1. Il carisma di un outsider

Grazie ai successi conseguiti dalla Lega Nord agli inizi degli anni Novanta, il termine «populismo» torna a essere utilizzato dai commentatori in riferimento alla politica italiana, ma nelle analisi di quel periodo riguardanti il partito di Bossi di solito i giornalisti preferiscono parlare di «qualunquismo», ricorrendo a un modello più radicato nella memoria collettiva nazionale. A decretare la fortuna di questa parola nel lessico della comunicazione politica è la decisione di Silvio Berlusconi di fondare nel dicembre 1993 Forza Italia, il partito che gli consentirà di vincere le elezioni del marzo successivo, in coalizione proprio con la Lega Nord, e di trasformarsi nel giro di pochi mesi da imprenditore e magnate delle telecomunicazioni in presidente del Consiglio. Al Berlusconi capo di partito e di governo gli avversari e la stampa ostile attribuiscono la qualifica di «populista» con un’evidente intenzione squalificante, spesso confondendola con l’aggettivo «peronista» per sottolineare il carattere demagogico del personaggio e dei suoi modi di agire; di conseguenza il destinatario dell’aggettivazione la rifiuta, rispedendola sistematicamente al mittente. È tuttavia innegabile che, anche se si impiega il concetto in chiave puramente scientifica, l’azione politica dell’imprenditore milanese evoca numerose consonanze con le caratteristiche tipiche del populismo, che in Forza Italia non ha assunto però mai la forma di un movimento di massa spontaneo, com’era accaduto nel caso leghista, ma si è espresso principalmente come un registro stilistico, consapevolmente scelto perché adatto a fornire risposte a molte delle domande politiche che si sono create nella società italiana dopo il crollo del sistema di partito preesistente.

Sebbene sia stato oggetto di varie inchieste giudiziarie per imputazioni legate alle sue molteplici attività in campo economico, culminate in una condanna che ne ha determinato la decadenza dalla carica di senatore, e benché le sue polemiche contro le interferenze della magistratura in campo politico siano tuttora ricorrenti e aspre, Berlusconi deve in gran parte il successo elettorale del 1994 alle conseguenze delle iniziative dei pubblici ministeri che, con le loro investigazioni, hanno imposto all’attenzione dell’opinione pubblica l’estremo grado di diffusione che la corruzione della pubblica amministrazione aveva raggiunto in Italia. Prima dell’intervento delle procure contro un certo numero di esponenti della classe politica sospettati di comportamenti illeciti, i partiti centristi avevano mantenuto nell’insieme una risicata maggioranza e la loro organizzazione poggiava ancora su una consolidata rete di potere clientelare, anche se la Lega Nord aveva dimostrato, con gli ottimi risultati ottenuti nelle elezioni regionali e comunali del 1990 e nelle elezioni legislative del 1992, di poter sfidare le formazioni politiche tradizionali erodendone le basi di consenso. Le principali identità subculturali presenti nel paese mostravano evidenti segni di logoramento ma continuavano a canalizzare verso i partiti maggiori un sostegno di massa.

Lo scoppio dello scandalo Tangentopoli si abbatte come un colpo di maglio su questo panorama e in meno di un anno disarticola lo stato maggiore della politica italiana: ministri, sottosegretari, deputati, senatori, sindaci, consiglieri regionali e comunali, segretari di partito sono sottoposti a inchieste giudiziarie, e in numerose occasioni vengono arrestati. Il clamore di cui i mezzi d’informazione ammantano la vicenda fa il resto. Alcuni fra i più noti esponenti del ceto politico di governo sono costretti dalla pressione dei mezzi d’informazione e dell’opinione pubblica da questi sollecitata a dimettersi dalle cariche rivestite. Ipotizzando o accertando le gravi responsabilità di molti protagonisti della vita pubblica in reati commessi ai danni dello stato, la magistratura sparge alcuni dei semi che si sono sempre dimostrati adatti a far germogliare il terreno di coltura del populismo: il discredito dei partiti che hanno governato il paese e di quelli che, pur stando all’opposizione, ne hanno condiviso il modo di agire; la sfiducia verso la politica in quanto tale, vista da molti come un campo da bonificare radicalmente e quanto prima possibile; la sensazione che si sia creato un punto di cesura nella storia del paese, destinato a separare un’epoca ormai in via di conclusione da una di cui già si intravedono i primi segni[1].

L’enfasi sul presunto inevitabile distacco tra una Prima Repubblica dominata dalla partitocrazia e una Seconda Repubblica in cui i cittadini dovranno recuperare influenza diretta sulla politica, e le analogie da più parti suggerite fra l’Italia del 1992, in attesa del suo de Gaulle, e la Francia del 1958, salvata dalla catastrofe del sistema parlamentare in virtù dell’avvento di un uomo forte e di una profonda riforma istituzionale, contribuiscono ad alimentare un clima di attesa di novità radicali[2], sul quale si innesta, a seguito della crisi della politica di mediazione adottata nei decenni precedenti, una richiesta di semplificazione dell’amministrazione della vita pubblica, il cui esito immediato è l’idealizzazione della figura del politico manager, «amministratore del “sistema paese” con piglio imprenditoriale» e, in parallelo, la rivalutazione del leader carismatico, che offre un rinnovato senso di appartenenza, cioè un’identità politica non più legata ai partiti, e stimola una «deresponsabilizzazione partecipante» che assomiglia da vicino al modo in cui ormai la maggioranza degli individui si accosta alla politica, seguendola e vivendola unicamente attraverso lo schermo televisivo[3].

Cresce così, alimentato da giornali e canali televisivi, il mito della società civile. Non essersi mai occupati di politica nella propria vita diventa un titolo di merito e, nel caso di personalità note al grande pubblico, è un potenziale requisito per aspirare a svolgere un ruolo di primo piano in quel rinnovamento che tutti auspicano. Si crea in tal modo un’altra precondizione cruciale per il successo delle politiche populiste: l’attesa di palingenesi. Si va alla ricerca di uomini non coinvolti nel naufragio della vecchia classe dirigente che possano riscattare il buon nome del paese e fornire adeguate credenziali di capacità tecnica, carattere e onestà; date le premesse, è opinione diffusa che queste qualità non possano essere rintracciate nei politici di professione. Nel 1993, in occasione delle prime elezioni dirette dei sindaci, inizia perciò la caccia dei partiti, ma anche delle molte liste civiche che nascono dal generalizzato malcontento, ai volti nuovi da presentare come candidati, in alternativa ai vecchi uomini di apparato. Soprattutto nelle città del Nord, il rinnovo delle amministrazioni locali porta alla ribalta imprenditori, funzionari tecnici, intellettuali, liberi professionisti, la cui parola d’ordine, a prescindere dalle convinzioni politiche professate, si riassume nel medesimo imperativo: limitare l’influenza dei partiti, da cui pure in molti casi vengono candidati, nella gestione delle città e, soprattutto, valorizzare le competenze professionali attraverso la scelta di assessori indipendenti.

In questa apoteosi del dilettantismo, che pure dovrebbe favorirla, la Lega Nord paga lo scotto di non disporre ancora di una classe dirigente all’altezza dei compiti di governo locale che la grande avanzata elettorale le affida. Con soltanto pochi anni di vita alle spalle e un’organizzazione scarsamente sviluppata, le è difficile reclutare un personale che abbia le capacità e l’esperienza adeguate a svolgere il ruolo di sindaco o di assessore nelle molte località, di piccole e medie dimensioni, nelle quali le liste del Carroccio conquistano la maggioranza dei voti e, di conseguenza, il diritto-dovere di occuparsi della gestione amministrativa di un comune. Inoltre, il radicalismo delle posizioni sostenute da Bossi e i metodi autoritari con cui il segretario federale gestisce il movimento, espellendo e denigrando chiunque sia sospettato di mettere in dubbio la bontà dei punti di vista che esprime o delle decisioni che assume, rende diffidenti di fronte alla prospettiva di un impegno diretto in politica molti dei simpatizzanti leghisti che pure disporrebbero delle caratteristiche tecniche adatte per collaborare alla guida di un’amministrazione locale. Credibile e apprezzata come strumento di protesta, la Lega non viene giudicata negli ambienti moderati affidabile per compiti di governo, e questo handicap la penalizza nelle grandi città del Nord, in cui spesso i suoi candidati a sindaco figurano in testa alle preferenze degli elettori al primo turno ma vengono sconfitti al ballottaggio. Soltanto a Milano il leghista ex socialista Formentini conquista la poltrona di sindaco, prevalendo su un altro volto nuovo, Nando Dalla Chiesa, figlio del generale dei carabinieri famoso per aver combattuto la mafia in Sicilia ed esserne stato ucciso, presentato dalla Rete. A Venezia, Torino, Genova e Trieste la Lega viene sconfitta dalla coalizione dei partiti di sinistra e centrosinistra, dimostrandosi incapace di raccogliere l’eredità della Democrazia cristiana come partito di raccolta del ceto medio.

Persi i suoi tradizionali referenti politici, annientati dalle inchieste giudiziarie di Tangentopoli, l’Italia conservatrice si ritrova orfana. Le alleanze elettorali delle formazioni che cercano di rappresentarne le istanze, al Nord con la Lega e al Sud con il Msi-Dn (che si trova all’improvviso a essere proiettato in quel ruolo di guida dell’opinione pubblica anticomunista a cui aveva invano aspirato per decenni, portando i suoi candidati a sfiorare la conquista dei municipi di Roma e Napoli), sono rese obbligate dall’emergenza e appaiono improvvisate e provvisorie, dato il carattere eccessivamente estremista degli occasionali partner. È in questa situazione di stallo che maturano le condizioni ideali per l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi, che può presentarsi all’elettorato ostile alla sinistra come un «uomo della provvidenza» sceso in campo al momento giusto per evitare che il governo del paese finisca nelle mani degli ex comunisti.

Prima di decidersi a correre il rischio dell’ingresso in politica in prima persona, Berlusconi ha fatto svolgere a una società di sondaggi collegata alla sua struttura aziendale, la Diakron, alcune ricerche di opinione per individuare quali siano le aspettative più sentite dai suoi potenziali sostenitori. Lo stile con cui si presenta al pubblico non lascia dunque nessun margine all’improvvisazione o al caso; la scelta di toni e temi populisti è commisurata alla tutt’altro che irrilevante quota di mercato elettorale disponibile. Tuttavia, nel personaggio pubblico Berlusconi, nella sua mentalità e nell’immagine di imprenditore fra i più noti d’Italia che lo accompagna già all’inizio dell’avventura, sono presenti alcuni tratti significativi che gli consentono di immedesimarsi con assoluta naturalezza nel ruolo e di recitarlo con contagiosa convinzione. È infatti il tipico self-made man di successo che non ha mai reciso i rapporti con il suo retroterra sociale medioborghese d’origine e, malgrado l’ingente ricchezza accumulata, si sforza di apparire simile all’uomo della strada: un figlio del popolo provvisto di buonsenso, più capace di mettere a frutto le doti di cui dispone, certo, e più fortunato, ma tutto sommato fatto della stessa pasta. «Sono uno di voi» è una delle frasi che predilige quando dialoga con il pubblico. Il carisma politico che i sostenitori subito gli riconoscono non è naturale, ma situazionale[4]; non si fonda cioè su un preesistente alone di straordinarietà personale guadagnato sul campo dove ha deciso di cimentarsi – una qualità che ovviamente è negata a tutti gli outsider – bensì sul desiderio di imitazione dei seguaci, continuamente alimentato tramite una sapiente alternanza di atteggiamenti demagogici, che attenuano la distanza con la base dei sostenitori, e di rivendicazioni del ruolo insostituibile di guida, che la ristabiliscono. Paternalistico e rassicurante nei toni oratori, Berlusconi si proclama di continuo interprete e difensore della volontà popolare, ma la sua tribuna ideale non è il palco di un comizio, bensì il piccolo schermo televisivo che, da proprietario delle tre più seguite reti private, conosce alla perfezione; il modello a cui si ispira non è il trascinatore di folle ma il proprietario di un’impresa che si impegna a risanare i conti, distribuire le responsabilità e garantire la collaborazione di tutti i salariati: l’«amministratore delegato dell’azienda Italia», come si autodefinisce.

Quando viene lanciata sul mercato elettorale, Forza Italia incarna, nella sua organizzazione, questo modello. È un partito dotato di strutture flessibili e leggere, composto essenzialmente da dipendenti di una delle aziende di proprietà del leader, Publitalia, privo di una gerarchia articolata, lontanissimo dall’idea che gli italiani si sono fatti di tutto ciò che ha a che fare con il professionismo politico, che punta tutte le sue carte sulle campagne pubblicitarie e sull’immagine. Nei programmi e nello stile comunicativo, il populismo emerge immediatamente come la sua caratteristica di fondo, anche se sempre espressa in toni soft e declinata soprattutto in chiave di denuncia dell’intrinseca negatività della politica professionale e ideologica.

Fin da quando decide di scendere in campo, Berlusconi, che ne è l’unico portavoce autorizzato e ascoltato, non si lascia mai sfuggire un’occasione per dichiarare che Forza Italia, i suoi esponenti, i suoi candidati e il suo stesso leader sono prestati temporaneamente alla politica: vengono dal mondo delle professioni e ad esse ritorneranno quando avranno svolto il loro compito di salvare il paese dal disastro in cui lo condurrebbe un governo guidato dalla sinistra. L’esaltazione compiaciuta dell’estraneità alle élite corrotte e inconcludenti che tanti guai hanno causato al suo amato paese è il pezzo forte del repertorio populista a cui il proprietario delle tre più importanti reti televisive private italiane fa ricorso, e a scorrere i testi dei discorsi da lui pronunciati e in seguito raccolti in volume se ne trovano innumerevoli esempi, tanto da indurre a individuare in lui «un pregiudizio quasi antropologico nei confronti di chi pratica il mestiere della politica» e nella sua creatura un «partito antipolitico»[5].

L’uomo che molti italiani conoscono per le sue attività imprenditoriali afferma, già nel momento in cui si presenta candidato al governo del paese, di essere stato «costretto a bere l’amaro calice» dell’impegno pubblico soltanto per amore dei concittadini: la ragione avrebbe consigliato a lui e ai suoi collaboratori di continuare a occuparsi «del nostro particolare, della nostra famiglia, delle nostre aziende, del nostro mestiere, delle nostre professioni», ma il sentimento ha prevalso di fronte alla vista dei «politicanti incapaci di mettersi d’accordo» che rischiavano di mandare alla rovina il paese[6]. Gli sarebbe piaciuto «fare il nonno», ma si è «improvvisamente trovato davanti qualcuno bisognoso d’aiuto»; entrare in politica è perciò diventato un atto moralmente dovuto, la risposta a «una specie di chiamata alle armi», a un desiderio che saliva «da tutto il Paese, dal Nord, dal Sud, dalle persone di tutte le categorie, di tutte le età [...] una voglia di cambiamento, non soltanto un cambiamento di uomini, ma anche un cambiamento del modo di fare politica» che chiedeva di farla finita con «la politica delle baruffe, delle parole, delle chiacchiere, dei veti incrociati, dei vecchi rancori, delle trattative sotto il tavolo» ed esprimeva «la voglia di una politica diversa, di una politica pulita»[7]. L’unica maniera per soddisfare questa domanda era impegnarsi a portare alla guida del paese una squadra (la metafora calcistica è frequente nel discorso berlusconiano, perché traduce concetti più complessi in immagini familiari all’uomo della strada e rimanda alla popolarità del presidente del Milan) di «uomini che vengono dalla trincea della vita e del lavoro, animati da una gran voglia di fare» e capaci di trovare soluzioni concrete per i problemi concreti di un paese che ha «bisogno di uomini con la testa sulle spalle»[8].

Il senso del dovere che lo ha spinto a mettere la sua «esperienza di uomo del fare» al servizio del paese e dei concittadini, tuttavia, se si presta credito alle sue parole, non induce neanche per un attimo il nuovo protagonista della politica italiana a pensare di poter cambiare mestiere. Berlusconi tiene a ribadire di essere prima di ogni altra cosa un imprenditore e non ha timore di dichiarare in un’aula parlamentare, nelle vesti di presidente del Consiglio in carica: «Non faccio, non ho fatto e non farò mai nulla che sia motivato da pure ragioni di professionismo politico o partitico»[9]. Sa che queste sono parole che i suoi elettori apprezzano particolarmente, e che gli esperti di comunicazione che gli sono vicini si incaricheranno di tradurre in un’immagine di sicuro richiamo per i potenziali elettori: l’immagine di un uomo «che non fa politica per evitare di andare a lavorare (come la maggioranza dei nostri politici) ma perché ci crede», un «personaggio fuori dagli schemi», «uno che è partito da zero, ha fatto la gavetta [e] si è dovuto confrontare con i grovigli dello stato e della sua feroce e inefficace burocrazia»; il politico impolitico che impersona «una sfida radicale alla politica tradizionale»[10]. Insomma, il leader outsider per antonomasia, che non nasconde una visione ambiziosa mostrandosi come risolutore – in tempi brevissimi: un altro stigma populista – di dilemmi che la verbosa politica dei suoi predecessori e avversari ha lasciato insoluti per decenni, sottolinea il proprio coraggio nell’abbandonare in nome del bene comune l’invidiata condizione di miliardario che potrebbe vivere dei frutti delle proprie molteplici attività e, last but not least, vuole rompere drasticamente con un passato che ha condotto l’Italia, come più volte ripeterà, sull’orlo del baratro.

Ovviamente, un «uomo del fare» quale Berlusconi ama essere considerato non può limitarsi ad apparire estraneo alla politica e a raffigurarsi nei panni del salvatore al servizio della comunità; deve anche calcare i toni delle accuse contro gli upp tanto detestati da Giannini. E proprio dal fondatore dell’Uomo qualunque, che l’aveva coniata sulle colonne del suo settimanale, il presidente di Forza Italia prende a prestito l’immagine del teatrino della politica in cui è costretto dalle circostanze a recitare una parte, pur detestandolo e volendolo radicalmente modificare. Quella che Hermet ha definito la sua «antipolitica postideologica»[11] si esercita ostentando senza soste l’estraneità al gergo e alle abitudini che caratterizzano il politicantismo tradizionale. I «principi astrusi» e le «ideologie complicate» sono esplicitamente banditi dai programmi di quello che deve restare ed essere considerato un movimento perché esprime un’aperta «avversione per la politica dei partiti», la «politica politicante» insincera e destinata inevitabilmente a trasformarsi in partitocrazia. «Quando sento dire che Forza Italia è un partito», assicura il suo leader, «ho dei brividi alla schiena»[12]. Di avversari come D’Alema, Rutelli, Veltroni (ma lo farà anche riferendosi a Fini, prima ancora che costui rompa il lungo sodalizio creatosi nel 1994) sottolinea, ogni volta che costoro gliene forniscono il pretesto, che si tratta di persone che hanno sempre vissuto di politica, facendo carriera come funzionari di partito, e non hanno mai dimostrato di saper fare nient’altro nella vita; anzi, peggio ancora, «hanno campato tutti, per tutta la loro vita, con i soldi di tutti noi», sono «dei profittatori della cosa comune, dei privilegiati del potere»[13]. Ma non sono soltanto i partiti e i loro esponenti o funzionari ad attirare gli strali di Berlusconi. Pur mostrando molta attenzione, quando si trova al governo, a non mettere in discussione la legittimità delle istituzioni rappresentative – all’opposto di Bossi, che le fa oggetto di sarcasmi e invettive – e assicurando, anzi, di coltivare un rispetto «quasi sacrale» verso il parlamento, in quanto «massima istituzione della sovranità popolare»[14], gli capita spesso di deplorarne l’inconcludenza e di contrapporre alle disfunzioni che le caratterizzano l’efficienza delle imprese private, dove impera la meritocrazia. «Azienda Italia» è una formula a cui fa spesso ricorso per far capire in che modo intende il suo ideale di governo: decisioni rapide, discussioni ridotte al minimo indispensabile, unità di intenti fra base e vertice, trasparenza e pubblicità dei risultati per soddisfare i cittadini-clienti, a cui la sovranità espropriata dai partiti va restituita, purché però la esercitino sotto il controllo di tecnici competenti e responsabili. A un’amministrazione «pletorica, confusa, caotica, inefficiente» vanno applicati i criteri con cui si conducono le famiglie e le imprese[15].