La diversa configurazione dell’offerta culturale, programmatica e stilistica di Lega Nord e Forza Italia ha favorito la diffusione della mentalità populista e dei temi a essa collegati nell’elettorato italiano e, quando le due formazioni hanno sottoscritto un patto di alleanza, si è trasformata in una risorsa utile a catturare consenso in un paese ancora molto diffidente verso i partiti, gli esponenti politici e il modo di fare politica attraverso mediazioni e compromessi continui tipico della Prima Repubblica. L’enfasi propagandistica sull’inefficienza amministrativa dello stato italiano ancora intriso di clientelismo, sulla necessità di dare risposte chiare e forti alla crescente insicurezza interna e internazionale iniziando da più rigidi controlli dei flussi immigratori e di avvicinare la politica ai bisogni del cittadino, insieme alle insistenti campagne di opinione sull’opportunità di affidare il governo del paese a un leader capace di intuire istintivamente e immediatamente i bisogni della comunità, ha certamente avuto un ruolo di primo piano nell’assicurare alla Casa delle libertà il netto successo conseguito nel 2001. L’azione di governo che ne è seguita non ha però soddisfatto le aspettative di un’ampia parte dell’elettorato italiano, che cinque anni dopo ha espresso la sua preferenza per il centrosinistra, sia pure con un’esigua maggioranza. Ci si può dunque chiedere se, una volta trasferite dall’opposizione al governo, le istanze populiste siano risultate meno gradite agli italiani o se, viceversa, sia stato il loro accantonamento, o la loro mancata realizzazione, a deludere una parte dei votanti. Il ribaltamento del risultato elettorale nel 2008 non fornisce una risposta compiuta alla domanda, poiché la sconfitta del fronte avversario è stata dovuta, prima che a una valutazione dei programmi presentati dai due schieramenti, all’impressione di fragilità offerta dal secondo governo Prodi.
Analizzando le politiche dei governi Berlusconi fra il 2001 e il 2006, cioè durante l’unico periodo di governo coinciso, sia pur con una cesura formale tra due esecutivi guidati dalla stessa persona, con l’arco di un’intera legislatura, si può constatare che alcune delle questioni che stanno maggiormente a cuore ai populisti sono state affrontate, ma in termini assai più moderati di quanto i programmi elettorali, soprattutto quelli della Lega Nord, lasciassero immaginare. In materia di immigrazione, la legge Bossi-Fini ha sì istituito procedure più dure per la sorveglianza e l’espulsione degli stranieri giunti illegalmente in Italia, ma ha anche portato alla regolarizzazione di centinaia di migliaia di immigrati clandestini residenti nel paese e ha sancito il principio delle quote annuali di ammissione di cittadini extraeuropei muniti di un contratto di lavoro, smentendo la promessa/minaccia di Bossi di rimandare a casa quanti più immigrati possibile. Le dure prese di posizione leghiste contro l’islam e il multiculturalismo non hanno sortito grandi effetti, anche se il governo ha sposato la linea di dura lotta all’integralismo islamico dell’amministrazione Bush. Le polemiche della Lega contro la globalizzazione e gli incitamenti a ribellarsi ai diktat del «superstato di Bruxelles» sono rimasti lettera morta, di fronte alla scelta degli alleati di favorire la libertà di commercio internazionale e di impegnarsi direttamente nella stesura del progetto di Costituzione europea, respinto da Bossi ma sottoscritto personalmente dal vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini al termine dei lavori della Convenzione creata a tale scopo. Sui temi «legge e ordine», come la lotta alla criminalità spicciola, all’insicurezza urbana, allo spaccio e al consumo di droga, alle occupazioni illegali di edifici da parte di gruppi di estrema sinistra, ecc., l’impegno dei governi presieduti da Berlusconi è stato più marcato, ma senza mai concedere spazio alle richieste leghiste più estreme (ripristino della pena di morte per i crimini più efferati, taglie per la cattura di criminali, divieto di pubbliche manifestazioni delle associazioni omosessuali, ecc.). La riduzione del carico fiscale per famiglie e piccole imprese c’è stata, ma in proporzioni molto ridotte rispetto alle promesse. Il trasferimento di poteri dallo stato alle amministrazioni locali, che avrebbe dovuto avvicinare la politica alla gente comune e renderla più trasparente, è stato deciso per legge dopo una lunga e difficile discussione parlamentare, ma un referendum (cioè, ironia della sorte, proprio uno di quegli strumenti di democrazia diretta tanto cari alla mentalità populista) lo ha cancellato poco più di due mesi dopo la sconfitta del governo alle elezioni. Le altre misure antipartitocratiche promesse, a partire dalla riduzione del numero dei parlamentari e dal contenimento delle spese per il funzionamento dei ministeri, delle camere e delle altre istituzioni, hanno fatto la stessa fine, confinandosi nel recinto delle buone intenzioni.
I soggetti che si erano fatti alfieri della mentalità populista non hanno dunque raggiunto, sul piano delle politiche concrete, quasi nessuno degli obiettivi che si erano prefissi, malgrado i molti anni di gestione del potere. Conclusa l’esperienza del secondo governo Berlusconi, molti osservatori si sono quindi chiesti se il populismo fosse destinato, in breve tempo, a scomparire dal mainstream politico italiano. Gli indizi che portavano a crederlo, nel 2006, erano numerosi: l’immagine di Berlusconi era stata appannata dalla sconfitta, malgrado il personale successo conseguito con il recupero di molti voti durante la campagna elettorale; la Lega Nord era indebolita dalla malattia del suo leader carismatico e dalla cancellazione tramite referendum della revisione costituzionale che introduceva il principio della devolution di alcuni poteri alle istituzioni di governo locali. Due anni dopo, però, il quadro si è rovesciato ed è apparso evidente che la presa di molte argomentazioni populiste sull’elettorato italiano era ancora forte. Berlusconi ha cercato di sfruttarla sino a quando il suo quarto governo non è stato costretto a gettare la spugna sotto le spallate della crisi, ma nel frattempo la sua immagine pubblica era stata fortemente appannata dal succedersi di vicende personali che all’uomo della strada non hanno certamente suggerito considerazioni edificanti. Il leader del Popolo della libertà ha infranto, con taluni suoi comportamenti privati – quelli legati alle ormai celebri feste tenute nella villa di Arcore – una delle regole d’oro alle quali un capo populista non può sottrarsi, quella dell’esemplare limpidezza morale da esibire agli occhi dei seguaci, e così facendo ha dimostrato di non aderire sino in fondo ai principi che pure da anni proclamava. L’esperienza del Popolo della libertà si è conclusa traumaticamente e i suoi dispersi spezzoni non hanno sinora prodotto alcuna innovazione progettuale, dando anzi un’impressione di confusione e decadenza, legata anche all’invecchiamento del leader. Una parte non trascurabile degli elettori del centrodestra ha comunque dimostrato di essere tuttora sensibile al messaggio populista, prima spingendosi al punto di votare per le liste del MoVimento 5 Stelle, attratta dal discorso di Grillo, e poi rifluendo sulla Lega della gestione Salvini.
Sebbene non si possa ancora certificarne la scomparsa, e neppure prevedere le future metamorfosi, del berlusconismo è comunque già possibile tracciare un primo bilancio. Chi si è cimentato nell’impresa, lo ha giudicato, nei caratteri di fondo, un’«emulsione di populismo e liberalismo», le cui componenti hanno avuto lo stesso peso. All’ingrediente populista di questa mistura si dovrebbero far risalire il mito della società civile (dalla quale sarebbe possibile trarre una nuova élite virtuosa), un atteggiamento ipopolitico (cioè poco propenso all’impegno politico diretto e molto alla delega al capo) e l’utopia dell’immediatezza, intesa anche come assenza di mediazione e come «rifiuto di un ceto di politici professionisti in quanto creatori di un mondo specializzato diverso da, e alieno a, quello nel quale gli “uomini qualunque” vivono quotidianamente, un mondo non necessario e anzi parassitario»[44]. L’analisi è convincente, e ristabilisce l’immagine reale di un partito che pure, percependone la valenza negativa nell’usuale frasario della politica, ha cercato di prendere le distanze dall’etichetta populista, sostenendo, nella Carta dei valori pubblicata nel 2004, che:
La nostra visione della politica è lontana da concezioni populiste, di destra e di sinistra, che immaginano di dover difendere una presunta purezza del popolo anche attraverso l’espulsione dal sistema dei suoi «nemici». [...] Difenderemo sempre l’autonomia e la pluralità della società civile contro ogni autoinvestitura alla «rappresentanza morale» del popolo di qualsiasi soggetto istituzionale e politico[45].
Con uno sguardo retrospettivo, si può aggiungere infine che non ha avuto torto Zanatta quando ha scritto, una dozzina di anni addietro, che «Forza Italia non ha perso i suoi tratti genetici populisti, a cominciare dalla funzione vitale del leader, ed è sempre pronta a ricorrervi; se necessario, ricreando ad arte le medesime condizioni di rottura da cui era nata»[46]. A patto però di aggiungere che al leader, e al leader solo, è sempre spettato, e tuttora spetta, il compito di stabilire quali e quante dosi di populismo dovessero essere trasfuse di volta in volta nel discorso pubblico del partito che da oltre vent’anni dirige.
[1] Per questo motivo, Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia (2005), cit., p. 163, addebita ai magistrati, «non paghi di perseguire le malefatte della politica», la colpa di essersi «arrogati nei suoi confronti un ruolo di supplenza, gravido di contenuti antipolitici».
[2] Per una comparazione fra le due situazioni, cfr. Donatella Campus, L’antipolitica al governo. De Gaulle, Reagan, Berlusconi, Bologna, Il Mulino, 2006.
[3] Cfr. Revelli, Le due destre, cit., p. 39.
[4] Questo concetto è proposto, con significato analogo, da Angelo Panebianco, Modelli di partito, Bologna, Il Mulino, 1982, e da Michel Dobry, Sociologie des crises politiques, Paris, Presses de la Fondation nationale des Sciences politiques, 1992.
[5] Campus, L’antipolitica al governo, cit., pp. 28 e 141.
[6] Silvio Berlusconi, L’Italia che ho in mente, Milano, Mondadori, 2000, p. 20 (Il primo discorso, Roma, Palafiera, 6 febbraio 1994).
[7] Ibidem, pp. 20-21. Abbiamo già fatto notare come l’idea di esprimere con un’immagine militaresca la disponibilità a mettersi al servizio del paese sia stata sfruttata anche da Pim Fortuyn; ma la si ritrova in molti altri politici populisti, a partire da Jean-Marie Le Pen.
[8] Ibidem, pp. 26-27.
[9] Silvio Berlusconi, Discorsi per la democrazia, Milano, Mondadori, 2001, pp. 13 e 43.
[10] Paolo Guzzanti, Prefazione a Berlusconi, L’Italia che ho in mente, cit., p. 16.
[11] Hermet, Les populismes dans le monde, cit., p. 395.
[12] Berlusconi, L’Italia che ho in mente, cit., p. 140 (Prima Assemblea nazionale di Azzurro Donna, Sanremo, 28 marzo 1998).
[13] Ibidem, pp. 142 e 279 (Convegno degli amministratori della Lombardia, Milano, 15 gennaio 2000).
[14] Berlusconi, Discorsi per la democrazia, cit., p. 12.
[15] Berlusconi, L’Italia che ho in mente, cit., pp. 28-29.
[16] Cfr., ad es., Massimo Giannini, Lo statista. Il ventennio berlusconiano tra fascismo e populismo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008. In questo saggio di impianto fortemente polemico – come la stragrande maggioranza di quelli che sono stati dedicati al personaggio – si sostiene che nel «populismo autoritario» (e addirittura «tecnicamente totalitario») di Berlusconi si «incarna il mito più moderno dell’Antipolitico, popolare e populista», fondamento di un’«egocrazia populista». Cfr. ibidem, pp. 11, 24, 94 e 119.
[17] Guzzanti, Prefazione, cit., p. 12.
[18] Ibidem, p. 16; il giudizio di Giuliano Ferrara è riportato nel fascicolo Una storia italiana, Milano, Mondadori, 2001, p. 39.
[19] Riprendiamo queste osservazioni da Vincenzo Susca, Fenomenologia di Silvio Berlusconi, mimeo, Roma, Università La Sapienza, 2002. Di questo autore, cfr. anche Ai confini dell’immaginario. Governator Schwarzenegger, i tele-populisti e oltre, Milano-Roma, Bevivino, 2006.
[20] Berlusconi, Discorsi per la democrazia, cit., p. 49; Idem, L’Italia che ho in mente, cit., pp. 41 e 204.
[21] Berlusconi, L’Italia che ho in mente, cit., pp. 176-177 (Prima Assemblea nazionale Seniores, Roma, Palafiera, 27 febbraio 1999).
[22] Idem, Una storia italiana, cit., pp. 6, 12, 26 e 32. Per un’interpretazione complessiva della natura agiografica dell’opuscolo, cfr. Laura Mingioni, Una storia italiana. La comunicazione politica di Forza Italia e del suo leader Silvio Berlusconi, Civitavecchia, Prospettiva, 2007, pp. 94-137. Sulla «fenomenologia mediatica» di Berlusconi, sulle caratteristiche del suo linguaggio e sulla connessa strategia esiste ormai una letteratura molto ampia, che sarebbe superfluo – oltre che prolisso – citare in questa sede.
[23] Cfr. Canovan, Il populismo come l’ombra della democrazia, cit., p. 55.
[24] Cfr. Berlusconi, L’Italia che ho in mente, cit., pp. 21-22; Idem, Discorsi per la democrazia, cit., pp. 11 e 83.
[25] Berlusconi, Discorsi per la democrazia, cit., pp. 174-175.
[26] Ibidem, pp. 84, 250.
[27] Cfr. Campus, L’antipolitica al governo, cit., p. 152.
[28] Berlusconi, L’Italia che ho in mente, cit., pp. 22-23.
[29] Ibidem, p. 283.
[30] Cfr., ad es., ibidem, p. 23 e Idem, Discorsi per la democrazia, cit., p. 251.
[31] Cfr. Revelli, Le due destre, cit., p. 9.
[32] Cfr. Luther Blissett, Una destra, due populismi, in Mauro Martini (a cura di), La destra populista, Roma, Castelvecchi, 1995, p. 42.
[33] Berlusconi, Discorsi per la democrazia, p. 255.
[34] Concetto proposto da Bernard Manin, The Principles of Representative Government, Cambridge, Cambridge University Press, 1997; trad. it. I principi del governo rappresentativo, Bologna, Il Mulino, 2011.
[35] Cfr. Diamanti, Anti-politique, télévision et séparatisme: le populisme à l’italienne, cit., p. 57.
[36] Cfr. Amedeo Benedetti, Il linguaggio e la retorica della nuova politica italiana: Silvio Berlusconi e Forza Italia, Genova, Erga, 2004, p. 57.
[37] Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, cit., p. 128.
[38] Cfr. Silvia Kobi e Yannis Papadopoulos, L’ambiguïté du populisme: négation ou prolongement de la démocratie?, in René Gallissot (a cura di), Populismes du Tiers-Monde, Paris, L’Harmattan, 1997, pp. 38-42; trad. it. L’ambiguità del populismo: negazione o prolungamento della democrazia?, in «Trasgressioni», XV, 3, n. 31, settembre-dicembre 2000, pp. 3-24.
[39] Taguieff, L’illusion populiste, cit., p. 118.
[40] Cfr. Bianchi, La vacca del consenso, cit., p. 18. La prossimità di questi due linguaggi, malgrado il diverso grado di raffinatezza, emerge con particolare evidenza nell’elogio dell’«operosità lombarda» (cfr. Berlusconi, Discorsi per la democrazia, cit., p. 79). Il presidente di Forza Italia ha del resto ripetuto innumerevoli volte di sentirsi in sintonia con i valori e le aspettative dell’elettorato della Lega Nord.
[41] Cfr. Surel, Berlusconi, leader populiste?, cit., pp. 119-125.
[42] Ibidem, p. 127.
[43] Idem, Una storia italiana, cit., p. 73. Cfr. anche il riferimento a «una piazza ricolma di un intero popolo» che Berlusconi ha fatto a Milano, in Piazza Duomo, nel comizio con cui ha voluto che si chiudesse – in un bagno di folla del tutto irrituale per un’assise di partito – il primo Congresso nazionale di Forza Italia. Cfr. Berlusconi, Discorsi per la democrazia, cit., p. 278.
[44] Cfr. Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, cit., pp. 125-126 e 132-133.
[45] Carta dei valori di Forza Italia, 2004, pp. 11-12.
[46] Zanatta, Il populismo. Sul nucleo forte di un’ideologia debole, cit., p. 288.