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Roma, Talenti

«Grazie per essere venuto, Enrico.»

«Arrivo da casa del professore.»

«Come sta?» chiese il medico legale.

«Come un poveraccio, la donna che lo segue non gli dà tregua.»

«Beve ancora?»

«Vorrebbe... Mi dicevi che non abbiamo ancora risposte da Milano sul livido tra le scapole di Paolo Tancredi.»

Rocchi annuì mentre un potente assolo di chitarra elettrica, Victim of Fate degli Helloween, scoppiava come una bomba dentro una chiesa.

«È arrivata una mail», spiegò Rocchi scomparendo oltre la tenda verde che separava la sala autoptica dall’ufficio del laboratorio.

Il commissario lo seguì. Sul computer lampeggiava l’avviso di una mail da Caterina. «Sono le foto. Gliele ho chieste perché c’è una cosa strana di cui volevo parlarti. Ce ne deve essere una...» disse Antonio aprendo l’allegato e iniziando a scorrere l’anteprima verso il basso. Erano una dozzina di scatti, da varie prospettive, del corpo in catene del vecchio pianista.

«Eccola!»

«Quale?» chiese il commissario.

«Questa, l’ultima.» Antonio ingrandì la foto. Lo schermo dell’iMac si riempì di un’immagine scura, lo sfondo della nicchia attorno alla sagoma circolare della testa. Era stata scattata dal basso e ritraeva il volto e una parte del collo e delle spalle dell’uomo.

«Allarga l’immagine», ordinò Mancini.

«Lo vedi anche tu?»

«Quel livido?»

«Sì, quello, ma non è un livido. Guarda qui.»

Al centro della fronte di Paolo Tancredi si intravedeva un segno chiaro. Era largo mezzo centimetro e stondato. Rocchi spostò gli occhi sulla faccia di Mancini e insieme si alzarono per tornare al tavolo autoptico.

Voltato il corpo senza vita di Paolo Tancredi, il medico legale abbassò la lampada semovibile e l’accese. All’esplosione di luce il cadavere brillò magro e perfetto come quello di un alieno. Gli occhi erano chiusi e la bocca serrata dal rigido morso della mandibola. Rocchi non perse tempo e indicò l’area della fronte dove le foto di Caterina avevano immortalato il segno. Non c’era.

«Com’è possibile?» chiese il commissario spostando gli occhi dal cadavere ad Antonio, in cerca di una risposta plausibile da uno dei due.

«Aspetta.» Antonio allontanò la lampada e prese una lente a luce diretta. La accostò alla fronte dell’uomo di ghiaccio e accese. Il cristallo ingrandì la superficie porosa della pelle. Tra i solchi imprecisi delle rughe c’era un sottile velo bianco.

«Sembra polvere.»

Rocchi restò in silenzio per qualche secondo, pensieroso, poi spense la lente e andò ai pensili dove teneva la strumentazione tecnica e chimica. «Ho questa cosetta, ancora non l’ho usata ma possiamo provare. Non ci dirà che polvere è ma forse...»

«Cos’è?» disse Mancini.

Antonio prese una piccola lampada e una boccetta con del liquido. «Questi sono MOF. Metal Organic Frameworks. Nanocristalli metallo-organici. Hanno una funzione simile a quella delle polveri che usiamo per il rilevamento delle impronte. Ma sono molto più potenti, e se siamo fortunati...»

Con un pennellino, Rocchi cosparse di fluido la fronte del pianista, poi andò a spegnere la luce nella stanza e si riavvicinò al corpo.

«Non succede niente», disse il commissario irritato.

«Aspetta.»

Passò mezzo minuto, dopodiché Antonio accese la piccola lampada a raggi ultravioletti.

«Questi nanocristalli si legano a proteine, acidi e sali, e generano un sottile strato che produce una copia identica. Formano un contrasto molto illuminante e marcano le impronte in modo incredibile.»

L’intera superficie della fronte adesso era di un verde fluorescente e all’interno c’erano varie impronte digitali. Proprio al centro, però, comparivano dei segni.

«Deve averli tracciati il killer con la punta di un dito», ipotizzò Mancini. «Vediamo se le impronte corrispondono a quelle che ha lasciato sulla scena del crimine. Erano dappertutto.»

«Perché non ha usato i guanti?»

«Perché è un disorganizzato», rispose Mancini. «La scena del crimine era un casino. Calce sparsa a terra con tanto di impronte di suole delle scarpe ben disegnate. Impronte digitali ovunque, ma sono pronto a scommettere che la banca dati dell’AFIS non le ha.»

Tornarono a fissare la fronte fluorescente, poi Rocchi corrugò le sopracciglia e si rivolse al commissario: «Ci vedi quello che ci vedo io, Enrico?»

«Tu cosa ci vedi?»

«Per me non c’è dubbio», rispose Antonio sfregandosi il mento. «Questa qui è proprio una E