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Roma, via dei Bresciani
Caterina giunse al Tribunale dei minori, nel centro di Roma, tra il lungotevere Sangallo e corso Vittorio. Aveva in petto l’emozione che provava prima di un esame importante. L’appuntamento con la persona che l’aveva aiutata era nell’ufficio del Tribunale, ma un paio di minuti prima aveva ricevuto un sms che le diceva di andare invece al Museo criminologico che si trovava a poche decine di metri e che aveva visitato tante volte da studentessa e da fotografa tirocinante. Perciò esibì il tesserino ed entrò.
Oltre la tenda rossa c’era una saletta in cui compariva una carrellata di strumenti di tortura. La vergine di Norimberga e la sedia chiodata l’avevano sempre impressionata. Ma l’ascia per la decapitazione rappresentava l’orrore puro insieme alle ghigliottine esposte nella stanza successiva e ora, per la prima volta, Caterina si chiedeva come fosse in grado di calcare la scena del crimine senza disgusto mentre lì dentro le si rivoltava lo stomaco semplicemente a immaginare i supplizi dei corpi. La risposta era, come sempre, appesa al suo collo. La Nikon era il suo angelo meccanico che la proteggeva aiutandola a filtrare, attraverso i suoi scatti sul luogo di un delitto, la morte e la carne. Era così che riusciva a trasformare quei cadaveri in scatti, in immagini pure e senza il carico emotivo e orrifico che la violenza si porta dietro.
Per gioco sollevò la macchina fotografica e se la portò davanti al viso. Non c’era divieto di scattare e allora Caterina prese a guardare attraverso l’obiettivo. Il mantello rosso con il cappuccio appartenuto a Mastro Titta, il boia di Roma in auge a metà dell’Ottocento nello Stato Pontificio; e poi lame, gogne, fruste e scudisci concludevano la prima parte del tour. La sala successiva, dedicata all’antropologia criminale, si apriva con documenti sulle antiche tecniche della polizia scientifica, sui manicomi giudiziari e sul brigantaggio, alcune prime edizioni di opere di Lombroso, Genio e follia, L’uomo delinquente e La donna delinquente. La terza stanza era dedicata al Novecento con una raccolta di armi impiegate in casi di omicidio o celebri fatti di cronaca. In fondo, oltre una tenda nera, c’era una teca che raccoglieva un paio di occhiali, un plantare, delle chiavi, un anello con una pietra rossa, una serie di magliette e altre cose appartenute a Pier Paolo Pasolini e donati, come recitava un cartello, dal Tribunale dei minori di Roma al Museo criminologico nel 1985. Caterina abbassò la Nikon sul petto. L’aria di tragedia, umana e di Stato, che permeava quel piccolo spazio espositivo le metteva sempre una grande malinconia addosso, con le fototessere ritrovate, insieme a tutto il resto, sulla scena del crimine all’Idroscalo di Ostia. Un senso di vuoto e incertezza aumentava man mano che spostava lo sguardo sugli indumenti, sul libretto degli assegni sporco di fango come quello dell’ordine dei giornalisti.
Qualcosa le sfiorò una spalla e Caterina trasalì. Un breve grido le sbocciò dalle labbra.
«Sono solo io», disse Donatella Pace accorgendosi di averla spaventata.
«Oddio, scusa. Ero sovrappensiero», rispose Caterina voltandosi e lasciando alle spalle quello spazio che considerava personale.
Donatella Pace era una donna semplice, sin dal modo di vestire con scarpe basse, pantaloni di lino come la giacca, tutto sul chiaro, che nascondeva un petto importante. Aveva un viso limpido e aperto che le donava un’aria di tranquillità e trasmetteva un’immediata simpatia. Gli occhi azzurri sopra un naso rotondo assieme a un sorriso morbido ne facevano un essere umano delizioso. O almeno così la giudicava Caterina che la conosceva da un paio d’anni, da quando, insomma, aveva scoperto di non poter avere figli e aveva iniziato a interessarsi di adozioni. Poi era arrivato Walter e non aveva voluto dirgli nulla, né della sterilità né, poi, del suo desiderio di maternità.
«Ho preferito vederti qui perché i colleghi non gradiscono», disse Donatella Pace, storcendo la bocca.
Caterina capì subito cosa intendesse. Donatella si era sfogata con lei in più occasioni, raccontandole per filo e per segno dello schifo che le passava accanto ogni giorno negli uffici del tribunale. C’erano figure istituzionali e, aveva detto così, «paraistituzionali», che fungevano da intermediari tra le famiglie e i bambini disponibili per le adozioni. Si comportavano come fossero agenzie immobiliari, ma erano soltanto parassiti che si insinuavano tra lo Stato e i genitori per portare a casa un sacco di soldi. L’adozione di un minore comportava tempi lunghissimi, estenuanti, aggravati dall’incertezza del risultato. Per questo, molti si rassegnavano a oliare un po’ i meccanismi e spargere denaro, tanto denaro, attorno ai pezzi di carta istituzionali.
In quel caso era stato diverso, perché lei aveva chiesto pulizia e chiarezza. Ma Donatella aveva trovato una paradossale resistenza. Ormai le regole erano altre, le avevano fatto capire, e poco contava che la sua amica fosse una poliziotta. A quel punto Donatella non aveva potuto far altro che coinvolgere suo marito, un giudice temuto in tutto il tribunale per la spietatezza con cui denunciava gli abusi di potere.
Così Caterina aveva ottenuto nei tempi giusti una risposta positiva e ora Donatella le portava i documenti firmati dal tribunale che avrebbero avviato l’iter per l’affidamento di Niko. Si fermarono davanti a una grande ghigliottina e Caterina le prese le mani.
«Non so come ringraziarti.»
«Di nulla, davvero. Faccio solo le cose giuste, e questa lo era», sorrise e le si illuminarono gli occhi.
«Non voglio sembrarti scortese ma... Mi hai portato quello che ti ho chiesto?»
Un piccolo brivido di entusiasmo la percorse finendo dritto nel petto. Era la prima volta, da quando lavorava con la squadra, che Caterina azzardava qualcosa che non fosse prestabilito e coordinato. Le metteva addosso un leggero stato d’ansia che però giudicava vivo, positivo. A dire il vero anche gli altri si stavano muovendo secondo un canovaccio differente, condiviso da Mancini ma in un certo senso più libero. Non sapeva bene se quella libertà, che era anche distanza dal capo, le facesse del tutto piacere. Avvertiva però che non era frutto di un caso, ma che il commissario aveva deciso di lasciare a tutti un po’ di quell’iniziativa necessaria a far crescere ciascuno di loro. Così Walter aveva portato avanti la ricerca della figlia del senzatetto che si era rivelato un giudice tutelare. Francesco Noce aveva lavorato per qualche anno proprio tra quelle mura e Caterina, che all’insaputa di Comello stava portando avanti gli incartamenti per Niko, aveva pensato bene di mettere insieme utile e dilettevole e aveva incaricato Donatella di raccogliere informazioni, magari anche presso suo marito.
«Ho trovato questa, ma non so se può esserti utile, Cate.»
Dalla tasca della giacca di lino Donatella prese tre fogli. Erano fotocopie ripiegate. Le porse a Caterina. Riguardavano il clochard vittima dell’assassino degli scavi, il giudice tutelare Francesco Noce.
«Ho chiesto anche a mio marito che è l’unico con una memoria storica sufficiente lì dentro.»
«Che ti ha detto?» domandò Caterina aprendo la fotocopia.
«Il giudice Noce è stato espulso dall’ordine. Ci fu uno scandalo con una minore di cui aveva la tutela. Un caso terribile, una ragazza malata di cui lui era innamorato pazzo.»
Mentre la sua testa giocava con i tasselli di un mosaico inquietante, Caterina chinò il capo e lesse il primo foglio. Era una specie di curriculum istituzionale, Donatella doveva averlo trafugato, perché comparivano meriti e demeriti. In fondo al foglio c’era infatti scritto: RADIATO PER GRAVE VIOLAZIONE DEL CODICE ETICO.
Sul secondo e sul terzo comparivano invece tutti i casi di affidamento e adozione dei minori che aveva seguito Francesco Noce. Mancava ogni riferimento anagrafico per via della privacy. Ma c’erano i nomi e i cognomi delle coppie che avevano fatto richiesta. Erano in ordine alfabetico e scritti in piccolo, tanto che ce ne dovevano essere più di duecento. Caterina li scorse distratta mentre ringraziava ancora Donatella. «Davvero, non so proprio...»
A metà frase si fermò. In fondo all’ultimo foglio, alla lettera T, un nome lampeggiò e una sirena si accese nella testa di Caterina.