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Roma, Garbatella

La casa dello sbirro biondo e della sua amica non era niente male. Niko aveva acceso il televisore e cambiava i canali in cerca di qualcosa di interessante. Al campo la tv ce l’avevano nella sala comune ma la guardavano solo quando davano le partite. E poi era tutto un casino: centoventi persone stipate là dentro a urlare, bere e mangiare.

In quella casa, invece, c’era un gran silenzio e il frigo era pieno. Però Niko sentiva la mancanza di quei pranzi al campo con i suoi. La mamma gliene aveva parlato spesso della cucina rom. Era una storia che veniva da lontano, che aveva attraversato secoli e Paesi dall’India, al Medio Oriente, fino all’Europa. Il suo gruppo era arrivato in Italia dopo due generazioni in Ungheria e la ricetta rom del gulash della mamma si era arricchita di sapori romani, dalla gallina alla coda vaccina, a cui si univano vecchie costanti come il porcospino, che però al campo non si mangiava. La rielaborazione del cibo era alla base della loro storia, qualcosa di immutabile e peculiare come la musica che li accompagnava ovunque. Ma erano suoni e sapori ormai scomparsi per lui che era solo e non sapeva cucinare, e che mangiava i panini dei fast food.

Spense il televisore e si alzò dal divano. Walter non lo voleva a casa sua, anche se lo aveva salvato da quei due bastardi. Lo sbirro non aveva detto niente quando Caterina aveva offerto a Niko di restare lì qualche giorno in più, ma era chiaro che la cosa lo infastidiva. Gli aveva lasciato degli asciugamani ordinandogli di farsi una doccia. Ma Niko preferiva bagnarsi al fiume o lavarsi al vecchio mattatoio, dove c’erano dei bagni pubblici. Caterina gli aveva anche fatto mettere dei jeans corti e una maglietta tutti nuovi. Erano lì sulla sedia, ma lui non riusciva a cambiarsi. Ci aveva provato, si era avvicinato come una bestiola diffidente. Ma poi aveva deciso che no, non voleva spogliarsi in una casa che non era casa sua. Era un ambiente strano, spigoloso, e lui se ne stava alla finestra a fissare i pini in giardino e più li guardava più voleva uscire. Andarsene. Si sentiva stretto, non sapeva se in quella casa o nella situazione in cui Caterina lo aveva messo.

Un rumore secco giunse proprio dalla finestra. Niko si avvicinò al vetro. Aveva pensato a un uccellino. Non c’era nulla a parte un piccolissimo segno quasi al centro. Ma probabilmente c’era già prima. Posò un gomito sul davanzale e la guancia sulla mano e tornò a passeggiare tra i suoi pensieri. Quella storia dell’adozione, che sarebbero stati insieme sempre, be’, lui non lo sapeva se la voleva davvero una famiglia. Ma questo non aveva nemmeno il coraggio di dirlo a lei, che stava facendo «tutte le richieste», gli ripeteva, per averlo con sé. Walter invece sì che si sarebbe arrabbiato. Gli stava simpatico quel poliziotto, in fondo. Anche lui voleva essere libero. E Niko aveva deciso che poteva fare a meno dei vestiti, della casa, di quella strana coppia, del cibo facile e tutto il resto. Quello a cui non voleva rinunciare era invece Caterina. Avrebbe voluto continuare a vederla, a incontrarla. Ma come? Sarebbe arrivato il momento di allontanarsi prima o poi e, ci aveva ragionato su, era meglio che fosse prima.

Dal cestino di vimini accanto al forno prese un grosso panino all’olio dalla busta di carta, se lo ficcò in bocca e iniziò a masticare inspirando forte il buon odore del pane. Avrebbe voluto salutare Caterina e spiegarle perché se ne doveva andare. Il motivo gli balenò davanti agli occhi come l’immagine rossa della casetta che nelle ultime giornate si era arricchita di particolari. Una sorgente e degli alberi da frutto, così sarebbe stato davvero autonomo e le mele non le avrebbe più messe in pesanti cassette. E poi un bel cane, un cagnolino, ovvio, perché lui di quelli grossi aveva una fifa matta. Qualcuno per sentirsi meno solo quando rientrava dalle sue scorribande nel bosco vicino.

Prese la matita vicino al telefono rammaricandosi di non aver imparato a scrivere, e sul blocco aperto disegnò un cuore incerto con dentro un grosso sorriso.

Un altro colpo alla finestra. Possibile? Stavolta si sbrigò a raggiungerla e la aprì. Sul davanzale c’era un sassolino. Niko lo prese e guardò giù. Fu un attimo. Un’impressione, l’arco d’accesso al giardino della vecchia palazzina si riempì per un istante. Una sagoma scura. La testa rasata. Non era possibile, non poteva essere lì per lui. Si sporse e lo vide. E anche l’uomo fermo al portone vide lui, poi scomparve.

L’odore del pane nelle narici era svanito, al suo posto il sudore freddo e il ricordo della benzina sul corpo. Quel pensiero lo ferì e gli fece perdere lucidità. Niko corse alla porta, la aprì e uscì di casa per lasciarsi quel mondo alle spalle e tornare alla sua vita sul Tevere.

«Che cazzo ci fai qui, ladro?»

Di fronte a lui c’era un uomo. Aveva dei lividi sulla faccia ed era rasato, ma non era nessuno dei due che lo avevano aggredito nella casa sotto al fico, ne era sicuro. Sembrava piuttosto...

«Allora? Dov’è Comello?» ruggì l’altro.

Quando il ragazzino vide la pistola nella fondina e la sicura del manganello al fianco che si slacciava, una rabbia oscena lo afferrò.

L’ispettore Bettini sorrise. Era lì per prendersi la rivincita su Comello e invece ora, a quanto pareva, gli avrebbe pure fatto un favore.

Niko urlò e si scagliò addosso al poliziotto, che non fece in tempo a estrarre l’arma e si trovò per terra colpito da una testata al basso ventre. Quando si voltò per riacciuffarlo si rese conto che il piccolo rom era volato giù per le scale e via, attraverso il giardino, per andarsi a nascondere in chissà quale delle sue sudice baracche.