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Roma, Comando di Montesacro

Era rimasto tutto il pomeriggio ad aggiornare il profilo psicologico dell’omicida. Purtroppo solo con poche righe sulla vittima sopravvissuta, «Francesco», in attesa che Comello portasse qualche risultato degno di nota o che l’uomo fosse risvegliato.

Spense il computer. L’ufficio del Comando era buio e l’aria pesante. Uscendo per rincasare, controvoglia, il commissario infilò il foglio in tasca. Sarebbe tornato a piedi per fare due passi. Pensare, voleva pensare.

I pini costeggiavano la strada sul lato destro, dall’altra parte sopra il marciapiede una lunga rete metallica impediva l’accesso all’avvallamento che scivolava verso l’Aniene. Catrame, gatti morti, cinte erniali accompagnavano il declivio erboso fino alle rapide acque del fiume.

Sentiva la testa gonfia di pensieri, stipata di immagini che non riusciva a ordinare. Da una parte il caso del killer degli scavi, il seriale che seppelliva le vittime ancora vive tra le rovine e i monumenti di Roma. Dall’altra il rumore di fondo delle relazioni, dei ricordi, della costruzione di una nuova vita. Il desiderio docile e lancinante di viversela tutta. E la sensazione, quel placido fracasso, di non essere pienamente dentro alla propria vita, di non averla davvero messa a fuoco. Giulia era una certezza felice. Una presenza che lo confortava anche quando non c’era. Il pensiero di lei, l’attesa dei suoi messaggi, l’emozione di rivederla, ogni volta, gli facevano bene. La meraviglia di non avere rimorsi, o ansie, era un risultato inatteso. Poteva dedicarsi alle indagini, scavare nella mente del suo assassino sapendo che lei lo avrebbe atteso.

Allora perché si sentiva tanto instabile?

Senza pensarci, prese il foglio di tasca e lo aprì mentre superava quello che tanti anni prima era stato lo Zio d’America, la torrefazione dove la madre gli comprava gli animaletti di zucchero, e svoltò a destra su viale Adriatico. L’immedesimazione era il fulcro del lavoro appreso a Quantico. Erano trascorse ere geologiche da quando faceva su e giù, notte e giorno, tra la sala interrogatori e gli archivi. «Ognuno di voi», il vecchio profiler a Quantico Sonny Paluso si riferiva ai migliori studenti del corso, che si portava al pub di tanto in tanto, «ha una qualità specifica, tra le altre necessarie per fare quello che fate: cacciare cacciatori, indossare i loro panni di uomini comuni, prima che di assassini.» Era tutto lì il gioco, andare a scovare il dottor Jekyll per trovare poi il mister Hyde che vi si nascondeva dentro, come diceva invece il suo primo maestro, Carlo Biga.

La sua, Enrico lo aveva capito solo col tempo, era piuttosto una qualità sensoriale che lo attraversava come un brivido, fisico ma impalpabile. Qualcosa che aveva più a che fare con il contatto con la morte, con il suo soffio imperituro, che con le scene del crimine. Era però sopra le assi di quei palcoscenici raccapriccianti che immaginava gli assassini seriali, che li vedeva muoversi, prepararsi, colpire, uccidere.

Il profilo che stava stendendo era a malapena uno strumento, efficace ma non infallibile, né preciso al cento per cento. Da lì sarebbero partiti per andare a stanare quel maniaco silenzioso. Mancava ancora qualcosa, c’era una zona d’ombra che non riusciva a illuminare con la luce della ragione, o dell’istinto. Ma la sensazione frustrante che aveva addosso era d’altra natura. Non dipendeva dal caso in alto mare. Una cosa la sapeva con certezza e lo infastidiva: era iniziata con le sedute psicoterapeutiche con la Antonelli. Stavano scavando troppo in profondità? Toccavano corde ancora dolenti? Possibile? No, aveva rimesso a posto un sacco di cose. Il disagio veniva da qualcosa di torbido, di rimosso, forse.

In una viuzza senza uscita scorse l’insegna d’un pub che non aveva mai notato. Aveva un tavolino fuori, vuoto. E, anche all’interno, il bancone su cui si innestavano tre linee di birre sembrava desolato. Il tipo di posto che amava, si disse, chiedendosi da quanto tempo non si faceva una pinta di stout. Quella, pensò allora, poteva essere la serata giusta per mettere a fuoco le cose grazie alla lucida deformità dell’alcol. Stava per entrare quando un’amara sensazione di sconforto lo fece arretrare dalla soglia. Doveva restare concentrato e a fuoco sul caso. Avrebbe avuto tempo per rilassarsi appena chiusa l’indagine.

Si voltò e riprese a camminare. Non c’era nessuno in giro, gli stivaletti neri presero a muoversi da soli e il commissario li lasciò fare, inseguendoli mentalmente. Gli occhi a terra, Enrico camminò per una decina di minuti afflitto dalla strana sensazione di poco prima. Stavolta però c’era qualcosa di diverso. Un turbamento gli gravava addosso come un presagio. Più di una volta si girò di scatto, convinto di trovare qualcuno che lo stava seguendo. Col sospetto alle spalle credeva di udire dei passi da qualche parte sulla strada, nei portoni, tra le aiuole dei giardini. Ma non c’era nessuno.

Si affrettò e quando alzò lo sguardo, guidato da un refolo d’aria, riconobbe il cancello della villetta di Carlo Biga. Neppure ci pensò, prese le sue chiavi a cui erano sempre attaccate quelle del professore e aprì.

La casa sembrava piccola e desolata senza l’ingombrante figura in carrozzella del suo ospite. L’odore vetusto del legno e del camino, quello di sempre. Si chiuse la porta alle spalle e avanzò verso lo scalone centrale seguendo il ricordo di quello che aveva saputo dai medici. L’elevatore era fermo a metà della scalinata. Evidentemente la signora che badava a lui aveva lasciato tutto com’era, nemmeno fosse una scena del crimine. Era stato un bel volo, e la paresi doveva aver fatto il resto. Ma Enrico era certo che anche quella volta ce l’avrebbe fatta, il suo vecchio. In un modo o nell’altro.

Osservò la casa con stupore, qualcosa gli sfuggiva. Arrivò al divano e passò oltre, diretto alla portafinestra del piano terra che dava nel giardinetto. L’erba copriva i sentieri di marmo e s’affacciava alla fontana. Anche le siepi avevano perso la loro forma ordinata. Distolse lo sguardo e la mente vacillò. Stava cercando, già, ma cosa? Si aggirò per qualche minuto, sorpreso di ritrovarsi da solo in quel posto. Tratto da una forza silente, salì le scale e si diresse alla saletta con la libreria di fronte al bovindo. La piccola scrivania era ingombra di carte. Mancini fece il giro e si mise a sedere sulla comoda poltrona che il professore usava come sedia da studio. I cassetti erano chiusi. La scrivania di noce tirata a nuovo da un restauro imponente. Al centro del piano, sopra un mucchio di fogli imbrattati, c’era quello che, forse, stava cercando. Nella sua copertina di un blu scolorito dal tempo, c’era il quadernino del professore. Se lo portava sempre dietro, nella tasca della carrozzina insieme al whiskey.

Enrico si passò una mano tra i capelli, era confuso e sudava per quel gesto in qualche modo sacrilego. Lo aprì e prese a sfogliarlo. Non era il saggio che aveva immaginato, somigliava più a un diario, redatto da poco, che ripercorreva la carriera del professore per sommi capi. C’erano riflessioni e approfondimenti su casi e qualcosa della sua filosofia personale applicata al profiling. Gli inizi, il metodo, le tecniche investigative, i colleghi americani e italiani con cui aveva lavorato. Uno zibaldone di un centinaio di pagine scritte fitte fitte. Alzò gli occhi in cerca di quello che aveva solo intravisto. Due bicchieri rovesciati e una bottiglia mezza vuota. Si versò un goccio e si mise a leggere.

Passarono i minuti, Mancini proseguiva rapido nella lettura. Molte delle informazioni e delle storie le conosceva e le aveva sentite raccontare dall’autore. Scorse veloce e quando arrivò alla fine trovò un foglio piegato. Era il profilo del killer degli scavi che aveva mandato a Biga prima di aggiornarlo con le nuove informazioni. Era stracolmo di appunti presi a margine e sul retro del foglio, frecce, schemini e punti esclamativi. Altro che suicidio, pensò Enrico. Il professore non aveva nessuna intenzione di cedere il passo, non voleva lasciarsi andare, né abbandonarsi alla placida indolenza degli anni e alla salute ormai precaria. Non si sarebbe mai buttato dalle scale. Era lì, il suo ultimo tentativo di sentirsi forte, no, semplicemente vivo. Utile. D’improvviso, il quaderno gli sembrò pesante nella mano e la certezza di rivedere il professore si spense in un istante cupo e doloroso. Voltò pagina, in fondo c’era qualcosa scritto in rosso.

Due lettere.

A.A.