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Roma, Questura Centrale

«È una donna», sentenziò Riccardo Casoli in vivavoce, «un’anziana.»

Dopo il ritrovamento del cadavere del pianista, Vincenzo Gugliotti – questore di Roma vicino alla fine del proprio mandato – aveva allertato Casoli, il comandante della Omicidi, chiedendogli di riferire subito a lui qualsiasi novità. Gugliotti aveva deciso di ristabilire un filo diretto con la Omicidi e la cosa non poteva fare piacere a Enrico Mancini.

«Dove si trova?»

«È in una specie di piccolo scavo vicino a via Venti Settembre, dietro Porta Pia.»

«Capisco», tagliò corto Gugliotti.

«Mi spiace, dottore, ma qui c’è lavoro per Mancini. Non ho fatto toccare niente ai ragazzi.»

Gugliotti spinse il tasto rosso e la conversazione s’interruppe. Il commissario e la sua squadra avevano un ascendente enorme su parecchi colleghi. Il profilo di Mancini era entrato nel mito e anche i suoi ragazzi sembravano ammantati di un’aura da intoccabili. E questa cosa disturbava molto il questore. Si sollevò dalla poltrona dell’ufficio in via di San Vitale e raggiunse la finestra. Scostò una tenda e guardò fuori. A quell’ora del pomeriggio, il caldo costringeva la gente in casa. In giro non c’era nessuno, e anche la Questura s’era svuotata per la pausa pranzo. Per un attimo, immaginò di essere da solo all’interno del grande palazzo. Ma non si sentiva un comandante al timone della nave. Non lo era mai stato. Era piuttosto un uomo solo nell’ufficio di una delle più importanti cariche istituzionali della capitale.

La solitudine di quell’esistenza impersonale lo investì tutt’assieme per la prima volta nei suoi quarant’anni di carriera e Gugliotti comprese che stava invecchiando. Giù in strada, il caldo si sollevava dall’asfalto a folate e si disperdeva in onde che facevano tremolare l’aria. Gli anni di studio e le consulenze, poi la Questura di Milano, la Squadra Mobile, la Digos nel profondo Sud che lo aveva segnato nell’animo e nel fisico, con due proiettili in pancia durante una rapina a mano armata a Bari. Dal 2004 era questore di Roma, incarico che sapeva sarebbe stato l’ultimo della sua carriera. Padre non lo era mai stato, marito neppure. Quegli anni erano lontani, quelli delle emozioni violente e delle grandi paure, ma doveva ammettere che gli mancavano. Gli anni in cui il Paese si affannava contro il terrorismo e la grande crisi energetica. Gli anni in cui aveva immaginato di potersi dedicare a una famiglia oltre che al lavoro. Senza successo.

Per quanto sarebbe rimasto in quell’ufficio? Una manciata di mesi, poi avrebbe raggiunto la schiera di pensionati di lusso che i contribuenti mantenevano e di cui lui stesso pensava il peggio possibile. Ma c’era ancora una cosa che doveva fare prima di diventare un nome su una medaglia commemorativa o su una targa nella sala d’onore della Questura. Un’ultima cosa.

Perché in realtà si era profilata una nuova speranza. Una donna molto più giovane di lui, certo, ma la cosa non sarebbe stata un problema, perché se l’età li divideva, c’era molto altro ad accomunarli. Il lavoro, innanzitutto. Gli era persino parso di cogliere dei segnali di incoraggiamento, di apertura, da parte di lei. Ma la nuova speranza non era altro che il riaffiorare delle vecchie illusioni, presto infrante contro il muro che lei aveva eretto quando lui aveva provato a farsi avanti. Di fronte a quel rifiuto si erano spente le sue ultime energie, ed era rimasto inchiodato alla sua grigia solitudine. E aveva lasciato fermentare dentro di sé la rassegnazione, che era germogliata per poi sbocciare in rancore quando lei aveva accolto nella sua vita un altro uomo.

Proprio quell’uomo.