La prima edizione di questo libro – che riappare oggi in una versione molto ampliata e integralmente rivista – si apriva, nel 2003, con una constatazione. «Populismo», scrivevamo allora, è oggi un termine di moda in Italia: nei circuiti massmediali, nel dibattito politico, negli studi accademici se ne fa uso con sempre maggiore frequenza. A distanza di undici anni, non c’è ragione di modificare una sola parola di quella frase. Si può soltanto aggiungere che nel frattempo quella moda è dilagata, rompendo ogni argine. Nei mesi che hanno preceduto le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del 25 maggio 2014, sarebbe difficile scovare, nel dibattito pubblico (politico, giornalistico, intellettuale) un termine e una fonte di aggettivazioni più utilizzati: l’ascesa dei partiti populisti, categoria nella quale spesso si sono incluse, non senza forzature, tutte le formazioni sospettate di euroscetticismo, è diventata un vero Leitmotiv. Pochi mesi prima, una ricerca condotta tramite la rete bibliotecaria connessa all’Università della California aveva appurato l’impressionante moltiplicarsi di libri e articoli dedicati al populismo: dai 370 degli anni Sessanta si è passati, nei successivi tre decenni, a 557, 1.336 e poi addirittura 2.801 fra il 2000 e il 2009. E la tendenza non sembra affatto in via di riassorbimento, se il numero delle voci presenti fra il 2010 e i primi mesi del 2013 era già salito a 1.046, facendo presagire un nuovo record[1]. L’impressione è dunque quella di trovarsi di fronte a uno dei concetti chiave della politica contemporanea. E c’è ormai chi, anche in ambito accademico, sostiene che ci troviamo in un’epoca populista[2], chi si domanda se quella che viene spesso descritta come l’«antipolitica populista» non stia in realtà trasformandosi in una nuova dimensione della politica nei regimi democratici[3] e chi, dopo essersi chiesto se oggi sia concepibile una politica non populista, già ipotizzando che il populismo sia un elemento costante dell’immaginario politico democratico che emerge a qualunque latitudine ogniqualvolta gli equilibri socioculturali, economici e politici vengono scossi in profondità, si è convinto che, nella politica moderna, questo fenomeno si è ormai insinuato dappertutto[4].
Non è peraltro la prima volta che ciò accade. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso la parola ricorreva spesso nel gergo della politica, di solito per spiegare i convulsi processi di trasformazione che agitavano il Terzo mondo (argomento che andava anch’esso, allora, per la maggiore) producendo una congerie di tribuni delle masse diseredate e di «dittature di sviluppo», ma talvolta veniva usata anche per suggerire accostamenti fra idee, movimenti e modi di agire tipici di quelle zone del globo e alcune tendenze che si delineavano, e secondo taluni già erano all’opera, in Europa, e in particolare nella penisola italiana. Il tono con cui il sostantivo o gli aggettivi connessi venivano pronunciati o scritti non differiva granché da quello attualmente in voga, evocando soprattutto biasimo, scetticismo, intenzioni polemiche e squalificanti, non di rado aperto sarcasmo: essere tacciati di atteggiamenti populisti equivaleva allora, così come ai nostri giorni, a vedersi incollare addosso l’etichetta di irresponsabili demagoghi.
Quel che è cambiato da almeno due decenni è il contesto in cui a questa espressione si fa ricorso: il termine non richiama più, in prima battuta, ambientazioni esotiche e abitudini nate in paesi lontani, ma volti, immagini e avvenimenti familiari, ben radicati nel paesaggio che ci circonda. A partire dalla metà degli anni Novanta, l’Italia è diventata, a parere di molti commentatori, una delle terre di elezione del populismo, ormai uscito dalla marginalità ed episodicità che in precedenza sembravano contraddistinguerlo. A tal punto che non si contano più le inchieste giornalistiche, ma anche le analisi di taglio scientifico, che la indicano come il «laboratorio» in cui questo fenomeno sta sperimentando le sue forme più innovative e di successo, e si è giunti a vederla designata come il «paradiso populista», anche se il monopolio di questa definizione continua a esserle conteso dall’America Latina[5], tanto che ancora di recente si è affermato che il concetto di «populismo» conserva un «profondo sapore latinoamericano»[6]. In una delle opere tuttora di riferimento della letteratura specialistica, scritta in apertura di XXI secolo, si legge addirittura che «l’Italia non si limita a monopolizzare da sola o quasi l’espressione di tre delle cinque componenti di ciò che il populismo rappresenta ai nostri giorni nell’Europa occidentale. Al di là di questo aspetto un po’ contabile, essa si è trasformata in sito per eccellenza del suo trionfo sui partiti classici»[7].
Il discutibile primato, a quel tempo, era stato strappato con fatica all’Austria dopo la crisi del governo formato nel febbraio 2000 da popolari e liberalnazionali e il conseguente ridimensionamento elettorale di questi ultimi, e viene periodicamente conteso all’Italia da altri paesi in cui le manifestazioni del fenomeno subiscono improvvise drammatizzazioni, come l’Olanda della tragica meteora Pim Fortuyn o la Francia sconcertata dal passaggio di Jean-Marie Le Pen al turno di ballottaggio delle elezioni presidenziali nell’aprile 2002, e adesso i non pochi paesi in cui formazioni populiste si sono affermate nel voto per il Parlamento europeo (di nuovo il Front national, ma anche l’Ukip britannica, il Dansk Folkeparti e altri), ma appare, in una prospettiva di medio periodo, piuttosto stabile. Se infatti durante i cinque anni di vita (2001-2006) del secondo governo Berlusconi, e poi dal 2008 al 2011, per tutta la durata dell’esecutivo guidato dall’alleanza fra Popolo della libertà e Lega Nord, la stampa nazionale e internazionale ha spesso insistito sul carattere populista delle politiche perseguite dai due gabinetti, c’è voluto poco perché la parentesi di silenzio si richiudesse: grazie a Beppe Grillo, il populismo è tornato a brillare sulla scena e a far scorrere i classici fiumi di inchiostro e di parole. E l’Italia è ritornata, con tanto di frequenti citazioni del ruolo di battistrada svolto dal qualunquismo di Giannini, a essere indicata come il Paese di Cuccagna dei populisti.
Questa condizione appare a un buon numero di osservatori scontata; eppure presenta almeno un lato problematico. Certo, se consideriamo alcune delle caratteristiche fondamentali individuate dagli studiosi nel populismo, come la tendenza dei suoi capifila ad attribuirsi una capacità straordinaria e immediata di comprendere le esigenze della collettività di cui si proclamano interpreti, e a mostrare perciò insofferenza verso le regole formali che ostacolano la loro «missione» a vantaggio del bene comune, i continui richiami al buonsenso della gente semplice e alle tradizioni condivise dalla maggioranza dei membri della comunità, la polemica contro i politici di professione e l’eccesso di mediazioni, la diffidenza verso gli intellettuali e i sindacati, accusati di voler dividere il paese istigando alla lotta di classe, non c’è dubbio che l’azione di Silvio Berlusconi e dei suoi alleati, sia negli anni dell’opposizione sia in quelli di governo, rientra pienamente in questo fenomeno. Se guardiamo però ai risultati elettorali del periodo della cosiddetta «Seconda Repubblica» (1993-2014), caratterizzato da un’ampia modifica del sistema di partito italiano, non vi riscontriamo nessun movimento populista che abbia ottenuto successi simili a quelli della Fpö, del Dfp o del Fremskrittparti, suo analogo norvegese, della Lista Pim Fortuyn o del Front national. Il massimo dei voti raccolti dal maggiore di essi, la Lega Nord, ammonta, su scala nazionale, al 10,2% nel 1996, ridottosi al 3,9% nel 2001. Nemmeno nel 2008 quel risultato è stato avvicinato, e malgrado il recupero del periodo 2009-2010 e l’uscita nel 2014 dal tunnel in cui lo scandalo della gestione dei fondi pubblici da parte di Bossi e dei suoi più diretti collaboratori l’aveva proiettata, non vi è alcuna certezza che la Lega sia destinata a raggiungere le percentuali di voto dei partiti sopra indicati, che si sono collocate fra il 12% e il 22,7%. La contraddizione non può quindi essere taciuta: l’Italia ha avuto governi considerati da più parti «populisti» senza che esistesse un forte movimento dello stesso tipo alle loro spalle. E comunque, una volta tramontata la stella di Berlusconi senza che ciò abbia suscitato una ricrescita della Lega, l’ombra del populismo si è subito di nuovo proiettata sul sistema politico grazie al clamoroso 25,1% ottenuto dal MoVimento 5 Stelle alle elezioni legislative del 25 febbraio 2013.
Questi dati di fatto autorizzano, e per certi versi obbligano, a porsi una domanda principale e alcune altre subordinate. Prima di tutto: quale percorso ha condotto la politica italiana, dopo quasi settant’anni di esperienza democratica repubblicana[8], a impregnarsi di una dose così forte di populismo? Si è trattato di un’infiltrazione graduale e continua oppure di un’immissione massiccia e improvvisa in coincidenza con il collasso del ceto politico da molti anni alla guida del paese a seguito delle inchieste sulla corruzione della pubblica amministrazione condotte dai giudici della procura di Milano, ravvivata poi dal crollo della fiducia nei partiti determinato dalla nuova ondata di scandali degli anni più recenti? E ancora: a quale livello si situa questa presunta invasione di elementi populisti nella politica italiana? Si limita a contaminare lo stile dei suoi attori di vertice o influenza anche i valori coltivati dall’opinione pubblica? Infine: a seconda che si accetti l’una o l’altra di queste ipotesi, quali effetti immediati sta provocando e quali ne saranno le conseguenze prevedibili in un prossimo futuro?
Offrire risposte fondate e plausibili a questi interrogativi è lo scopo al quale mira il presente lavoro, e a tale obiettivo è dedicata la ricostruzione analitica dei molti episodi di insorgenza di tematiche populiste di cui è stata punteggiata la vita politica italiana dal 1945 al 2014 e dell’attivazione, attorno ad esse, dei vari soggetti – quelli che la scienza politica designa come «imprenditori politici» – che hanno saputo più o meno accortamente sollevarle, controllarle e sfruttarle, che occupa la seconda parte del libro, dal capitolo 3 in poi. Per coltivare la speranza di riuscire nell’impresa ci è parso tuttavia necessario procedere a tre operazioni preliminari: innanzitutto, spogliare il concetto di «populismo» delle connotazioni valutative, quasi sempre di segno negativo, che ne contraddistinguono l’uso corrente; quindi, offrirne una definizione sufficientemente chiara e coerente sulla base di un confronto fra le proposte interpretative fornite in merito dalla letteratura scientifica; infine, collocare l’attenzione per l’odierna rinascita del populismo in Italia nel contesto più ampio della diffusione piuttosto intensa di cui questo fenomeno sta dando prova un po’ in tutta Europa, e più particolarmente, con caratteri meno incerti ed effimeri, in molti dei paesi situati nella metà occidentale del Vecchio continente.
Il primo di questi compiti – sottrarre il populismo all’alone sulfureo che lo circonda e ammetterlo a pieno titolo nel novero delle teorie politiche degne di attenzione e studio – non è probabilmente il più arduo, ma resta comunque impegnativo. Da un lato, infatti, i mezzi d’informazione destinati al grande pubblico e gli esponenti della classe politica hanno fatto di questo termine un epiteto spregiativo piegabile agli usi più disparati e lo maneggiano come uno strumento di demonizzazione dei soggetti che non godono delle loro simpatie. Dall’altro, fra i politologi, gli storici e i sociologi, che qualche anno addietro parevano propendere per un atteggiamento più pacato, volto a restituire al concetto la funzione descrittiva per cui era stato coniato e ad applicarlo senza i condizionamenti del pregiudizio ideologico e delle intenzioni faziose, oltre che senza ingenuità o minimizzazioni, pare tornata in auge la logica «militante» delle stigmatizzazioni.
Il problema, beninteso, non è nuovo. Già più di trent’anni fa lo aveva efficacemente messo in evidenza, nel suo studio pionieristico e citatissimo, una delle figure guida del dibattito sul tema, Margaret Canovan, scrivendo che «È sempre duro per lo scienziato sociale raggiungere il proprio obiettivo di essere l’osservatore e analista distaccato, disinteressato, degli eventi, e vi sono difficoltà particolari nel caso di movimenti che sono ostili agli intellettuali, come lo sono stati così tanti dei movimenti generalmente conosciuti come populisti» e che «Anche quei commentatori accademici meno direttamente coinvolti nel populismo sono stati colpiti dalle impennate populiste in stati democratici dove i modi di vedere le cose della gente ordinaria, se articolati, spesso finiscono con l’essere contrari alle inclinazioni liberali e progressiste degli intellettuali»[9]. Il clima intellettuale, precisava l’autrice, condiziona l’analisi, e bisogna esserne sempre consapevoli. Quel richiamo, seppur minoritario, è risuonato più volte in analisi successive e di recente se ne sono fatti eco altri studiosi autorevoli. Chantal Delsol ha notato come sia difficile, per l’analista, trattare il concetto di «populismo» con il dovuto distacco, per la pesante carica emotiva che lo accompagna: «Si tratta in primo luogo di un termine peggiorativo, e persino di un’ingiuria. Da ciò l’impossibilità di attribuirgli una vera definizione: prima di tutto emerge il suo carattere esecrabile. Non si può tentare di descrivere questo fenomeno da un punto di vista obiettivo senza cogliere innanzitutto ciò che in esso deborda da ogni parte: la cattiva reputazione»[10]. Pierre-André Taguieff è tornato sul punto, osservando che «Come un tempo la parola “fascismo”, “populismo” ha conservato nei lavori scientifici che lo utilizzano per designare il loro oggetto di studio la carica polemica e la funzione accusatoria che ne caratterizzano gli usi nel linguaggio politico e mediatico corrente»[11]. Il suo accostamento alla demagogia ha peggiorato la situazione, creando un circolo vizioso che Taguieff descrive con grande efficacia:
Con ciò si suppone che al «buon» uso del popolo da parte dei democratici «autentici» si contrapponga un «cattivo» uso del popolo da parte dei «falsi» democratici che sono dei veri demagoghi. Si presuppone che i primi difendano le libertà democratiche e i secondi siano mossi da pulsioni o progetti autoritari. In un caso, l’amore del popolo è una virtù, nell’altro un vizio, un simulacro, un’astuzia più o meno perversa. La demofilia appare di conseguenza ambivalente: giudicata «buona» quando «sale» verso l’ideale democratico (o repubblicano), «cattiva» quando «scende» o «devia» verso la dittatura. Comunque stiano le cose, appare sin dall’inizio che quando oggi si impiega la parola «populismo» non si sfugge ai giudizi di valore né alle rappresentazioni manichee[12].
Sono parole forti, ma un altro degli specialisti più citati in questo campo, Dominique Reynié, è andato oltre, sostenendo che «Come molti altri argomenti, lo studio del populismo dimostra che la scienza politica è a volte una maniera di fare politica con altri mezzi. Il populismo è un argomento di polemica prima di essere un oggetto di analisi. [...] Talvolta gli stessi scienziati abbandonano il loro latino per esprimere un punto di vista manifestamente politico [...] anche quando denunciano l’imprecisione e la debolezza scientifica del concetto»[13].
Quest’ultima osservazione coglie nel segno, individuando un altro pericolo che aleggia sulla nozione di «populismo». Al di là o accanto al rischio dei suoi frequenti usi valutativi, della volgarizzazione mediatica che lo ha indebolito o della «sottoconcettualizzazione» che lo affligge[14], spicca infatti una tendenza a buttare il bambino con l’acqua sporca, cioè a suggerirne l’abbandono per la presunta impossibilità di precisarne il contenuto e/o di restituirlo a usi equilibrati.
In apparenza, l’ipotesi del bando della nozione dalla comunità accademica ha dalla sua solide motivazioni. Sarebbe difficile, infatti, non concordare con Alfio Mastropaolo quando afferma che «l’etichetta di populismo non solo è vaga, ambigua e inflazionata [...] ma è anche ulteriormente distorta dall’uso politico che ne viene spesso fatto» o contestargli che da molti la parola è stata utilizzata per «offrire una categoria residuale, comoda a tanti usi». Così come lo si può senz’altro seguire nella diffida alle scienze sociali ad accodarsi, nell’impiego del termine, al linguaggio giornalistico e a quello politico[15]. Né vi sono ragioni di principio per rifiutare argomenti a sostegno della sostituzione della categoria di «populismo» con eventuali altre più consone, come quelli esposti da Benoît Schneckenburger, per cui «Il termine populismo soffre di un uso variabile. Emerge in seno alle scienze politiche e pretende perciò di essere scientifico e rigoroso, ma agisce immediatamente all’interno di un mondo politico ove le frontiere tra attori, commentatori e analisti sono vaghe» e quindi «oscilla fra un uso descrittivo e uno prescrittivo»[16], o da Annie Collovald, la quale rileva che «mentre pretende di essere una categoria di analisi, il populismo tuttavia è anche un’ingiuria politica»[17]. La questione si complica, però, quando ci si spinge più a fondo nell’appurare le ragioni che ispirano questo invito alla liquidazione della parola e del concetto.
In tutti i casi citati, emerge infatti che a muovere in questa direzione non è affatto uno scrupolo di avalutatività. Al contrario, quel che secca è che il richiamo al popolo e l’attribuzione ad esso di qualità opposte ai vizi delle classi dirigenti, trasparente nella parola «populismo», possa essere collegato a soggetti politici che, per ragioni ideologiche legittime ma che nulla dovrebbero avere a che fare con le preoccupazioni scientifiche, gli studiosi in questione detestano: nella fattispecie, quelle che a seconda dei casi vengono chiamate «nuove destre» o «estreme destre». Nessuno degli avversari dell’uso di questo termine, del resto, lo nasconde. Il più esplicito in questo senso è Mastropaolo, che prima si chiede se «parlare di populismo per caso non serva a ridimensionare la pericolosità democratica dei fenomeni così designati», poi sostiene che «l’accusa di populismo rivolta alle Nuove destre (e non sempre solo a loro) costituisce un caso da manuale di costruzione (e apprezzamento) dell’“io” per il tramite della costruzione (e la denigrazione) dell’“altro”» e infine chiarisce sino in fondo il motivo della sua diffidenza per il ricorso al concetto: «catalogandole come populiste – chiunque lo faccia: politici o intellettuali – alle Nuove destre si fa un regalo non da poco. [...] tacciandoli di populismo si è incautamente attribuito a questi partiti non solo un marchio non troppo disonorevole, ma addirittura il monopolio del popolo e delle classi popolari»[18]. Sulla stessa falsariga, Schneckenburger sostiene che dietro l’accusa di populismo si celano la paura e l’odio del popolo, che sarebbe sempre sospetto, o addirittura posto sotto accusa, agli occhi di coloro che utilizzano questa espressione[19]. Quanto a Collovald, quel che più la mette a disagio è che «la consacrazione scientifica del “populismo”, attraverso la sua spiegazione sapientemente fondata, sgombrata da ogni passione politica e ideologica, ha incoraggiato [...] la diffusione della nuova rappresentazione politica delle relazioni affini fra gruppi popolari e F[ront] N[ational]»[20].
Non è in questa direzione che procederà il nostro lavoro, che cercherà invece di sottrarre la nozione di «populismo» agli usi politici, elogiativi o dispregiativi che siano, nella convinzione che l’investigazione scientifica della politica, l’unica realmente utile a comprenderne i meccanismi e le logiche di funzionamento, debba tenersi a debita distanza dai richiami ai valori personali coltivati dal ricercatore se vuole cogliere risultati attendibili. La lezione di Max Weber è, in questo campo, almeno tanto attuale quanto trascurata nei fatti da un buon numero dei suoi sedicenti discepoli, e non ci deve stancare di applicarla anche, se non soprattutto, a oggetti di studio imbarazzanti. Non è quindi fuori luogo ricordare le parole con cui lo studioso tedesco ha chiarito che la politica non si addice al docente: «non si addice proprio quando questi si occupa di politica dal punto di vista scientifico, e allora meno che mai. Infatti la presa di posizione politica pratica e l’analisi scientifica di formazioni politiche e di partiti sono due cose differenti». E ancora: «ogniqualvolta l’uomo di scienza esprime il suo proprio giudizio di valore, cessa la piena comprensione dei fatti»[21].
Di populismo si parlerà quindi in queste pagine senza intonazioni moralistiche, messe in guardia, allarmismi, secondi fini o attribuzioni malevole, nella convinzione che ciascun lettore sia in grado di formulare da solo, in piena autonomia, i giudizi che gli parranno più opportuni sulla materia qui esposta. Ci si sforzerà cioè di non cadere nella trappola della «demagogia antipopulista», simmetrica e complementare a quella che i suoi esponenti attribuiscono agli avversari, che Taguieff ha spesso messo in evidenza e criticato, rimproverandole di usare i termini «populismo» e «populista», dopo averli caricati di significati eccessivi e a volte contraddittori, a scopo meramente squalificante, «patologizzando o criminalizzando» coloro che si intende in tal modo stigmatizzare, per mettere in discussione la legittimità della loro presenza sulla scena politica. Taguieff ritiene che un simile atteggiamento configuri un «nuovo genere della demagogia massmediale» nel quale «ogni leader politico considerato eretico, malpensante o minaccioso per qualche privilegio acquisito può costituire l’oggetto di una campagna di stampa», consentendo alle élite politiche, burocratiche e tecniche, timorose di un soprassalto delle masse che eroda le loro posizioni di potere, la cui solidità sono portate a equiparare alla salvezza della democrazia, di assicurarsi un’«immunità ideologica»[22]. È un punto di vista che ci trova concordi e al quale ci ispireremo.
Il tentativo di risolvere gli altri due intricati nodi della questione che qui ci interessa – da un lato l’individuazione di un’essenza del populismo che ne travalichi le multiformi manifestazioni contingenti, dall’altro l’analisi e la spiegazione causale della sua presenza nel contesto politico europeo attuale, di cui il caso italiano offre una particolare (ma non così anomala come molti pensano) sfaccettatura – è affidato ai capitoli che seguono immediatamente questa Introduzione. Sul primo di questi due punti, anticipiamo il nostro accordo con chi ha proposto di riconoscere un «genere» comune populista, salvo poi riconoscere le diverse «specie» in cui esso si manifesta[23]. Poiché il populismo fa ampiamente parte del panorama politico della nostra epoca, «è qui per rimanerci»[24] e, sebbene «sia stato sepolto tante volte dagli accademici, rifiuta di scomparire»[25], negarne l’esistenza non sarebbe altro che un inutile esorcismo. Soprattutto quando lo sguardo del ricercatore si rivolge a un paese come l’Italia, dove la sua presenza ha lasciato tracce profonde in passato e ogni giorno si riafferma, manifestandosi in taluni casi anche in ambienti dove ben pochi avrebbero immaginato di doverla constatare.
[1] Cfr. Marco D’Eramo, Populism and the New Oligarchy, in «New Left Review», 82, luglio-agosto 2013, p. 15.
[2] Cfr. Raphaël Liogier, Ce populisme qui vient, Paris, Textuel, 2013, p. 13.
[3] Cfr. Massimo Crosti, Per una definizione del populismo come antipolitica, in «Ricerche di storia politica», VII, 3, dicembre 2004, p. 440.
[4] Cfr. Loris Zanatta, Il populismo: una moda o un concetto?, in «Ricerche di storia politica», VII, 3, dicembre 2004, pp. 330 e 331; Idem, Il populismo, Roma, Carocci, 2013, p. 15.
[5] È peraltro lo stesso autore, lo storico latinoamericanista Loris Zanatta, ad aver coniato entrambe le attribuzioni. La prima figura nel suo articolo Il populismo. Sul nucleo forte di un’ideologia debole, in «Polis», XVI, 2, agosto 2002, p. 286, dove dell’Italia si parla anche come del «più ricco laboratorio del nuovo populismo». La seconda è nel suo libro Il populismo, cit., dove dà il titolo a un intero paragrafo (pp. 122-126).
[6] Carlos de la Torre e Enrique Peruzzotti, Introducción. El regreso del populismo, in Eidem (a cura di), El retorno del pueblo. Populismo y nuevas democracias en América Latina, Quito, Flacso, 2008, p. 13.
[7] Guy Hermet, Les populismes dans le monde. Une histoire sociologique, XIXe-XXe siècle, Paris, Fayard, 2001, p. 396.
[8] Spingersi oltre nella ricerca di queste radici, richiamandosi agli antecedenti letterari del populismo o ai tratti populisti che hanno segnato l’immaginario politico-culturale risorgimentale e postunitario, comporterebbe il duplice rischio di ripercorrere strade già ampiamente e proficuamente battute (basta richiamare, per un verso, Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Roma, Samonà e Savelli, 1965, e, per altro verso, Carlo Tullio-Altan, Populismo e trasformismo, Milano, Feltrinelli, 1989) e di scendere sullo scivoloso terreno delle ipotesi ispirate al determinismo storico. Faremo più avanti una limitatissima eccezione riguardo all’eredità del fascismo, per la contiguità temporale e logica che la lega alle prime manifestazioni del populismo italiano postbellico.
[9] Margaret Canovan, Populism, London, Junction, 1981, p. 11. Con apprezzabile onestà, Canovan aggiungeva in nota: «Può essere appropriato in questa sede dichiarare un’inclinazione personale. L’autrice (senz’altro ricevendo una spinta dallo Zeitgeist) pende leggermente in direzione populista: ma questa preferenza antielitista è contrastata (e bilanciata?) da una marcata diffidenza verso ogni forma di romanticismo, tanto populista quanto elitista»: ibidem, p. 303, n. 12.
[10] Chantal Delsol, La nature du populisme ou les figures de l’idiot, Nice, Ovadia, 2008, pp. 7-8.
[11] Pierre-André Taguieff, Le nouveau national-populisme, Paris, CNRS, 2012, p. 8.
[12] Ibidem, pp. 7-8.
[13] Dominique Reynié, Les nouveaux populismes, Paris, Fayard-Pluriel, 2013, p. 13.
[14] I due aspetti del problema sono segnalati, rispettivamente, da Sergiu Mişcoiu, Au pouvoir par le «peuple». Le populisme saisi par la théorie du discours, Paris, L’Harmattan, 2012, p. 24, e da Paul Taggart, Populism and the Pathology of Representative Politics, in Yves Mény e Yves Surel (a cura di), Democracies and Populist Challenge, Basingstoke, Palgrave, 2002, p. 64.
[15] Cfr. Alfio Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia. Nuove destre, populismo, antipolitica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 49, 51, 61.
[16] Benoît Schneckenburger, Populisme. Le fantasme des élites, Paris, Leprince, 2012, p. 23.
[17] Annie Collovald, Le «populisme du FN», un dangereux contresens, Bellecombes-en-Bauge, Croquant, 2004, p. 9.
[18] Mastropaolo, La mucca pazza della democrazia (2005), cit., pp. 62-63. A sostegno di questa opinione, l’autore cita (ibidem, p. 64) il fatto che le «nuove destre» si dichiarerebbero orgogliose di essere definite «populiste». Ciò però è vero solo in riferimento a ben pochi dei movimenti e partiti cui l’etichetta viene assegnata; gran parte di essi la rifiutano con fastidio o irritazione.
[19] Schneckenburger, Populisme, cit., p. 13.
[20] Collovald, Le «populisme du FN», cit., p. 14.
[21] Max Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Torino, Einaudi, 2004, pp. 29 e 31.
[22] Cfr. Pierre-André Taguieff, Populismes et antipopulismes: le choc des argumentations, in «Mots», 55, giugno 1998, pp. 7-10. Oggetto immediato delle critiche di Taguieff è il tentativo di Alain Minc di contrapporre «al mito populista del “popolo” [...] una “ragione” non meno mitica», soprattutto nel volume L’ivresse démocratique, Paris, Gallimard, 1995, ma i rilievi si estendono ai molti operatori dei media che si sono fatti eco dell’atteggiamento messo sotto accusa.
[23] Cfr. Flavio Chiapponi, Il populismo come problematica della scienza politica, Genova, Cormagi, 2008, p. 171.
[24] Francisco Panizza, Introducción. El populismo como espejo de la democracia, in Idem (a cura di), El populismo como espejo de la democracia, Buenos Aires, Fundo de cultura económica de Argentina, 2009, p. 35.
[25] De la Torre e Peruzzotti, Introducción. El regreso del populismo, cit., p. 14.