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Roma, Termini
Comello, la maglietta nera sopra i jeans e un manganello dietro la schiena, si trovava con l’ispettore Bettini nella zona della Stazione Termini. Non era un incarico ufficiale, ma quando dalla Questura avevano chiesto ausiliari, Walter era stato tra i primi ad accettare.
Si trattava della solita manifestazione di estremisti di destra contro una proposta di legge al Senato per il diritto di cittadinanza agli immigrati, e la Questura aveva avvertito che ci sarebbe stato un tentativo da parte dei centri sociali di venire a contatto con i neofascisti.
Claudio Bettini, trentenne ispettore di cui si raccontava un passato turbolento, batteva il suo sfollagente sul palmo della mano, nervoso. In quegli scontri toccava stare attenti perché un colpo poteva arrivare da ogni parte e ti ritrovavi a terra, steso, con la testa rotta. Loro erano in borghese e faceva troppo caldo per indossare giubbotti sotto i quali celare le protezioni, pertanto non indossavano nemmeno i caschi. Il cranio punteggiato del nero dei capelli rasati di Bettini risplendeva sudato come il resto del corpo stretto dentro ai jeans e alla camicia.
All’altezza di Santa Maria Maggiore iniziarono a sentire gli slogan neonazisti. Salirono di corsa verso via Marsala e incontrarono le prime camionette della polizia con gli idranti. C’erano tanti colleghi in borghese e Walter riconobbe una buona parte dei vecchi amici dell’Antidroga e dell’Anticrimine. Qualcuno gli fece un saluto, i più erano impegnati a vestirsi. Qualcun altro invece lo ignorò o gli riservò un’occhiata schifata. Quelli erano i neonazisti che si sarebbero dedicati ai centri sociali. E che lo conoscevano bene.
La zona a cui erano stati destinati era sulla parte sinistra di piazza dei Cinquecento, proprio di fronte alla Stazione Termini. Si sistemarono dentro al colonnato all’incrocio con via Massimo D’Azeglio, pronti a intervenire se ce ne fosse stato bisogno, come da ordine. Subito fuori, sul marciapiede che divideva la strada in due e vicino all’edicola chiusa, c’era un gruppo di uomini in nero. Erano in attesa. Da via Nazionale saliva il corteo anti-immigrati, mentre di fronte, da via Solferino, arrivavano i centri sociali riuniti. In mezzo, un cordone di decine di uomini e quattro veicoli con gli idranti.
Gli uomini in nero iniziarono a rumoreggiare, poi a urlare da lontano frasi xenofobe, seri in volto, pronti a spaccare qualche testa. Era abbastanza chiaro che gli agenti di polizia, quelli con gli scudi e i manganelli e la dozzina in borghese che, come Comello e Bettini, erano lì per isolare figure pericolose e condurle al furgone di sicurezza, si stessero concentrando sui ragazzi dei centri sociali.
Dal colonnato, Comello puntò il più grosso dei neonazisti, un quarantenne sul metro e novanta, con il collo come una macina. Orecchini gialloro, una svastica sulla gola e gli occhi azzurri e cattivi. Era spesso come un muro portante e se ne stava con le braccia conserte sopra il petto gigantesco, fissando con odio la folla di bandiere rosse che avanzava. Tra la cinta e la camicia nera spuntava il manico di quello che a occhio e croce era un pugnale da caccia con una lama di almeno venti centimetri. Vigliacco bastardo. Walter sapeva che in quelle occasioni se ti prendono in mezzo ti distruggono. I neri vanno isolati e spaventati. E lui conosceva solo un modo per fargli davvero paura.
Arrivò da dietro, gli mise il gomito attorno alla gola e strinse tirando indietro e in basso. Il corpo vigoroso si abbassò e scomparve dietro le file di archi.
«Chi cazzo sei, merda rossa?» gli disse il neonazista appena Comello lo lasciò andare. Dietro l’arco c’era una stradina chiusa dai ponteggi di una ditta di ristrutturazione. Il gigante pelato si sollevò dentro ai jeans grigi tesi sui quadricipiti. «Allora?» berciò come un bulldog.
Walter non attese. Un lungo passo avanti e un calcio diretto ai genitali, che però colpì la coscia del mostro. Quando si abbassò per il riflesso ritardato di proteggersi l’inguine, Comello riempì la distanza e ruppe la mezza guardia con cinque pugni a catena sulla faccia e sulla testa. Gli schiocchi delle nocche sul cranio. Sei gomitate dietro il collo per sfiancare la bestia e sbatterla a terra. Quando ricadde, l’ispettore gli precipitò sul petto con le ginocchia in uno schianto di ossa e muscoli che gli fece quasi schizzare gli occhi fuori dalle orbite. L’ultima scarica di pugni ruppe mucose del naso, labbra e sopracciglia. Dieci secondi ed era tutto finito. Senza aria, paonazzo e smarrito negli occhi, il capobranco era spaventato, sconvolto.
Si pulì il sangue dalla bocca con una manica: «Ora vedi che cazzo ti fanno gli altri», disse con una voce tremolante e prese un fischietto dalla tasca. E fu l’ultima cosa che avrebbe detto per un pezzo.
«Bravo, chiamali.»
Il calcio in testa pose rapida fine al tenue fischio. Poi gli strappò il pugnale dalla cintura e lo lanciò in alto, sull’impalcatura. Si voltò, si mise spalle al muro dietro l’arcata. Il rumore degli scontri arrivava netto e ritmato, grida, megafoni, l’acqua sparata, il cozzare degli scudi, l’odore dei fumogeni. Due tipi entrarono nel vicolo e videro quella massa nera piena di sangue. Il più piccolo tirò fuori uno sfollagente, l’altro infilò un tirapugni guardandosi intorno. Walter chiuse la distanza e gli spaccò il ginocchio con il tallone. Il secondo non ebbe il tempo di urlare: prese una testata in bocca e si schiantò tre metri più in là.
Comello respirava dal naso, in affanno.
«Sei proprio nei guai.»
La voce giungeva da dietro. E la conosceva bene.
«Bettini?»
L’altro annuì e fece un passo che era una dichiarazione di guerra. E veniva da lontano. Sapeva che Bettini non si sarebbe fatto scappare quell’occasione. In fondo in fondo, non aveva mai sopportato Comello. E quello poteva essere il momento giusto per una resa dei conti rimandata troppe volte. Nessuno se ne sarebbe accorto, nessuno avrebbe parlato. Nemmeno Bettini, Walter lo sapeva. Tra le sue poche virtù c’era quella di non essere un vigliacco. Sarebbe rimasta tra loro quella cosa. Ma la vita sconfessa sempre l’immaginazione, e in peggio, pensò Walter quando il lungo manganello di gomma lo colpì al fianco piegandogli il fiato in gola.
«Ti piace?» disse Bettini infilando un pugno di ferro raccolto dalla mano del camerata per terra.
Comello non riusciva a parlare e l’altro ne approfittò. Dal basso verso l’alto, sfruttando il corpo inclinato di Walter, scagliò un montante secco. Lo schianto fu forte e la mandibola scattò in su, i denti contro i denti. Comello cadde all’indietro sbattendo contro il muro. Bettini si guardò intorno: via libera. E affondò ancora, il sorriso sulle labbra.
«Ecco che fine fanno gli sbirri rossi come te.»
Walter gemette e si spostò. Il pugno lanciato al fegato s’infranse contro il muro e Bettini sussultò, il ferro gli scivolò e cadde tintinnando. La manica si sollevò e Walter vide il tatuaggio sulla spalla: un altro scudo nero con il fascio littorio. Bettini agitò la mano pesta aprendo e chiudendo le dita a scatto, il polso dolorante. Il suono degli scontri scomparve per un attimo e Bettini sollevò la testa per capire.
Le mani di Walter gli coprivano le orecchie, e quando la sua fronte tuonò contro il naso del collega, lo scoppio parve zittire del tutto il corteo nero.
Bettini si afflosciò come un sacco di stoffa bagnato, e Comello gli fu sopra. Era stremato, ma doveva finirla lì. Per Comello, chiudere la sua personale battaglia contro quella gente era necessario. Non c’era solidarietà di categoria che tenesse testa a quella di strada. E lui era un poliziotto. Lui per strada difendeva la preda, anche quando a predare era uno sbirro come lui.
«Ti prego, Walter...» Bettini sollevò le mani cieco di dolore, il naso che fiottava sangue. Il tatuaggio bagnato e deforme era solo uno schizzo di inchiostro sulla pelle di un altro ometto.
Comello lo fissò dall’alto. Lo aveva conciato bene, il giorno dopo non si sarebbe potuto presentare in Questura. Il collega era immobile, ma le braccia tremavano distese, gli occhi strizzati.
«Lezione numero uno. Non pregare mai un altro uomo.»
Poi Walter affondò il gomito e anche per l’ispettore Bettini si spense la luce.