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Roma, Montesacro

«Ha sentito, professore?»

Mancini si chiuse la porta alle spalle dopo aver fatto entrare Giulia. Di fronte a loro, seduto sull’ultimo modello di carrozzina elettronica e ormai rassegnato a quella vita da centauro, c’era Carlo Biga. L’uomo, vinto dalla paresi al braccio sinistro e alle gambe che gli aveva lasciato in dono lo Scultore, si spostava tra i due piani di casa sua tramite un montascale che aveva fatto installare e che dall’ampio scalone dell’ingresso portava fino alla biblioteca e alle camere al piano di sopra.

«Sentito cosa? Il caldo che fa su questa maledetta sedia?»

«La tratti bene, la sua astronave.» Mancini controllò il tavolino della sala, era vuoto. «Non mi dica che non si fa più portare i giornali? Non avrà smesso di leggere ogni più piccolo trafiletto di cronaca, vero?»

«È colpa di quella lì, dice che mi agito.»

Sentendosi chiamata in causa, la donna fece capolino dalla cucina. «Quando il professore legge quella roba poi...» Alzò il gomito e si portò il pollice alla bocca.

«Nemmeno una bottiglia mi compra!»

Mancini guardò il vecchio Biga e gli strizzò l’occhio. Da sotto la giacca prese la bottiglia di Bushmills e gliela infilò nella tasca laterale della sedia, ricambiato dal sorriso mesto del professore.

«Enrico, non starla a sentire, quella. Raccontami tu», disse scorbutico manovrando il joystick per spostarsi verso il salottino. «Come lo hanno chiamato stavolta quei pennivendoli?»

«Ancora nessun nome. La stampa è impegnata a seguire altro. E al momento non ci sono state le solite fughe di notizie dall’interno.»

«Davvero strano», Biga si batté la mano buona sulla coscia sensibile. «Eppure ci vanno a nozze con questa roba.»

«So che se ne sta occupando Pietro Borrello», intervenne Giulia. «Non ci andrà giù liscio.»

«Be’, oltre a tutto il casino al Comune, l’AMA, le buche e i trasporti pubblici, direi che va tutto bene. Per domani la Questura ha allertato duecento agenti per gli scontri previsti alla stazione Termini», aggiunse Mancini.

«Che roba è?» chiese Biga senza troppa convinzione nella voce.

«Fascisti e neonazisti che sfilano contro la discussione al Senato della legge sul diritto d’asilo», disse Giulia con una smorfia di fastidio.

«Bella gente», commentò il professore. «A proposito, hanno detto alla radio che a Ostia hanno dato fuoco a una baracca con dentro una clochard.»

«Se è per questo», proseguì la pm, «due sere fa, vicino al Colosseo un gruppo di ragazzi tra i sedici e i diciannove anni ha massacrato un egiziano, un lavapiatti di un ristorante nei paraggi.»

«Dio mio.»

«Lo hanno preso da dentro la cucina, sono entrati dalla porta sul retro e lo hanno trascinato fuori in un vicolo», fece Mancini. «È un momento di passaggio. Una lunga mezzanotte sociale. E quando cala il sole gli animali sordidi e vigliacchi emergono dal nulla in cui vivono le loro esistenze.»

«E i centri sociali?»

«Ci saranno anche loro alla manifestazione. La Digos ha già individuato una trentina di bravi ragazzi da tenere sott’occhio, da una parte e dall’altra. Sarà un bel casino.»

«E tu?»

«Io non sono più un bravo ragazzo. Ne resto fuori.»

Con la coda dell’occhio, Enrico colse l’espressione di sollievo di Giulia alle sue parole.

«Ricordati da dove vieni», disse il professore.

«Mai scordato. E poi c’è Walter che sarà di pattuglia», sorrise.

«Lo immaginavo.»

«Sarà pieno di gente pericolosa, il giro di Ostia e dell’Esquilino, quelli li conosciamo bene. Delinquenti collusi con le mafie del litorale e con la destra estrema.»

«Mala tempora currunt», sospirò il professore.

Enrico lo guardò. Biga ora fissava il pendolo che oscillava, come sempre. Nell’alta cassa di legno, il vetro istoriato mostrava l’andirivieni dell’asta. La forbice, destra-sinistra, produceva un effetto ipnotico, come quello del fuoco nel camino, pensò Mancini. Là dentro, tra gli ingranaggi del cuore dell’orologio, erano scoccati milioni di rintocchi e, in quell’istante, Enrico li sentì echeggiare tutti insieme. Un unico suono eterno vibrò dentro di lui come una sentenza. Giulia intanto si muoveva per la stanza, guardandosi attorno.

«Ancora in cerca dell’ultima ora, professore?» provò a scherzare Enrico.

Biga riportò lo sguardo dall’orologio al suo allievo. «Guardavo quella bestia là.» Proprio sopra la cassa dell’orologio, in cima alla struttura di legno, c’era una mosca.

«È una mosca, cos’ha che non va?»

«Lo vedrai.»

Il pendolo batté e Biga indugiò sul piccolo essere. Nonostante il rimbombo delle casse, l’insetto era rimasto al suo posto, immobile. Mancini si alzò per avvicinarsi. «È morta.»

«No, non lo è.»

Enrico agitò una mano e la mosca schizzò sull’invisibile binario elicoidale.

«Visto?»

«Cosa?»

«Mi sta aspettando.»

«Professore, non si fissi.»

Era l’ennesimo gradino che Biga scendeva nella scala della depressione. Alla vecchiaia, al ritiro dalla scena universitaria e criminologica e all’isolamento che ne era seguito si era aggiunto l’incidente che lo costringeva lì sopra. Da allora aveva iniziato a interpretare ogni accadimento, pubblico o privato che fosse, come un segno del destino.

«È lei che mi fissa.» Biga manteneva un tono autoironico che mal celava una buona porzione di sospetto e scaramanzia. Gli si inumidirono gli occhi e allungò la mano per asciugarseli.

«Ricordo una lettera di Nietzsche, diceva che l’orologio continua a girare sia che ci si posi una mosca sia che gli canti accanto un usignolo», disse Mancini.

«E io mi sono beccato la mosca. È solo una questione di tempo», sorrise Biga mentre l’insetto tornava al suo posto. Perché quello era il suo posto. Il professore abbassò il mento sul colletto azzurro della camicia. Poi scosse la testa.

«Suvvia, professore.»

Ancora il tempo. Il professore ne parlava sempre, ne era ossessionato. Di colpo, la carrozzina si mosse allontanandosi dal pendolo ed Enrico la fissò per un istante come se fosse qualcosa di estraneo da quel luogo magico che era la casa del professor Biga. Tra le pareti di legno, l’antica carta da parati, il pendolo, il camino, il mappamondo con i liquori, la biblioteca, il bovindo, quell’incastro di alluminio e motori elettrici era come l’uomo sulla luna. Goffo e fuori posto.

«Non viene più nessuno a trovarmi. Walter, Antonio, nessuno. Antonio, come sta Antonio?» disse muovendosi verso il bovindo.

«È sempre chiuso dentro quel laboratorio, professore.»

«Ma ci siamo noi», esclamò Giulia seduta alla panca del bovindo. Sul tavolino c’era un quadernone che stava per aprire incuriosita dallo spessore delle pagine.

«Lascialo stare, per favore, Giulia. Sono cose di gioventù, mi imbarazzerei se...» disse sorridendole mentre si avvicinava.

«Ma certo, mi scusi», gli rispose alzandosi e raggiungendo Enrico che si stava rimettendo la giacca.

«Come è finita con quella ragazza, Alexandra?» domandò Biga a Mancini. «Mi sa che Antonio ci è rimasto male», concluse piegando le labbra.

«Non bene, in effetti. Antonio è un uomo strano e difficile e credo che avesse trovato una donna altrettanto strana e difficile. Ma glielo dirò di passare da lei, professore.»

«No, lascia stare, non voglio pesare sul tempo di nessuno», disse, indicando col dito la sommità del grande orologio.

Mosse il joystick e qualcosa gli cadde dalla carrozzina. Era un taccuino che si aprì rivelando pagine piene della densa calligrafia del professore.

«Scrive un altro saggio?»

L’imbarazzo di Biga fu evidente a entrambi e il vecchio si limitò a dire: «Me lo raccogli, per favore?»

«Certo, professore, cos’è?»

«Niente, solo appunti sparsi.»

«Ancora non si è convinto a scrivere al computer, eh?»

«No», rispose l’anziano placato dopo che ebbe recuperato il proprio tesoro.

La Quinta di Beethoven sopì il disagio di Mancini, che prese subito il cellulare. «È Antonio, adesso lo metto in vivavoce.»

«Enrico?»

«Ciao, Antonio, sono qui con la dottoressa Foderà e il professore, che ti ascolta.»

«Dottoressa. Salve, prof. Come sta?»

Prima che Biga, già sorridente, potesse ricambiare il saluto iniziando una delle sue tirate, Rocchi parlò ancora: «Enrico, vieni subito. C’è una cosa che devi vedere».

Mancini tolse il vivavoce, guardò Biga e Giulia e fece spallucce. «La terrò aggiornata sul caso, professore. E torneremo presto da lei: promesso.»

L’anziano abbassò lo sguardo e girò la testa verso la cucina dove la sua padrona – ormai la chiamava così – stava preparando una di quelle cene che a lui non piacevano affatto, tutte verdure o minestrine.

«Sì, tornate presto», concluse rassegnato, le borse sotto gli occhi come quelle di un grosso cane abbandonato.