1. Un tribuno della plebe alla conquista del Sud: l’avventura di Achille Lauro

La scomparsa di una vivace formazione di protesta antiestablishment quale era il Fronte dell’Uomo qualunque non significa il completo riassorbimento del deficit di legittimità di cui la democrazia italiana soffre negli anni della ricostruzione e della Guerra fredda. Anche se i meccanismi di socializzazione dei partiti di massa ricominciano a funzionare a pieno ritmo, i sintomi di quella mancanza di fiducia che ha determinato la fulminea affermazione delle liste del torchietto persistono e in alcune zone del Sud del paese, anzi, si accentuano. Il qualunquismo popolare meridionale sopravvive a Giannini e la sua eredità è contesa da più parti. Mira apertamente a riscuoterla il Movimento sociale italiano (Msi), sorto per dare voce e rappresentanza ai nostalgici del fascismo, che fa della polemica contro la partitocrazia e il politicantismo un argomento di punta della propria propaganda[1] e promette, come avevano fatto i qualunquisti, un rapporto più diretto e corretto fra governanti e governati, ma tra la concezione eroica della vita che caratterizza la retorica neofascista e l’elogio del casalingo buonsenso dell’individuo dedito solo al lavoro e alla routine quotidiana che aveva fatto le fortune dell’Uomo qualunque, prima come giornale e poi come movimento politico, la distanza è incolmabile[2]. Alcuni dei tratti del modo di pensare dell’uomo della strada che Giannini aveva lodato vedendovi altrettanti pregi – primo fra i quali il rifiuto di farsi guidare dai falsi miti della patria e della nazione, considerati più o meno nocivi quanto quello della classe – sono, per i missini, gravi difetti ricollegabili a quell’ignavia che ha portato il popolo italiano a tradire il Capo nel momento più difficile della guerra; un travaso massiccio dei consensi qualunquisti sui candidati presentati dal partito della fiamma tricolore è perciò impossibile. Mentre è alla portata di mano di un altro dei soggetti che vi aspirano, il movimento monarchico, a cui tuttavia l’operazione riesce solo quando alla sua guida si pone un uomo che assomiglia molto all’identikit del perfetto populista, l’armatore navale napoletano Achille Lauro.

Plebeo nello stile e autoritario nel temperamento, Lauro presenta già le stigmate del capopopolo ancor prima di diventare una figura rilevante in ambito politico. Imbarcato quattordicenne come mozzo su una nave paterna, salva la flotta di famiglia dal disastro con un indefesso impegno in prima persona, che gli incolla addosso l’etichetta di chi si è fatto da solo, e non certo del figlio di papà. Anche quando è diventato un imprenditore di successo, non rinuncia a esibire le stigmate del popolano: parla in dialetto, fraternizza con i collaboratori di ogni ordine e grado, fa sfoggio di un paternalismo affettuoso verso gli indigenti, con cui è prodigo di aiuti economici. Amante del lavoro e del rischio, a Napoli, città a cui lo lega un affetto carnale ricambiato, è per tutti «il Comandante», e la carica di presidente della locale squadra di calcio gli garantisce un sovrappiù di popolarità, che uno degli studiosi della sua parabola politica definisce addirittura uno dei pilastri della sua «religione politica»[3] (espressione che, francamente, pare eccessiva). Spregiudicato e istintivo, la qualifica di «erede di Giannini» affibbiatagli dal suo più accurato biografo[4] gli calza a pennello, salvo il fatto che per aggiudicarsela Lauro non ha esitato a utilizzare il gruppo parlamentare qualunquista, convincendolo, con promesse di carriera e incentivi economici, a ribellarsi alle direttive del Fondatore nel momento più aspro dello scontro di quest’ultimo con la Democrazia cristiana.

Il populismo di Lauro privilegia la personalizzazione e un rapporto diretto con la plebe fatto di promesse di emancipazione ed elargizioni di beni materiali. Mai amato dalla borghesia, che lo considera «un provinciale parvenu dai modi eccessivamente pittoreschi, quando non sguaiati»[5], l’armatore sorrentino punta immediatamente, non appena decide di entrare in politica[6], a diventare l’idolo dei ceti subalterni, in particolare di quel sottoproletariato che in lui vede il personaggio pervenuto al successo grazie esclusivamente alle proprie capacità e che, una volta toccato il vertice, non si è dimenticato della «sua» gente. Di questo rapporto privilegiato, il Comandante mena pubblico vanto e fa un punto di forza. Nell’autobiografia destinata a ravvivare il proprio culto in un momento in cui è al centro di dure polemiche e di una sconfessione da parte del governo, dopo aver esaltato «questa comunità di vita e di lotta con i semplici e gli umili, questo conoscere sino in fondo l’ansia, le aspirazioni e i bisogni della nostra gente» e aver ribadito che la sua battaglia – così la definisce – «è condotta nel nome e nell’interesse del popolo», non esita ad affermare, sicuro di non essere smentito: «I fedelissimi mi amano [...] umile gente mi invoca con gli appellativi più teneri; i potenti mi hanno in uggia»[7]. Lauro vuole essere percepito come un’assoluta novità nel panorama politico, un’anomalia positiva, distante anni luce dalla già poco amata figura del politico di professione. Inaugurando uno stereotipo di successo, si presenta come un imprenditore di esemplare capacità, il cui successo offre una garanzia di efficace amministrazione. Già nella prima campagna elettorale, il quotidiano «Roma», di cui è proprietario, per sostenerlo fa sfoggio degli argomenti tipici dell’antipolitica populista, reclamando meno ideologia, meno retorica, più concretezza e più efficienza e proclamando apertamente che quella dell’armatore è «una rivolta contro il professionismo politico degli incompetenti e delle mezze figure»[8] (ai quali però vengono, per il momento, contrapposti i tecnici e i competenti, in una chiara visione corporativa).

Una sostanziosa parte del programma anti-ideologico a cui Lauro si richiama si ispira sin quasi a ricalcarlo ai principi resi popolari dal qualunquismo. Quel che vi è in più è un acceso meridionalismo dai toni antiromani, declinato spesso sul registro della demagogia, che punta a eccitare il desiderio di rivalsa nei confronti del governo centrale di popolazioni che sin dai tempi dell’Unità d’Italia si sentono umiliate e abbandonate. Nei proclami del candidato che si propone di conquistare la poltrona di sindaco del capoluogo campano, scrive un altro dei suoi biografi, traspare «la volontà di dare voce alla sacrosanta richiesta della gente, che vuole instaurare un più contiguo rapporto con il potere, senza i lacci dei partiti»[9]. Le invettive antistataliste, il desiderio di riscatto enunciato dai palchi dei comizi, la promessa di conquistare il Nord per vendicare i torti subiti, non meno dell’oratoria colorita che evoca cuori in mano e braccia protese nella richiesta di un onesto lavoro[10] e non esita a ricorrere, per sottolineare con ancora più forza la sintonia psicologica e culturale con chi lo ascolta, ad alcuni toni volgari, al dialetto e agli strafalcioni, che ad avviso di taluni sono tutt’altro che spontanei[11], galvanizzano il sottoproletariato dei quartieri più degradati.

Anche l’imponente aspetto fisico e le leggende fiorite attorno alle sue ostentate prodezze amatorie, che suscitano una diffusa ammirazione, contribuiscono ad avvolgere Lauro in un’aura di eccezionalità che tuttavia non ne fa mai dimenticare l’affinità con quel popolo di cui egli cerca di continuo il conforto. Il suo carisma è intessuto dei risvolti di una biografia avventurosa, nella quale campeggiano le molte prove affrontate senza piegarsi alle avversità del momento, che lo fa apparire come un designato dal destino a imprese non comuni; ma le qualità di cui appare provvisto in misura eccezionale non sono quelle di un uomo del tutto fuori dell’ordinario; sono virtù teoricamente alla portata di chiunque sappia unire all’intelligenza spirito di iniziativa, disponibilità al sacrificio e tenacia. È difficile, anche in questo caso, non vedere in tutto ciò i tratti di un modello che più di un esponente di spicco del populismo italiano adotterà alcuni decenni più tardi.

Il Comandante è, agli occhi dei sostenitori, la negazione totale dell’invisa classe politica tradizionale: la rozza ma efficace concezione del marketing elettorale a cui ispira le sue campagne, distribuendo strette di mano, carezze ai bambini, ma soprattutto pacchi di pasta, zucchero, olio, scarpe spaiate e banconote da mille lire tagliate a metà, dono di cui viene promesso il completamento a elezione avvenuta, nonché scambiando polizze del banco dei pegni con denaro, non fa che rafforzare questa sensazione. E quando, nel 1952, riesce a farsi eleggere sindaco, forte del plebiscito personale che gli ha fatto ottenere 117.000 preferenze sui 157.000 voti raccolti dalla sua lista, la mentalità e i metodi che lo hanno ormai reso famoso in tutt’Italia non fanno che confermarsi.

Una volta insediatosi a Palazzo San Giacomo, Lauro dà pieno sfogo alla miscela di paternalismo e populismo che caratterizza la sua personalità. Nel discorso di insediamento non potrebbe essere più chiaro per esprimere il ruolo di buon amministratore di qualunquistica memoria che si prefigge: «Qui e fuori di qui noi non faremo politica»[12], dichiara, con parole piuttosto bizzarre sulla bocca di chi, sin dal 1948, si è ritagliato, grazie ai cospicui finanziamenti, un ruolo di primo piano in una formazione, il Partito nazionale monarchico (Pnm), nelle cui liste ha fatto eleggere deputati e senatori a lui personalmente legati, fra cui alcuni dei transfughi dell’Uomo qualunque che aveva convinto a sabotare i disegni di Giannini. E naturalmente, com’è d’obbligo per tutti i capi populisti, assicura di voler rimanere al posto che si è conquistato solo per tre mesi, onde riuscire a ottenere dal governo centrale la legge speciale per Napoli che risanerà le disastrate finanze cittadine, per poi tornare all’amato mestiere di armatore; anzi, di uomo di mare.

Il nuovo sindaco usa le feste popolari, che rilancia in grande stile finanziandone lo sfarzo, per ribadire il radicamento nelle tradizioni che infiammano la passione della gente comune. Ascolta la povera gente – disoccupati, senza tetto, sottoproletari – che viene a rendergli visita nel palazzo comunale per esporgli i propri casi pietosi, adottando il metodo che negli anni precedenti aveva fatto di Eva Perón l’idolo delle masse argentine, e in involontaria sintonia con i tribuni del popolo latinoamericani visita a piedi i quartieri degradati della città, per cercare, proprio come fanno loro, «di creare una comunità morale basata sull’identificazione di tutti con un politico che sintetizza e incarna un futuro migliore»[13], e di questa vicinanza ai diseredati è orgoglioso, ricordando di aver «avuto l’onore di conoscere ogni tugurio di Napoli, tutte le necessità di Napoli, i suoi dolori e le sue miserie»[14]. All’ostentato plebeismo dalle forti connotazioni antielitiste – che peraltro non gli impedisce di mostrare il suo lato di gran signore nelle occasioni mondane –, in cui è evidente l’empatia nei confronti dei meno abbienti, affianca i segnali di quell’efficienza che la sua visione ipersemplificata della politica ha promesso agli elettori. Sfida le pastoie burocratiche facendo costruire opere pubbliche di tasca propria; incarica i collaboratori che amministrano la sua flotta mercantile di trovare un posto nell’azienda ai disoccupati che versano nelle peggiori condizioni; fa costruire, sempre a spese della sua impresa, case popolari; accoglie ragazzi poveri in quella che è stata la sua villa, destinata a opere assistenziali; va di persona a controllare come vengono effettuati i lavori stradali. Inoltre, il modo di parlare incolto e franco gli facilita il colloquio con la folla, di fronte alla quale rivendica la consistenza del patrimonio di cui dispone per sottrarsi alle accuse di malgoverno e di corruzione che gli avversari non tardano a indirizzargli: «Sono un uomo che non ha rubato niente, che ha sempre lavorato, che ha dato ai poveri» è una delle sue affermazioni più ricorrenti[15].

La fede monarchica, pur ribadita in ogni discorso pubblico e utile a garantirgli i consensi di strati sociali che hanno tenacemente conservato una posizione legittimista dopo il referendum istituzionale a seguito del quale Umberto II è dovuto partire per l’esilio, non è certamente l’attributo fondamentale per spiegare la popolarità di Lauro, che si fa forza della sua personalità, del suo stile e dei contenuti antipolitici del suo messaggio. Questi ultimi non sono né nascosti né messi in sordina. Combattuto dalla burocrazia ministeriale, il Comandante non si fa scrupolo di scavalcare norme e vincoli amministrativi pur di varare i provvedimenti che ritiene necessari. Verso le istituzioni mostra un disinteresse che sfiora il disprezzo: «nell’aula consiliare si annoia a morte, sbadiglia, dà del “fetente” a chi lo contraddice e talvolta abbandona le sedute dichiarando platealmente dov’è diretto [...] si atteggia a dittatore legibus solutus, toccato dalla Grazia e inviato dalla Provvidenza [...] è sicuro di sé, presuntuoso, prepotente, fortunato, carismatico, infallibile»[16]. Il fastidio per le tecniche e le procedure della democrazia emerge di continuo nella sua azione: in consiglio comunale fa in modo che si giunga con la massima rapidità al voto, forzando le prerogative dell’organo, «per non perdere tempo in chiacchiere», insulta gli avversari, che fa intimidire durante le sedute dalla sua folta e vociante schiera di sostenitori, arriva persino a grattarsi vistosamente i genitali durante i lavori del consesso cittadino[17]; «non conosce, e si compiace di dimostrarlo a ogni occasione, alcuna regola di galateo»[18].

La povera gente di cui si sente e si proclama paladino non è affatto scandalizzata per questo tipo di comportamenti. Anzi: le notizie sulle sue continue infrazioni ai canoni della buona educazione borghese, che debordano nella trivialità – non si trattiene, ad esempio, dall’orinare in pubblico al cospetto degli ospiti delle feste che organizza – non fanno che accrescerne la popolarità. Attratto anche dalla miscela di paternalismo, assistenzialismo e clientelismo che caratterizza la sua amministrazione, il popolino, che lo ritiene – malgrado la ricchezza – uno comme a nuie[19], lo ripaga con il proprio consenso, una buona parte del ceto medio anche. Pur non superando di molto i limiti del capoluogo campano, la sua capacità di attrazione acquista dimensioni plebiscitarie, al punto di vederlo riconfermato sindaco nel 1956 con la percentuale record del 51,8% raccolta dal Partito monarchico popolare (Pmp); dei 276.599 voti di lista, ben 241.974 sono accompagnati dalla preferenza per la sua persona.

L’entità dell’affermazione autorizza sogni di espansione di quello che ormai la stampa definisce, con un neologismo che lascia del tutto ai margini il riferimento alla causa monarchica, «il laurismo». Anche se, come ogni leader populista che si rispetti, è riluttante a impegnarsi più ampiamente in una politica della quale non ama le abitudini, il gergo e le regole, e non ha la benché minima intenzione di abbandonare il timone della sua flotta, Lauro inizia a coltivare nuove ambizioni, maggiori di quelle che lo avevano indotto a entrare nel Pnm e ad assumerne in parte il controllo. Lo fa con i modi del «dilettante antisistema»[20], che precorrono con una somiglianza a tratti impressionante lo stile che si affermerà nella politica italiana degli anni Novanta. Già si era assicurato la disponibilità di una formazione politica tutta sua, creando per via di scissione il Pmp – e aveva sottolineato l’importanza che assegnava all’aggettivo cui si riferisce la seconda «p» della sigla, cioè «popolare». Adesso punta ancor più decisamente sulla figura di imprenditore affermato. Presenta un’istanza al ministero delle Poste perché gli permetta di installare una rete televisiva privata grazie alla quale raggiungere, attraverso la sua immagine proiettata sul teleschermo, gli elettori dell’intero Sud Italia, anticipando le forme più moderne del populismo mediatico[21]. In Sicilia fa celebrare dai cantastorie la sua epopea. Spedisce via nave in Sardegna, dove stanno per svolgersi le elezioni regionali che vuole trasformare in un test della popolarità raggiunta, una carovana di automobili cariche di televisori da installare nei bar dei piccoli paesi (e da ritirare a votazioni avvenute), di gadget e di manifesti con il suo volto e il suo nome. Mira a ottenere consensi anche a sinistra e grazie alla campagna all’americana che ha inscenato in parte ci riesce, facendo conquistare posizioni al Pmp anche in zone di forte insediamento comunista. Ma questo successo extra moenia innalza il livello di allarme degli avversari, primi fra tutti i democristiani, che mettono in opera adeguate misure di contenimento. Un’ispezione ministeriale riscontra gravi irregolarità nella gestione del comune e ne destituisce sindaco e giunta.

Le accuse rivolte a Lauro sono, per lui, tutt’altro che infamanti: aver promosso la somministrazione gratuita di medicinali ai poveri in uno spaccio municipale, aver effettuato erogazioni assistenziali secondo criteri del tutto arbitrari, aver deciso un’abnorme quantità di assunzioni di dipendenti comunali; avere, insomma, confuso con una concezione patrimoniale della cosa pubblica amministrazione dell’ente locale e gestione personale. Per un uomo che non ha esitato a pagare di tasca propria gli spazzini entrati in sciopero, ovviando alla mancanza dei fondi stanziati per i loro stipendi, sono rilievi incomprensibili, a cui replica denunciando «l’aperto dispregio della volontà popolare democraticamente espressa» e richiamandosi al «responso delle urne» che gli ha concesso, come in una sorta di «giudizio di Dio», la maggioranza assoluta e perciò una legittimazione ad agire secondo coscienza a profitto del popolo napoletano. Sono argomenti che possono convincere il suo elettorato, ma che non servono a bloccare il corso dei provvedimenti governativi. La controffensiva di quella politica romana che ha sempre avversato suona come un monito efficace e fa capire a Lauro che, per continuare a poter coltivare la base di consenso napoletana, deve rinunciare alle potenzialità di espansione del suo partito in altre zone del Sud. Adeguandosi alle circostanze, e continuando a vantare l’estrazione popolare, le «mani pulite» e la «dedizione al lavoro socialmente utile»[22] che lo caratterizzano, il Comandante riesce a rimanere ancora a galla nel suo feudo per qualche anno. Il suo modello non può però diventare merce di esportazione.

Pur con questo limite, l’esperienza del laurismo costituisce una tappa significativa della presenza populista nella politica italiana. C’è chi interpreta questa avventura con criteri più ampi, ritenendo che possa essere inquadrata come un episodio di cesarismo di un imprenditore politico carismatico «sacralizzato dal plebiscito popolare» di «folle acclamanti»[23], ma le ragioni per dubitare di una lettura così estensiva sono molte. Ed è lo stesso autore di questa classificazione a fornirle, quando nei suoi studi, individuando dietro i comportamenti di Lauro «un’ideologia a carattere anti-ideologico», parla in sequenza di un «suo populismo accattivante», di una «miscela di populismo e di cesarismo a sfondo antipolitico», della pretesa di «dar voce direttamente al popolo sovrano» e persino di un «populismo affaristico» e di un «progetto populista di modernizzazione della città»[24]. Un numero di ammissioni decisamente troppo ampio, ci pare, per consentire a chi le formula di non «essere completamente d’accordo con coloro i quali lo collocano [il fenomeno laurino] all’interno della categoria di populismo»[25]. Viceversa, partendo dal fatto che, anche ad avviso dei critici, nel laurismo si manifesta «un’ideologia “debole”, che [...] si proclama apertamente anticomunista e populista», nel cui nucleo centrale si situano la denuncia della partitocrazia e «gli appelli alla forza rigenerante al mito del popolo»[26] e un’immagine delle masse meridionali come un vero e proprio popolo provvisto di un comune sottofondo culturale, sfruttato sin dall’Unità d’Italia dal «centro» romano, che l’azione salvifica del Comandante avrebbe dovuto riportare agli antichi fasti – e nel contempo proiettare verso una compiuta modernità –, e tenuto conto che lo stesso Pmp appare retrospettivamente come un «partito personale di stampo populista, a immagine e somiglianza del fondatore»[27], è lecito ritenere l’esperienza laurina come la seconda compiuta manifestazione della mentalità populista nella politica italiana del dopoguerra.