4. Due nuovi nemici: l’islam e l’Unione Europea

Per riuscire a rimarcare la propria diversità dai partner di coalizione senza porsi in rotta di collisione con loro, la Lega ha spostato l’asse della sua propaganda sul terreno meno scottante, ma per certi versi più qualificante, della politica estera[34]. E lo ha fatto intensificando ulteriormente i tratti di somiglianza con la famiglia dei partiti populisti, impegnandosi soprattutto su due temi che si collegano strettamente alla logica del «padroni a casa nostra» che l’ha contraddistinta sin dall’inizio: la messa sotto accusa dell’Unione Europea e la denuncia del pericolo islamico.

L’Unione Europea, criticata già da anni per le interferenze nei problemi economici padani, è rimasta nel mirino delle sue critiche quando la Lega è stata al governo così come lo era stata quando si era trovata relegata, o aveva scelto di relegarsi, all’opposizione (in quei frangenti, era risaltato il suo ruolo nel fomentare prima la protesta di un buon numero di allevatori del Nord Italia contro l’imposizione da parte dell’Ue di quote restrittive nella produzione di latte e poi la loro rivolta contro il pagamento delle multe comminate dalla Commissione di Bruxelles a coloro che avevano sforato le quote imposte). I motivi di scontro tuttora non mancano: dal mandato di arresto europeo all’introduzione dell’euro, paventato cavallo di Troia di chi mira a creare un superstato con capitale Bruxelles, dalla prospettiva dell’ingresso della Turchia, che segnerebbe una svendita totale dell’Europa cristiana e della sua civiltà, all’allargamento ai paesi dell’Est che hanno democrazie ancora immature, economie e mercati deboli, tecnologie e risorse naturali scarse. E la soddisfazione per i momenti di impasse del processo di integrazione è palese. Bossi, nelle vesti di ministro, ha a suo tempo affermato di volere un’Europa confederale in cui venga salvaguardato l’asse democratico popolo-parlamento nazionale, ha rifiutato i diktat dell’Ue in materia economica e ha insistito perché le sue competenze fossero limitate, mentre i suoi deputati hanno presentato una proposta di legge per rendere obbligatorio un referendum consultivo nel caso in cui all’Italia si prospetti la cessione di ulteriori quote di sovranità a organismi sovranazionali.

Costretta alla schizofrenia, la Lega quando fa parte del governo deve adottare comportamenti moderati nelle sedi istituzionali e nel contempo rifarsi sul terreno della propaganda. Si oppone perciò all’allargamento a Est dell’Unione paventando l’afflusso di altre decine di milioni di immigrati, ma in parlamento vota la ratifica del Trattato di Nizza; definisce la bozza di costituzione dell’Unione Europea «un mostro centralista» e protesta perché non vi sono citate le radici cristiane del continente, ma poi la considera una soddisfacente base di discussione. Dopo il ritorno all’opposizione nel 2006 i toni della polemica si inaspriscono più decisamente, sia sul versante antiturco sia nella richiesta di adottare dazi doganali contro l’invasione commerciale cinese, e si intensificano i rapporti con altre forze euroscettiche rappresentate al parlamento di Strasburgo per dare alle proprie posizioni una maggiore eco, ma il nuovo successo del centrodestra rimescola le carte in gioco, sino a quando, con la caduta del quarto governo Berlusconi e l’avvento del «tecnocrate ed euroburocrate» Mario Monti, assunto a simbolo delle politiche antipopolari dell’Unione, l’anima autentica del leghismo può dispiegarsi di nuovo senza freni.

In prima linea contro la politica dell’austerità, il movimento fa convergere nella dura opposizione alle scelte della Commissione europea tre delle tipiche direttrici di azione dei partiti populisti: la critica della classe politica, l’ostilità ai flussi migratori (di cui l’Unione Europea è ritenuta facilitatrice, per l’inerzia dimostrata davanti ai continui sbarchi sulle coste siciliane e per la disponibilità illimitata all’accoglienza dei richiedenti asilo) e la resistenza agli effetti della globalizzazione, in questo caso l’erosione della sovranità nazionale. Infine, il protrarsi della crisi economica apertasi nell’autunno 2008 proietta sulla scena un nuovo nemico principale, la moneta comune, alla quale vengono addebitate le massime responsabilità nella perdita di competitività delle aziende del Nord Italia e, di conseguenza, nell’impennata delle delocalizzazioni e della disoccupazione. Si spiega così perché la campagna elettorale nazionale del 2013, e ancor più quella europea dell’anno successivo, siano condotte all’insegna del «No Euro».

L’altro tema qualificante dell’azione leghista degli ultimi anni più connotato in senso populista è la denuncia della minaccia che la penetrazione dell’islam rappresenterebbe per gli europei e le loro culture. Da sempre diffidente verso il multiculturalismo, il movimento ha però in un primo periodo subordinato questa tematica alla più generale lotta contro l’immigrazione, estesa ai flussi che riguardano europei dell’Est, asiatici, africani, latinoamericani. A cambiare le cose è l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle e al Pentagono. L’identificazione fra islamismo e terrorismo consente infatti di indicare in ogni immigrato di origine araba, o più in generale musulmana, un potenziale seguace di al-Qaida, e l’opportunità viene immediatamente colta: lo scontro di civiltà diventa il Leitmotiv delle argomentazioni leghiste. A pochi mesi di distanza, alle critiche ai «guerrieri atlantici» di Washington si sostituiscono gli appelli al fronte comune euroamericano per difendere «senza quartiere» l’Occidente, espressione geografica che designa «una civiltà che, con tutti i suoi limiti e le sue deviazioni, è anche quella dove affondano le nostre radici»[35]. La stampa leghista si scatena, sposando con entusiasmo le opinioni oltranziste di Oriana Fallaci, sostenendo che «il nemico non è solo in Afghanistan, ma a La Mecca e in ogni moschea»[36] e lanciandosi in appassionate rievocazioni, in chiave di attualità, delle battaglie di Poitiers e di Lepanto. L’equazione fra terrorismo, islamismo e immigrazione si trasforma con l’andar del tempo in una costante del discorso pubblico della Lega, che, dopo aver dato per anni l’impressione di esprimere una cultura laica e secolarizzata, si arroga il ruolo di estremo baluardo della cristianità[37]. Le iniziative anti-islamiche – la difesa della presenza del crocifisso nelle aule scolastiche, le proteste contro l’edificazione di moschee e la creazione di centri culturali musulmani, la proposta di legge contro l’uso del burqa – si sono infittite a tutti i livelli soprattutto nelle fasi di opposizione, ma non sono scomparse nemmeno nei periodi di governo, come dimostra la clamorosa vicenda dell’allora ministro delle Riforme Calderoli, costretto alle dimissioni dopo aver indossato, e mostrato al pubblico televisivo, una maglietta recante una delle caricature di Maometto pubblicate da un quotidiano danese, che avevano appena suscitato una crisi a livello internazionale per le proteste di quasi tutti i paesi islamici.

Pur nell’adattarsi delle strategie alle mutevoli contingenze in cui si è trovata coinvolta, il carattere populista di fondo della Lega Nord non ha dunque fatto altro che trovare conferme. Che si siano trovati al governo o all’opposizione, i referenti ideali, i programmi pratici e il linguaggio dei leghisti non hanno subito sconvolgimenti sostanziali e continuano tuttora a battere sempre sugli stessi tasti: dare voce al popolo, a nome e nell’interesse del quale i vertici del movimento dichiarano di compiere ognuna delle loro scelte; difenderne le prerogative contro l’arroganza e la malafede dei potenti; tutelarlo dai pericoli che lo minacciano al di qua e al di là dei confini; conservarne le doti autentiche e salvaguardare le tradizioni che sono alla base della sua identità. Certo, un partito che si è trovato a occupare ministeri di primo piano non si può più permettere di far penzolare dai banchi della Camera un cappio per far capire quale sorte vorrebbe riservare ai politici rei di corruzione, come fece il suo deputato Luca Leoni Orsenigo nel momento in cui più lacerante era il trauma di Tangentopoli, ma la necessità di indossare in alcune occasioni l’abito istituzionale non ha spento la vocazione a incarnare le pulsioni profonde del popolo di cui si proclama metaforicamente braccio armato, e tantomeno a interpretarle con uno stile che infrange sistematicamente le regole del politically correct. Si pensi, tanto per fare un paio di esempi, alla messinscena di Calderoli che, da ministro della Semplificazione (normativa) – nessun altro termine potrebbe rendere con altrettanta plasticità una mentalità populista –, si è esibito in un falò di pacchi e faldoni che, simbolicamente, contenevano le troppe leggi inutili, o alle più recenti trovate spettacolari di deputati leghisti che, facendosi espellere dall’aula, sono giunti al punto di sventolare pesci in parlamento. Del resto, le cose non potrebbero andare diversamente per un movimento che è riuscito a ritagliarsi un ruolo significativo nella politica italiana grazie al fatto di aver «incanalato in senso verticale il mugugno di fondo nei confronti del regime» che da decenni percorreva orizzontalmente la società italiana[38].

Che il movimento fondato da Bossi non possa scostarsi dalla matrice populista senza pagare dazio lo ha dimostrato la breve stagione della segreteria di Roberto Maroni. Promosso sulla plancia di comando dalla caduta di immagine del leader storico, il delfino di lungo corso, spalleggiato dalla nuova classe dirigente di amministratori locali, con in testa i presidenti di regione Cota e Zaia e il sindaco di Verona Tosi, con il suo nuovo corso istituzionale, misurato nei toni e piuttosto lontano nei contenuti dagli altri partiti populisti europei, pur essendo riuscito a conquistare grazie al rinnovato patto con il centrodestra la guida della Lombardia, ha visto calare la Lega a livelli di consenso minimi. E per risalire la china, cercando in primis di recuperare i simpatizzanti attratti dal ben più vivace discorso di Grillo, si è dovuto rapidamente cambiare segretario, affidandosi a un giovane clone del Bossi delle origini, che ha rispolverato i classici elementi del repertorio movimentista: l’antipartitocrazia, la voce grossa contro l’immigrazione e l’Unione Europea, l’anti-intellettualismo, l’apologia dell’etica del lavoro, la critica al consociativismo di partiti e istituzioni, la protesta fiscale, la difesa dei piccoli uomini comuni tartassati, condendolo con un’oratoria che, di nuovo, si guarda bene dal rifuggire dai toni grevi e dalle allusioni pesanti.

Ritrovato con Salvini un leader a immagine e somiglianza dei più fedeli seguaci, la Lega ha dunque ripreso alcuni dei suoi più caratteristici tratti originari. Al di là dello stile comunicativo del nuovo segretario, che si apparenta senza particolari sbavature allo stereotipo del leader populista, stanno a dimostrarlo alcune delle sue prime mosse, come l’impostazione della campagna per le elezioni europee sull’ostilità dichiarata nei confronti delle istituzioni europee, e in particolare sul no all’euro, presentato addirittura come «un crimine contro l’umanità» per le sue ricadute economiche negative sulle classi popolari[39] e trasformato in un logo che ha di fatto scavalcato lo stesso richiamo alla Padania nel simbolo di lista, e la presentazione da parte dei gruppi parlamentari leghisti di un emendamento al testo delle riforme costituzionali che introdurrebbe la possibilità di indire referendum abrogativi di trattati internazionali. La concezione etnica dell’identità collettiva riflessa nell’immaginaria comunità padana, l’avversione nei confronti delle alte sfere della politica e della cultura e della «spocchia di coloro che sanno», che all’uomo della strada «sembra essere diventata più insopportabile di quella di coloro che hanno», così come il rafforzamento degli «stereotipi della semplicità»[40] dissipano ogni possibile dubbio: la Lega è tuttora un movimento populista di massa, ben diverso dai partiti di estrema destra a cui impropriamente qualche osservatore si ostina ad accostarla[41] ma anche dai movimenti regionalisti tuttora attivi in vari paesi d’Europa. Quel che rimane da appurare è se, con Salvini, verrà ricomposto anche l’originario modello di leadership, che la segreteria Maroni aveva offuscato, se non cancellato[42]. La trasmissione del carisma è un esercizio difficile e delicato, tanto più quando la catena della successione si è interrotta. Per adesso, il nuovo leader sembra accontentarsi di uno stile agitatorio più vicino a quello di Beppe Grillo, ma la diversa natura della struttura di cui è a capo – non un agglomerato liquido collegato orizzontalmente e verticalmente per via telematica, ma un’organizzazione con basi territoriali, sedi e responsabili accettati (quando non imposti) e controllati dall’alto, vincolato per statuto a tenere congressi a vari livelli – sia pure con una periodicità che nell’epoca bossiana è stata del tutto imprevedibile, essendo soggetta esclusivamente ai voleri del segretario – potrebbe richiedere un ulteriore salto di qualità nella qualità della legittimazione del leader e del suo rapporto con i seguaci.

Certo, per quanto si è visto sinora, la diversa collocazione nella dinamica del sistema politico italiano costringe il movimento ad attenuare o a riattizzare alcuni aspetti della fisionomia originaria, e l’assunzione di ruoli di responsabilità di rado gli consente di mettere in pratica i programmi stilati. I suoi ministri non sono riusciti a impedire che i gabinetti di cui erano parte adottassero sanatorie per regolarizzare centinaia di migliaia di immigrati clandestini, perseguissero il dialogo con le comunità religiose musulmane, firmassero trattati che estendevano il processo di integrazione europea, e persino in materia di federalismo – l’unica componente del progetto politico leghista che non ha a che fare con la mentalità del populismo – i risultati ottenuti sono stati ben poca cosa. Tuttavia, è ormai un dato appurato che la Lega di governo è obbligata, per sopravvivere, a rimanere anche di lotta, a rischio di destabilizzare di continuo la compagine di cui fa parte. La sua critica della democrazia rappresentativa si può esprimere nella volontà di tenere un piede dentro e uno fuori dalle istituzioni, la sua vicinanza ai presunti interessi del popolo può assumere le sembianze modeste dei progetti di devolution regionale, l’ostilità verso le élite e la rivendicazione del controllo popolare sul loro operato possono prendere provvisoriamente di mira più la magistratura, «eversiva rispetto alla sovranità popolare», che i partiti, traducendosi nella richiesta di far eleggere i pubblici ministeri dal basso («Se ci tengono tanto ad andare in Tv ad apparire si facciano eleggere dal popolo», ha a suo tempo detto Bossi)[43] o nell’introduzione in tutte le aule di giustizia, accanto al tradizionale «La giustizia è uguale per tutti», del più ammiccante monito «La giustizia è amministrata in nome del popolo», effettuata all’epoca in cui era il leghista Castelli a occupare il posto di guardasigilli. Insomma, la Lega può invertire le alleanze politiche, modificare i referenti sociali della propria propaganda, coprire di fango istituzioni e personaggi che in precedenza aveva osannato o viceversa, ma non può permettersi di abbandonare lo stile, la mentalità, il gergo e i registri retorici del populismo, perché da essi trae le indispensabili risorse della sua inconfondibile identità e dell’alterità radicale rispetto al mondo della politica ufficiale tanto inviso ai suoi sostenitori attuali e potenziali. È l’unico vincolo che neppure al suo a lungo onnipotente fondatore è stato dato il potere di infrangere e che, come l’esito della segreteria Maroni dimostra, a maggior ragione i suoi successori sono obbligati a rispettare.



[1] La bibliografia sulla Lega – non solo in italiano – è ormai vastissima e si è molto accresciuta negli ultimi anni. Purtroppo, gran parte di essa è composta di pamphlet, inchieste giornalistiche superficiali e opere a tesi dai toni aspri o irridenti ed è quindi scientificamente inutilizzabile. I titoli più interessanti, per quanto riguarda le monografie, sono citati nelle note seguenti. L’opera di sintesi più efficace resta tuttora quella di Ilvo Diamanti, La Lega. Geografia, storia e sociologia di un nuovo soggetto politico, Roma, Donzelli, 1993 (nuova ed. aggiornata 1996). Molto utile, anche se circoscritta solo ad alcuni aspetti del movimento, è l’analisi di Margarita Gómez-Reino Cachafeiro, Ethnicity and Nationalism in Italian Politics: Inventing the «Padania»: Lega Nord and the Northern Question, Aldershot, Ashgate, 2002.

[2] Su questo punto convergono i pareri di quasi tutti coloro che si sono occupati sul piano scientifico della Lega. Stona, in questo panorama, il giudizio di Christophe Bouillaud, La Lega Nord, ou comment ne pas réussir à être populiste (1989-2002), in Ihl, Chêne, Vial e Waterlot, La tentation populiste au coeur de l’Europe, cit., pp. 130-145, alcune delle cui osservazioni appaiono sconcertanti. Non solo infatti per l’autore la Lega «non è mai stata populista, ha voluto esserlo ma vi è riuscita solo episodicamente» (p. 131), ma dopo la nascita di Forza Italia sarebbe «difficile pretendere che [essa] sia analizzabile in termini di populismo» (p. 133). Seguono altre affermazioni bizzarre, come «se è un populismo, ha poca attrazione sull’elettore medio!» (p. 134; il punto esclamativo è nel testo) o «la Lega non è riuscita a essere populista nel senso della seduzione di un ampio elettorato» (p. 138) o ancora «la sua ostilità all’immigrazione non è altro che una laicizzazione del comunitarismo cattolico nelle terre della Controriforma, nella sua faccia meno caritatevole» (p. 142). Solo il fatto di avere un leader carismatico la apparenterebbe al populismo. Una così sconcertante sfilza di controsensi si spiega con due assunti ancora più discutibili enunciati nell’articolo, in base ai quali «un partito anti-immigrati diventa populista nel momento in cui acquisisce successo elettorale! Altrimenti rimane di estrema destra!» (p. 142, corsivo e punti esclamativi sono nel testo) e «occorrerebbe una classificazione dei partiti in funzione dei gruppi che intendono discriminare». Ovviamente, se fosse inteso in questo modo, il concetto di «populismo» non rivestirebbe alcun carattere di utilità per le scienze sociali.

[3] Cfr. Daniele Tonazzo, Populismo, in Mario Barenghi e Matteo Bonazzi (a cura di), L’immaginario leghista. L’irruzione delle pulsioni nella politica contemporanea, Macerata, Quodlibet, 2012, p. 153; Michel Huysseune, Modernità e secessione. Le scienze sociali e il discorso politico della Lega Nord, Roma, Carocci, 2004, p. 193.

[4] Cfr. Daniele Vimercati, I lombardi alla nuova crociata, Milano, Mursia, 1990, p. 17.

[5] Cfr. Bernard Poche, From Cultural Autonomy to Integral Federalism, in «Telos», 90, inverno 1991-1992, pp. 71-81 e Maria Antonietta Confalonieri, La Lega Nord e l’Unione Europea: un’analisi del discorso politico, in Giorgio Fedel (a cura di), Studi in onore di Mario Stoppino (1935-2001), Milano, Giuffrè, 2005, pp. 353-354.

[6] I primi a tematizzare questa trasformazione del leghismo sono stati Carlo Ruzza e Oliver Schmidtke, The Making of the Lombard League, in «Telos», 90, inverno 1991-1992, pp. 57-70.

[7] Non a caso, quando la Lega si trova costretta a puntare su una strategia di alleanze per spendere proficuamente sul terreno politico i consensi conquistati, il suo segretario pubblica una sorta di «manifesto ideologico» teso a ribadire gli obiettivi radicali del movimento: cfr. Umberto Bossi, La rivoluzione, Milano, Sperling & Kupfer, 1993.

[8] Sull’importanza di questi veicoli sui generis di appartenenza si sofferma Clotilde Champeyrache, La Ligue du Nord. Un séparatisme à l’italienne, Paris, L’Harmattan, 2002, pp. 130-132.

[9] La formula è stata coniata da Roberto Biorcio, La Lega come attore politico: dal federalismo al populismo regionalista, in Renato Mannheimer (a cura di), La Lega Lombarda, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 34-82.

[10] L’interpretazione di Lynda Dematteo, secondo cui la spontaneità del linguaggio dei leghisti «è frutto di un attento calcolo», ha un fondamento, ma le considerazioni che ne fa derivare appaiono forzate, tanto quanto lo sono molti altri passaggi del suo libro. Per rendere l’idea dell’approccio con cui l’autrice si è accostata all’oggetto della sua ricerca, basta leggere queste poche righe: «è difficile seguire gli sviluppi delle argomentazioni di Bossi. I suoi discorsi evocano la glossolalia di alcuni malati di mente che costruiscono un idioma personale sulla base di neologismi organizzati secondo una sintassi rudimentale. Molti italiani credono che Bossi utilizzi parole a caso senza conoscerne il senso o attribuendogli un significato che solo lui conosce. La dimensione infantile di alcune espressioni completa il quadro clinico. L’aspetto delirante dell’insieme confonde il tenore del messaggio ideologico: il personaggio che asserisce simili assurdità con un linguaggio così insolito non può essere preso sul serio» (L’idiota in politica. Antropologia della Lega Nord, Milano, Feltrinelli, 2012, p. 25). Al politologo che non si accontenta della categoria dell’«idiozia» per rispondere al quesito, resta da chiedersi perché, a prendere sul serio Bossi, siano stati milioni di elettori.

[11] Vittorio Moioli, Le passioni e gli interessi dei localismi lombardi, Milano, Cgil Lombardia-A.A.Ster 1991, cit. in Bianchi, La vacca del consenso, cit., p. 16.

[12] Biorcio, La rivincita del Nord, cit., p. 140.

[13] Marco Belpoliti, Canotta, in Barenghi e Bonazzi, L’immaginario leghista, cit., p. 47. Cfr. anche Idem, La canottiera di Bossi, Parma, Guanda, 2012.

[14] Cfr. Pier Paolo Poggio, Il naturalismo sociale e l’ideologia della Lega, in Giovanni De Luna (a cura di), Figli di un benessere minore. La Lega 1979-1993, Scandicci, La Nuova Italia, 1994, pp. 137-196, in part. pp. 149-151.

[15] Sulla suddivisione in fasi della vicenda leghista gli studiosi non concordano. Ipotesi diverse sono state proposte da Giancarlo Rovati, Le leghe del Nord tra movimento e partito, in Antonietta Mazzette e Giancarlo Rovati (a cura di), Il potere dei «forti». Leghe del Nord e Partito Sardo d’Azione, Milano, Angeli, 1993, p. 25; Diamanti, La Lega, cit., pp. 16-19; Giovanni De Luna, Dalla spontaneità all’organizzazione. La resistibile ascesa della Lega di Bossi, in Idem, Figli di un benessere minore, cit., pp. 43-52; Roberto Biorcio, La Padania promessa, Milano, Il Saggiatore, 1997, pp. 35-38.

[16] Non va del resto dimenticato che il populismo ha subito la stessa accusa. Uno dei suoi studiosi più acuti ha scritto che esso è «senz’anima» perché gli «manca un legame con dei valori fondamentali»: cfr. Taggart, Il populismo, cit., p. 13. Dovrebbe ormai essere chiaro al lettore che questa non è la nostra opinione.

[17] Biorcio, La rivincita del Nord, cit., p. 129.

[18] Cfr. Huysseune, Modernità e secessione, cit., pp. 204-205.

[19] Cesáreo R. Aguilera de Prat, El cambio político en Italia y la Liga Norte, Madrid, Centro de Investigaciones Sociológicas, 1999, p. 141.

[20] Queste cifre sono quelle ufficialmente dichiarate dal partito (cfr., per il dato sulle sezioni, Gianluca Passarelli e Dario Tuorto, Lega & Padania, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 206, e per quello sugli iscritti, Biorcio, La rivincita del Nord, cit., p. 161). Come nel caso di molti partiti italiani, è forte il sospetto che siano gonfiate rispetto alla realtà.

[21] Sul quotidiano, chiuso nel novembre 2014, e sul suo ruolo all’interno della strategia leghista, cfr. Roberto Schena, Storiacce Padane, Milano, Magenes, 2013, un’analisi/testimonianza dall’interno di taglio polemico ma non priva di dati e spunti di riflessione interessanti.

[22] Per una più ampia trattazione di questi temi, cfr. Marco Tarchi, The Lega Nord, in Lieven de Winter e Huri Türsan (a cura di), Regionalist Parties in Western Europe, London, Routledge, 1988, pp. 143-157, e Idem, La Lega tra destra e sinistra, in «Trasgressioni», XIV, 1, n. 28, maggio-agosto 1999, pp. 3-29.

[23] Il riferimento è alle categorie analitiche elaborate da Robert Harmel e Lars Svåsand, Party Leadership and Party Institutionalisation: Three Phases of Development, in «West European Politics», XVI, 2, 1993, pp. 67-88. José Pedro Zuquete, Missionary Politics in Contemporary Europe, Syracuse, N.Y., Syracuse University Press, 2007, p. 243, include Bossi (insieme a Jean-Marie Le Pen) nella categoria degli esponenti della politica missionaria, contraddistinta da una «religione politica caratterizzata da un’interazione dinamica fra leadership carismatica, una narrazione soteriologica della condizione di outsider e della ritualizzazione, e dalla creazione di una comunità morale investita della missione collettiva di combattere i nemici cospiratori e di redimere la nazione dalla sua crisi putativa».

[24] Cfr. Roberto Biorcio, The Rebirth of Populism in Italy and France, in «Telos», 90, inverno 1991-92, p. 44.

[25] Cfr. Robert Leonardi e Monique Kovacs, L’irresistibile ascesa della Lega nord, in Hellman e Pasquino, Politica in Italia. Edizione 1993, cit., pp. 131-132.

[26] Sulle affinità fra le formazioni populiste austriaca e padana, cfr. Patricia Chiantera Stutte, Das Europa der Antieuropäer. Ein Vergleich von Lega Nord und FPÖ, EUI Working Papers SPS 2002/9, Fiesole, European University Insitute, 2002.

[27] Con alcune delle formazioni neopopuliste la Lega Nord mantiene da tempo contatti alla luce del sole, salvo averli messi in ombra o addirittura negati quando attorno all’una o all’altra di esse si sono accesi i riflettori dello scandalo massmediale. Rappresentanti ufficiali della Fpö, ad esempio, sono intervenuti dalla tribuna dei congressi leghisti nel 1997 e nel 1998 e lo stesso Haider è salito sul palco di un comizio tenuto da Bossi a Vicenza nel 1999, abbracciato dal collega padano. Quando però pochi mesi dopo i liberalnazionali austriaci sono entrati in un governo di coalizione a Vienna, scatenando un’ondata di allarme a livello europeo, la Lega ha addirittura negato questi episodi, pur a suo tempo documentati fotograficamente con notevole enfasi dal quotidiano del partito, «La Padania». Negli anni Novanta legami diretti sono intercorsi anche con il Vlaams Blok, con il Dansk Folkeparti e con il partito di Žirinovskij. Sino a poco tempo addietro, invece, non risultavano legami con il Front national, troppo statalista – con tratti di puro giacobinismo – agli occhi dei leghisti, ma la situazione si è modificata in vista delle elezioni europee del 2014. Sia per alcune convergenze tematiche (la proposta di abbandonare l’euro e l’opposizione alle ingerenze dell’Unione Europea nelle politiche dei singoli Stati, oltre che, ovviamente, l’ostilità verso l’immigrazione), sia per la possibilità di sfruttare l’effetto traino dei successi frontisti in Francia, sia per evitare l’isolamento e l’irrilevanza nel parlamento di Strasburgo, Matteo Salvini ha sottoscritto un accordo di collaborazione con Marine Le Pen e con Geert Wijlders (e ha invitato il centrodestra a fare altrettanto, ben sapendo che non sarebbe stato ascoltato), anche se sino al momento in cui scriviamo, come già detto, ciò non è stato sufficiente alla costituzione dell’ipotizzato gruppo europarlamentare.

[28] Bossi arriva a negare, in un’intervista, la possibilità di esistenza di una corrente liberaldemocratica all’interno della Lega Nord. Cfr. Bossi: «Nella Lega due correnti», a cura di Gianluca Savoini, in «La Padania», 10 luglio 1999.

[29] Le nozioni di «xenofobia» e «razzismo» non sono, peraltro, coincidenti ed esprimono fenomeni molto diversi, anche se in taluni casi sovrapponibili. In proposito, cfr. le già ricordate osservazioni di Sartori, Xenofobia è paura (non odio) dello straniero, cit.

[30] In proposito, cfr. Marco Tarchi, L’evoluzione della cultura politica di Alleanza nazionale. Un’analisi attraverso i documenti programmatici (1995-2002), in «Trasgressioni», XVIII, 1, n. 36, gennaio-aprile 2003, pp. 3-54.

[31] Lo nota anche Antonia Gohr, Die Lega Nord – Eine Herausforderung für Italien, Frankfurt a.M., Lang, 2001, p. 87.

[32] Zanatta, Il populismo. Sul nucleo forte di un’ideologia debole, cit., p. 289.

[33] Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell, La botte piena e il militante ubriaco: la Lega Nord al governo, in «Trasgressioni», XXIII, 1, n. 46, gennaio-aprile 2008, pp. 27-28; degli stessi autori, cfr. anche The Lega Nord in the Second Berlusconi Government: In a League of Its Own, in «West European Politics», XXVIII, 5, 2005, pp. 952-972.

[34] Su questo tema, cfr. Marco Tarchi, Recalcitrant Allies: The Conflicting Foreign Policy Agenda of the Alleanza Nazionale and the Lega Nord, in Christina Schori Liang (a cura di), Europe for the Europeans: The Foreign and Security Policy of the Populist Radical Right, Aldershot, Ashgate, 2007, pp. 187-207.

[35] Giuseppe Baiocchi, Sfida di popolo nei venti di guerra, in «La Padania», 16-17 settembre 2001.

[36] Marcello Ricci, Una nuova guerra, quella globalizzata, in «La Padania», 16-17 febbraio 2002.

[37] Cfr. Renzo Guolo, Chi impugna la Croce. Lega e Chiesa, Roma-Bari, Laterza, 2011. Sullo stesso tema, ma con minore spessore scientifico, cfr. anche Paolo Bertezzolo, Padroni a chiesa nostra. Vent’anni di strategia religiosa della Lega Nord, Bologna, Emi, 2011, e Augusto Cavadi, Il Dio dei leghisti, Torino, San Paolo, 2012.

[38] Questo sostiene Cartocci, L’Italia unita del populismo, cit., p. 291.

[39] Cfr. Lega, Salvini contro euro: «Crimine contro l’umanità», in «Ansa.it», 15 dicembre 2013.

[40] Dematteo, L’idiota in politica, cit., p. 121.

[41] L’affermazione in base alla quale «L’appartenenza al filone populista presuppone [...] una qualche connotazione in termini di partito di estrema destra», ragion per cui «sebbene fosse possibile rilevare nella Ln la presenza di tutti gli elementi tipici del populismo, permaneva però più di una perplessità sull’aderenza del partito alla famiglia delle formazioni populiste» (Passarelli e Tuorto, Lega & Padania, cit., p. 113), non ha alcuna fondatezza, dal momento che nessun autore pone un vincolo del genere. Anche gli studiosi più affezionati all’espressione «destra radicale populista», come Cas Mudde o Hans-Georg Betz, ammettono che esistono partiti populisti che non hanno a che vedere con quella categoria. Betz, come abbiamo visto, li definisce «liberalpopulisti» e fra di essi ha inserito, in un primo momento, proprio la Lega; Mudde cita, fra i vari casi, il Fremskrittparti norvegese e la Lista Pim Fortuyn. Si può, ovviamente, discutere la collocazione della Lega Nord nell’una o nell’altra di queste categorie, ma non collegare la scelta a una premessa che, nella letteratura in argomento, è inesistente.

[42] Sui caratteri piuttosto devianti dalla mentalità populista del progetto politico di Maroni, utili elementi sono forniti da Elena G. Polidori e Davide Vecchi, I barbari sognanti, Roma, Aliberti, 2012; Alessandro Madron, Roberto Maroni, Roma, Editori Internazionali Riuniti, 2012; Roberto Maroni (con Carlo Brambilla), Il mio Nord, Milano, Sperling & Kupfer, 2012.

[43] Cfr. Enrico Caiano, Bossi: riforme entro il 2004 o si va al voto, in «Corriere della Sera», 17 agosto 2003, p. 9.