono timido; non sono capace di «far conversazione» con disinvoltura; ho difficoltà a riconoscere le persone (un problema che ho da sempre ma è peggiorato adesso che la mia vista è compromessa); ho poche conoscenze sugli avvenimenti correnti, siano essi politici, sociali o sessuali, per i quali nutro scarso interesse. Adesso, oltre al resto, sono anche duro d’orecchi: un’espressione garbata per indicare una sordità sempre più profonda. Considerato tutto questo, tendo a ritirarmi in un angolo, a rendermi invisibile, a sperare di essere ignorato. Negli anni Sessanta, quando andavo nei locali gay per incontrare altre persone, questo era paralizzante; stavo a tormentarmi incastrato in un angolo, e dopo un’ora me ne andavo, da solo e triste, ma in qualche modo sollevato. Tuttavia, se a una festa o da qualche altra parte trovo una persona che condivide qualcuno dei miei interessi (solitamente scientifici) – i vulcani, le meduse, le onde gravitazionali, o qualcos’altro –, allora sono immediatamente attirato in una conversazione animata (anche se, con ogni probabilità, un istante dopo non riuscirò a riconoscere la persona con cui ho parlato).

Non parlo quasi mai con la gente per strada. Qualche anno fa, però, ci fu un’eclissi lunare e io uscii per osservarla con il mio piccolo telescopio 20×. Tutti gli altri, sul marciapiede affollato, sembravano incuranti dello straordinario evento celeste sopra di loro; io allora cominciai a fermare le persone dicendo: «Guardate! guardate che cosa sta accadendo alla luna!», e mettevo loro in mano il mio telescopio. I passanti erano sorpresi da quell’approccio, ma, incuriositi dal mio entusiasmo chiaramente innocente, si portavano agli occhi il telescopio, lanciavano un «ohhh» di meraviglia, e poi me lo restituivano. «Grazie per avermelo fatto vedere», «Grazie davvero di avermelo mostrato!».

Mentre oltrepassavo il parcheggio di fronte all’edificio dove abito, vidi una donna che litigava ferocemente con l’addetto. Andai verso di loro e dissi: «Smettetela di litigare per un momento – guardate la luna!». Sorpresi, si fermarono e levarono lo sguardo all’eclissi, passandosi il telescopio a vicenda. Poi me lo restituirono, mi ringraziarono, e istantaneamente ripresero la loro furiosa litigata.

Un episodio simile capitò qualche anno dopo, mentre lavoravo a Zio Tungsteno e stavo scrivendo un capitolo sulla spettroscopia. Avevo preso l’abitudine di vagabondare per le strade con un minuscolo spettroscopio tascabile e di guardare attraverso di esso le diverse luci, ammirando le loro righe spettrali: la riga delle luci al sodio, d’un giallo oro brillante, le righe rosse del neon, le complesse righe delle lampade ad alogenuri di mercurio e dei loro fosfori di terre rare. Passando davanti a un bar del mio quartiere, fui colpito dalla gamma di luci colorate al suo interno, e premetti lo spettroscopio contro la vetrina per esaminarle. Capii però che i clienti all’interno erano turbati da quel mio strano comportamento, dal mio fissarli (così pensavano loro) con un piccolo strumento singolare, e così entrai sfacciatamente – era un bar gay – e dissi: «Tutti quanti, smettetela di parlare di sesso! Date un’occhiata a qualcosa di veramente interessante». Ci fu un silenzio esterrefatto, ma anche in quel caso il mio entusiasmo infantile e ingenuo ebbe la meglio e tutti cominciarono a passarsi lo spettroscopio, di mano in mano, uscendosene con esclamazioni come «Ohhh, fico!». Dopo che ognuno ebbe avuto il suo turno di osservazione, mi ridiedero lo spettroscopio ringraziando. Poi tutti ripresero a parlare di sesso.

 

 

 

Continuai a combattere per diversi altri anni con il libro sulla gamba, e alla fine, nel gennaio del 1983, quasi nove anni dopo averlo iniziato, inviai il manoscritto completo a Colin. Ogni sezione del libro era dattiloscritta ordinatamente su una carta di colore diverso, ma nell’insieme il manoscritto adesso superava le trecentomila parole. Colin era esasperato per le dimensioni del testo, e il suo lavoro di editing richiese praticamente tutto il 1983. La versione finale risultò ridotta a meno di un quinto dell’originale: cinquantottomila parole soltanto.

Nondimeno, fu con un senso di immenso sollievo che lasciai tutto il libro nelle mani di Colin. Non ero mai riuscito a liberarmi di un pensiero superstizioso, e cioè che il mio incidente del 1974 non aspettasse che di ripetersi; e che l’avrebbe fatto, se non l’avessi esorcizzato divulgando tutta la storia in un libro. Adesso l’avevo scritto, e non correvo più il rischio di ricapitolare l’intera vicenda. L’inconscio, però, è più subdolo di quanto pensiamo, e dieci giorni dopo – era una giornata gelida – riuscii a cadere nel Bronx in modo particolarmente goffo, dando luogo al tanto temuto ripetersi dell’incidente.

Mi ero fermato in una stazione di servizio, a City Island. Avevo allungato la carta di credito all’addetto, e pensavo di aprire la portiera e scendere per sgranchirmi un po’. Nel momento stesso in cui uscii dall’auto, scivolai su una chiazza di ghiaccio nero, e quando l’addetto tornò con la ricevuta, mi trovò a terra, per metà sotto l’auto.

Mi chiese: «Che sta facendo?».

«Prendo il sole» feci io.

«No, sul serio» replicò l’uomo. «Cosa è successo?».

«Mi sono rotto un braccio e una gamba» lo informai; al che lui disse: «Sta ancora scherzando...».

«No. Questa volta non sto scherzando, sarà meglio che chiami un’ambulanza».

Quando arrivai in ospedale, lo specializzando in chirurgia mi chiese: «Che cosa c’è sul dorso della sua mano?». (Ci avevo scritto le lettere CBS).

«Ah sì,» risposi «è una paziente con le allucinazioni; ha la sindrome di Charles Bonnet, e stavo andando a visitarla».55

Il medico disse: «Dottor Sacks, adesso il paziente è lei».

 

Quando Colin venne a sapere che ero in ospedale – ero ancora ricoverato quando arrivarono le bozze di Su una gamba sola –, esclamò: «Oliver! Faresti qualsiasi cosa pur di aggiungere una nota!».

Tra il 1977 e il 1982 completai dunque il libro sulla gamba, in parte mentre nuotavo a Lake Jeff. Jim Silberman, mio editore in America, e anche mio editor, rimase sconcertato quando gli inviai la parte del libro scritta a Lake Jeff. Erano trent’anni, mi disse, che non riceveva un manoscritto vergato a mano, e oltre tutto sembrava che questo fosse caduto nella vasca da bagno. Disse che occorreva non solo dattiloscriverlo, ma anche decifrarlo, e lo inviò a Kate Edgar, che era stata una sua collaboratrice e adesso lavorava come freelance a San Francisco. Il mio manoscritto – illeggibile e tutto schizzato d’acqua, con le sue frasi frammentate e incomplete, le frecce e le cancellature esitanti, tornò indietro splendidamente dattiloscritto e annotato con sapienti commenti editoriali. Scrissi alla signora Edgar dicendole che pensavo avesse fatto un lavoro straordinario su un manoscritto molto difficile e che se fosse tornata sulla East Coast sarebbe dovuta passare a trovarmi.

Kate tornò l’anno successivo, nel 1983, e da allora ha lavorato con me come editor e collaboratrice. Con tutte le molteplici versioni dei miei testi avrei potuto far impazzire Mary-Kay e Colin, ma negli ultimi trent’anni sono stato così fortunato da avere Kate impegnata – come a suo tempo lo erano stati loro – a ordinare, distillare e incastrare le mie innumerevoli stesure in un insieme coeso. (In tutti i miei libri successivi, Kate è stata inoltre una ricercatrice e una compagna; ha incontrato i miei pazienti, ha ascoltato le mie storie e ha condiviso le mie avventure – dall’apprendimento della lingua dei segni, alle visite nei laboratori chimici).

 

 

 

49. In inglese il verbo to quicken può significare, oltre che «velocizzare, accelerare», anche «rianimare, destare, resuscitare» [N.d.T.].

50. Nel periodo compreso tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, lavorai anche per qualche tempo in un ambulatorio per malati di Alzheimer all’Einstein, e preparai cinque lunghe storie di casi clinici basate su alcuni di quei pazienti. Inviai il manoscritto a Bob Katzman, mio ex superiore all’Einstein (che se n’era andato avendo ottenuto una cattedra al dipartimento di neurologia dell’UCSD). In un modo o nell’altro, nel mezzo del trasferimento, il manoscritto andò perduto: un altro libro, come «Myoclonus», che non avrebbe mai visto la luce.

51. Non di rado insorgono dilemmi di natura insolita, e qui le Piccole Sorelle mostrano ampiezza di vedute etiche e chiarezza di pensiero. Una delle loro residenti, Flora D., una parkinsoniana molto aiutata dalla L-dopa, era turbata per la comparsa di certi sogni estremamente intensi. Durante la terapia con L-dopa non sono rari sogni o incubi erotici; Flora però faceva sogni incestuosi in cui aveva rapporti con suo padre. A causa di ciò si sentiva in colpa e terribilmente ansiosa, finché non ne parlò a una delle monache, la quale le disse: «Tu non sei responsabile dei sogni che fai mentre dormi. Sarebbe diverso se fossero sogni a occhi aperti». Questa era una chiara distinzione morale, coerente con una chiara distinzione fisiologica.

52. Alcuni anni dopo, con il titolo «La disincarnata», raccontai la sua storia in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello.

53. Ho descritto il caso del signor Thompson in «Una questione di identità», in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello.

54. Al principio degli anni Novanta, presentai Jonathan alla mia amica Marsha Ivins, un’astronauta che ha partecipato a cinque missioni su navette spaziali (mi raccontò di aver letto «La disincarnata» mentre era in orbita).
Ci chiedevamo come sarebbe stato, per Ian, trovarsi nello spazio. In termini di gravità, disse Marsha, la cosa che più si avvicinava a quell’esperienza era un volo sull’aeroplano usato per l’addestramento degli astronauti, confidenzialmente noto come Vomit Comet, il quale, prendendo rapidamente quota e poi tuffandosi in picchiata, porta i passeggeri in breve tempo da quasi 2 g a 0 g. I più provano una generale sensazione di assenza di peso a 0 g e una corrispondente pesantezza a 2 g; Ian invece non avvertì nessuna delle due.

55. Avevo intenzione di scrivere la sua storia e inserirla in L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, ma alla fine passarono più di vent’anni prima che mi rimettessi a scrivere sulla sindrome di Charles Bonnet in Allucinazioni.