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Di chimica, Vincenzo Gugliotti non ne sa nulla. Non se n’è mai interessato perché lui, in fondo, non ha avuto bisogno di «conoscere» per arrivare dove è arrivato. Ai suoi tempi c’erano altri metodi per scalare le gerarchie nel sottobosco della polizia di Stato. Lo studio della chimica, a cui lo avrebbe volentieri avviato suo padre che possedeva una fabbrichetta di fuochi d’artificio, è riuscito a evitarlo, e si è preso una seconda laurea in psicologia. Non gli è mai servita nemmeno quella, per dirla tutta.
Perciò il questore in carica non sa, per esempio, che CaSo4 è il sale di calcio dell’acido solforico. Non sa che si trova fra i sedimenti geologici creati dall’evaporazione delle acque salate, nei giacimenti saliferi, nelle faglie alpine o ancora nei profondi nuclei delle rocce vulcaniche. Non sa che si presenta in forma di cristalli minerali, polvere, o composti. Né che è capace di cambiare nome, di trasformarsi. Duro, resistente oppure molle e poroso a seconda del livello di idratazione. Il solfato di calcio diidrato, CaSO4 2H2O, diventa gesso. Riscaldandolo muta in solfato di calcio emiidrato, (CaSO4)2 H2O, meglio noto con il nome «scagliola» o «gesso di Parigi». L’utilizzo? Stucchi, affreschi o ingessature, impronte dentali. Si usa per produrre il cemento e si addiziona al mosto per abbassare l’acidità del vino.
Tutte queste cose, e molte altre, Vincenzo Gugliotti non le sa, inchiodato a una sedia, pressoché nudo, nel cuore della Città dell’Acqua, a pochi passi dalla fontana di Trevi eppure nascosto agli occhi del mondo. Non sa, infine, che quella roba dentro al secchio, ora la vede, diventerà la sua tomba di neve. Però una cosa la sa. Sa che lo aspetta qualcosa di mostruoso e disumano e quel qualcosa ha a che fare con la sostanza bianca nel secchio.
Il corpo vestito di nero fa un passo avanti. Indossa un passamontagna, uno di quelli dei corpi speciali. Centocinquanta metri li dividono dalla folla ai bordi della piazza della fontana di Trevi, pensa Vincenzo. Gente che potrebbe salvarlo, ne sente quasi gli umori, immagina i bambini che lanciano monete. Ma che ore sono? C’è qualcuno lassù?
Non ho paura, mente a se stesso, ma la fretta con cui se lo ripete è già una conferma che, sì, lui ce l’ha sulla pelle quella paura. Se la sente in gola come un mattone che precipita giù nello stomaco quando la mano dell’uomo nero si abbassa e afferra il secchio. Fa un passo, si ferma e Vincenzo getta gli occhi dentro per vedere cos’è che lo aspetta. Respira l’odore acre, non è un acido. È qualcosa di più vecchio, arriva da lontano. Dai giorni felici. Possibile? Papà torna a trovarlo, gonfio e stravolto come il fantasma dei natali passati. Gliela raccontava tutte le notti quella storia, e ora eccolo lì con lui. Lo vede, un’immagine fugace circondata dalla luce dell’allucinazione. Il braccio, il suo braccio destro, si è rotto quando è caduto dall’impalcatura. È la notte di mezz’estate, la festa del paese in Basilicata, e lui aiuta papà con i fuochi, il tesoro di famiglia. Sono saliti a cinque metri per far partire le batterie, sessanta colpi di seguito, blu, verde, giallo e rosso, quelle che preferisce. Poi, mentre il piccolo Vincenzo accende la miccia, le dita che bruciano e quel passo indietro. Barcolla. Il volo e il dolore dal gomito in su. E l’odore è lì, lo aspetta nel fotogramma successivo. Il braccio coperto di gesso che piano gli si secca attorno. Il pennarello nero per i disegni, le parole dei compagni.
«Perché?» chiede con una disperazione che sa di speranza.
Vincenzo pensa in fretta, pensa, perché forse ce la può fare. Pensa perché forse il suo aguzzino è uno di quelli che lui ha mandato al gabbio. Ma è passato tanto tempo da quando faceva il poliziotto per davvero. No. Deve essere qualcos’altro, qualcosa che ha a che fare con la sua posizione scomoda. L’assessore al Bilancio, quello che ha fatto fuori dalla corsa alla Questura? Oppure quella donna? Come si chiama? Sonia. Quella che ogni tanto si sbatte senza voglia nell’appartamentino al Portico di Ottavia?
«È per gli appalti di Ostia?»
La figura in nero non risponde. Si inginocchia e raccoglie qualcosa da terra. Lui lo vede. Tra le due dita d’acqua c’è un rotolo, un rotolo di garza. Poi un altro. Sono bende. Eccolo il suono di prima. Ne prende altri di quei rotolini e li mette là, dentro al secchio.
Quando le svolge piano nel secchio, il questore freme, parla, deve parlare, si fa così in questi casi. «L’insabbiamento delle testimonianze nel caso di pedofilia del cardinale?»
Ma non funziona neppure quello.
«È per Mancini?» urla.
La figura in nero solleva la testa dal secchio e lo guarda per un attimo, poi estrae un vecchio rasoio slabbrato dalla tasca e mima un colpo alla gola in un modo tanto goffo che regala un istante di speranza a Vincenzo. Non è un professionista. Posa il rasoio ed estrae una striscia impregnata di gesso liquido. Si avvicina e la arrotola al polso destro bloccato al bracciolo della sedia. Li avvolge insieme.
«Cos’è?» Lo sa che cos’è, ormai lo ha capito e sa che l’altro non risponderà. «Perché?» torna allora a ripetere e intanto la benda bagnata aderisce.
Ne mette un’altra e un’altra ancora con cura, una delicatezza inspiegata. In un minuto tutto il braccio è coperto, come quella volta lì, con suo padre. Poi tocca all’altro e lui, l’uomo sulla sedia, lo osserva senza parlare come si fa con un artigiano che ti rapisce lo sguardo con le sue mani abili. Le gambe le copre veloce nel silenzio scandito dall’incessante gocciolio. Si solleva e gli riveste le cosce, le anche, il bacino, e arriva all’ombelico. Gugliotti è paralizzato dalla stanchezza, non lotta più.
L’altro si tira su e inizia ad avvolgere la benda bagnata attorno al collo, sale e si ferma al mento. Vincenzo lo sente freddo per un attimo mentre il resto del corpo è un’unica fiamma. La reazione esotermica sviluppa calore, il gesso solidifica, perché il carnefice ha usato pochissima acqua e il caldo all’interno si moltiplica centinaia di volte. Una patina di sudore bollente lo avvolge all’interno di quello scafandro di gesso. Un’ustione lacerante lo accende ovunque e allora accade davvero. E quando accade lui sa che è giunto il momento. Perché quello che gli passa davanti agli occhi è il nastro veloce della sua vita. Segmenti di colori, emozioni enormi e scordate, visi dolcissimi e facce bianche, case, tante case, stanze, la sua cameretta nella casa di via del Giunchetto. E quando succede così, dicono tutti, allora si è pronti.
Il boia si prende cura del corpo, poco per volta. Invisibili granelli di gesso gli colano sulle labbra, perché ora è la fronte l’obiettivo di quella serpe che gli ha lasciato gli occhi e la bocca liberi. Le palpebre frullano in fretta, spazzando le gocce, ma la testa è bloccata con il collo. Le mani su di lui corrono due, tre, quattro volte e la faccia è quasi tutta coperta. Ha sovrapposto strati di bende.
Ha lasciato tre spazi, per la bocca, il naso e per gli occhi che schizzano ovunque mentre Vincenzo prova a parlare. Ci prova perché il calore dentro quell’armatura maledetta lo asfissia e l’aria non c’è quasi più. Scuote con forza, l’ultima forza, tutto se stesso, in cerca di spiragli di vita.
Il passamontagna si avvicina. Accosta la testa alla sua e sibila: «Shhh».
«No!», urla la mummia nel sarcofago sempre più duro.
Gli copre il naso con una benda imbevuta, poi altre due sopra.
«Sei tu? Sei tu?» ripete incredulo Vincenzo. Non può essere. Impigliata alla coda dell’occhio come un greve granello di polvere, c’è l’immagine di un viso bambino.
La figura muta si abbassa per pescare le ultime murene di garza e gesso dalla sua vasca.
«Io... io...» arranca Gugliotti e percepisce una nota di autocommiserazione. Per un uomo senza una vita, senza figli, senza ricordi di un amore. Uno che aveva già conquistato il nulla prima che succedesse quanto sta accadendo.
Un triste languore lo abbatte, le ossa si fanno pesanti dentro la sua bara di gesso. «Non mi lasciare qui, ti prego.»
Cinque strisce coprono la bocca. È troppo tardi. L’assassino silenzioso posa un dito sulle labbra del suo pupazzo di neve. Sono secche e tirate. Dentro, Vincenzo vuole parlare, strillare, pregare di salvarlo. Ma è tutto finito. E sullo sfondo della retina si moltiplicano i flash che precedono la morte. Gli si piega davanti e si abbassa al livello della testa. Lo guarda attraverso i due piccoli buchi e gli posa le ultime garze sugli occhi.
Un mugolio selvaggio, una bestiola annegata a forza, nasce e muore in quell’enorme bozzolo. Si accuccia e aspetta, fissando lo strato d’acqua ai suoi piedi. I respiri all’interno si fanno lenti e gutturali. Alla fine da quella specie di calco pompeiano si alza un lamento, un sibilo animale. Dentro la sua bara di latte, Vincenzo ingoia l’ultima voce. La luce esplode nel cuore, negli occhi e poi sfuma sbriciolandosi in grani sempre più piccoli. Vincenzo scivola finalmente nel gelo di una fine languida e senza assoluzione. Poi solo silenzio.
La figura si solleva, si avvicina al sarcofago e gli segna la fronte con due movimenti del rasoio. Un serpente, e un affondo.
Un punto interrogativo.