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Il rumore penetra il sonno come uno spillo nel collo, calmo e spietato. Un prurito diffuso, un solletico forse, alle estremità dei quattro arti, poi più niente. Quiete, un’inerzia sospesa nel tempo, docile come l’incoscienza di sé. I sensi lenti si destano, il formicolio li accende prima che il pensiero si faccia vivo, lucido, pronto. È un tempo di mezzo quello che assapora. Sente che si sta risvegliando, poi, di nuovo, affonda nel letargico oceano del non essere. Un dito sussulta d’un impulso elettrico. Il sangue invade la testa, il cuore si sveglia.
Un guaito d’agonia. È nudo, su una sedia, al centro di uno spazio illusorio. Ha freddo, la pelle è bagnata da una luce fievole che scende dall’alto. Le gambe legate da cinghie di cuoio. Le vede, strette a quelle della sedia, ginocchia e caviglie. Sembra una seggiola da ufficio, di plastica, con il sedile e lo schienale di feltro. I legacci serpeggiano attorno ai braccioli dove inchiodano gomiti e polsi. Mentre osserva, la stanza vacilla, le mura in ombra ballano liquide. Ma le onde sono dentro la sua testa, perché tutto torna a posto in un attimo. Una serie di immagini intermezzate da sequenze visive ustionanti per gli occhi e le tempie. Il vicolo, la porta, il colpo al petto.
Da qualche parte una goccia rintocca come una sentenza e Vincenzo Gugliotti capisce tutto in un istante. Capisce che è nella Città dell’Acqua che si trova. A venti metri sotto terra, in quello che di norma è un museo visitato da migliaia di persone e che adesso sta per diventare una tomba. Capisce che l’odore viene dalle piccole muffe sul soffitto a volta. Gli occhi captano un lieve luccichio, deve venire dall’alto, dalla parte superiore del museo. Ma quaggiù è solo il riflesso delle umide mura di tufo.
Ma soprattutto il vecchio questore percepisce una sensazione di pericolo profonda, più profonda della sua situazione, della posizione, della sedia su cui è legato, dei buchi sulla spalla e del destino che lo aspetta. No, è profonda quanto la storia di Roma, quanto una storia che lui ha dimenticato, che ha sotterrato dentro se stesso, che ha ignorato, che ha finto non esistesse per tanti, troppi anni. Sperava di andarsene in pensione e invece è lì sotto che finirà i suoi giorni: lo sbirro nascosto sotto la sua scorza di burocrate glielo dice come il battito del cuore gli dice che è vivo.
Ma ancora per quanto?
Non ha spazio per muovere gli arti, e nemmeno la forza. È come se si fosse svegliato da un’operazione, da un sonno chimico. Il braccio destro gli fa male. Però una cosa può farla, pensa. Può gridare, se serve a qualcosa. Ma non vuole, sa per esperienza che nei casi di sequestro non è mai una buona idea.
Improvvisa, avverte una presenza a pochi passi, forse dietro una parete. Un movimento? Solo gocce che piovono dall’alto e si perdono nell’acqua ai suoi piedi, alta due, forse tre dita. La luce languisce, ma lui sa che qualcuno lo guarda, in attesa che si svegli sul serio. E adesso Vincenzo Gugliotti è sveglio davvero. E muove la testa: è il suo segnale – vediamo chi sei.
Nessuna reazione. Un’altra goccia sonora.
Ma lui lo sa, sì, qualcuno c’è.
Qualcuno c’è. E vuole che lui abbia paura. Ma non succederà, non può succedere, deve conservare la sicurezza, anche se soltanto apparente, come il suo ruolo gli ha sempre imposto. La paura non ha freni e lui lotta per nasconderla all’essere invisibile che lo sta certamente osservando.
«Esci!» intima.
L’eco risuona beffarda rimbalzando tra i caseggiati della Città dell’Acqua e spegnendosi da qualche parte nel buio.
Resta in ascolto, forse si è sbagliato, forse non c’è nessuno. Ma poi lo sente, un respiro lento, una tensione astratta come di una persona che resta immobile. Gli anni di addestramento glielo hanno insegnato, ma adesso non serve. Sentirsi osservato dalle mura lo snerva. Allora sale veloce una vampa d’adrenalina e lui si concentra per tenerla a bada. Deve prendere tempo.
«Chi c’è?»
Sente freddo. Guarda in alto e la testa torna sulla giostra, lo schifo in bocca. Chiude gli occhi. È stanco, troppo stanco, ma il cervello non si ferma e allora lui pensa. Pensa a chi può esserci, là dietro. Perché è da dietro quel muretto alto non più di un metro e settanta che si sente osservato, ora.
«È uno scherzo?» dice con un tono che non convince neppure lui.
No che non lo è.
«Cosa vuoi?» insiste, ma la voce leggera, incapace, si perde veloce.
Un conato gli strizza lo stomaco quando qualcosa si muove dietro quel maledetto muro. Un passo. Forse due.
Allora c’è davvero qualcuno.