Se la diffusione dei temi populisti nella società italiana è il frutto di un lento e lungo processo di logoramento della democrazia rappresentativa, che trova il suo punto di svolta nella fine del bipolarismo internazionale e interno e si completa con l’emersione dello scandalo di Tangentopoli, la loro traduzione in efficaci strumenti di competizione politica è opera soprattutto di un attore, la Lega Nord, che nel 1989 unifica e coordina l’azione di una serie di formazioni autonomiste locali sviluppatesi negli anni precedenti nelle regioni settentrionali, specialmente in Veneto e in Lombardia[1], portandole a svolgere un ruolo di protagoniste della fase di transizione che muta il volto del sistema politico italiano.
Nelle motivazioni che ne determinano la nascita, nelle forme di espressione, nello stile di azione, nelle caratteristiche della leadership e dell’organizzazione, nei temi valorizzati per attrarre consensi, così come nelle strategie adottate nei vari periodi dell’evoluzione che lo ha portato a essere, da gruppuscolo marginale quale era in origine, prima movimento di opposizione e poi partito di governo in tre diversi periodi, il leghismo appare come un’incarnazione quasi idealtipica del populismo[2], di cui offre la prima manifestazione di massa in Italia dai tempi del qualunquismo (il laurismo era rimasto confinato in limiti geografici piuttosto angusti), ma con una ben maggiore stabilità. Nasce per iniziativa di alcuni outsider che si sono tenuti sempre ai margini delle manifestazioni convenzionali della politica e che, nella maggior parte dei casi, sono stati spinti a entrarvi dal desiderio di affermare valori che ritenevano radicati nella memoria storica collettiva e tuttavia trascurati, o derisi, dalla classe dirigente. Franco Rocchetta e Achille Tramarin, fondatori della Liga veneta, che nel 1983 è il primo movimento autonomista, al di fuori delle aree altoatesina e valdostana, a inviare propri rappresentanti in parlamento, provengono dalla Società filologica veneta, un’associazione culturale che si propone di ripristinare la lingua e le tradizioni presenti in Veneto prima dell’unificazione della regione all’Italia; Umberto Bossi, il demiurgo della Lega lombarda che assicurerà il definitivo successo delle leghe, si diletta di poesia dialettale varesina e sente la vera vocazione all’impegno politico, dopo qualche sporadico interessamento ad alcune campagne del Pci, quando incontra per caso uno dei padri dell’autonomismo, il valdostano Bruno Salvadori. Gipo Farassino, che è uno degli animatori delle frammentate leghe piemontesi, è un musicista che compone ed esegue ballate popolari dialettali. La provenienza politica della classe dirigente del movimento è insolitamente variegata, come testimoniano i più o meno brevi trascorsi di molti dei suoi esponenti più significativi, sparsi lungo un arco che va dalla sinistra comunista (Farassino, Bossi) o ultracomunista (Roberto Maroni, Roberto Gremmo) all’estrema destra (Mario Borghezio, Rocchetta, poi Fabrizio Comencini) passando per il Partito socialista (Marco Formentini) o per la Democrazia cristiana (Gianfranco Miglio, figura eccentrica ed esterna alla cerchia dei fondatori ma molto influente sino al 1994). In comune, tutti questi personaggi hanno però una collocazione marginale nei partiti o movimenti a cui hanno appartenuto, spesso su posizioni di dissenso interno.
Ancor più della valorizzazione di un ceto politico estraneo alla filiazione partitica, il grande elemento di novità che il leghismo innesta nella competizione politica è il riferimento a due linee di frattura che, nella storia recente dell’Italia, sembravano aver ormai esaurito ogni effetto di coinvolgimento della pubblica opinione: il conflitto tra centro e periferia, ovvero tra stato centralizzato e contesti locali, e quello tra città e campagna, ovvero – nella versione adattata alle esigenze dell’attualità – tra le metropoli e le aree suburbane ed extraurbane. Liquidato da molti in un primo momento come un anacronistico rigurgito di localismo, il discorso leghista punta in realtà a coordinare e fondere le affinità e le idiosincrasie che queste due fratture hanno fatto sedimentare nella mentalità di ampi strati di popolazione del Settentrione, facendo leva sul richiamo alla comunanza degli interessi economici degli abitanti delle regioni industrialmente più avanzate della penisola e, in parallelo, sulla fondazione di una tradizione culturale che consenta a quegli abitanti di sentirsi nel contempo simili fra loro e diversi dal resto dei cittadini italiani.
Pur dando l’impressione, soprattutto nei primi anni, di contrapporre ai richiami di tutte le vecchie ideologie un pragmatismo disinvolto e a tratti spregiudicato, la Lega non ha trascurato mai di prestare le dovute attenzioni alla formazione della propria identità. Lo ha fatto partendo dal legame con il territorio e andando alla ricerca retrospettiva di una lingua e di tradizioni comuni che potessero fungere da catalizzatori di un’appartenenza prima nordista e poi padana, che in realtà vorrebbe avere i caratteri di una vera e propria identità nazionale[3]. Così agendo, il movimento ha scavalcato entrambe le discriminanti attorno alle quali si è articolato il sistema partitico italiano prima e dopo la parentesi fascista: la contrapposizione di classe, che ha fatto le fortune del Pci e per converso ha fornito alle formazioni che si sono proposte di rassicurare i ceti borghesi il grosso dei consensi, e la pregiudiziale religiosa, servita soprattutto alla Dc per tenere insieme un seguito che presentava scarsa omogeneità ideologica e sociale.
All’inizio, il leghismo si presenta nella forma di un movimento etnoregionalista che enfatizza la specificità storica, culturale e antropologica delle proprie zone di insediamento, facendo dell’ambito locale un forte referente di identità e nel contempo un luogo di riconoscimento di interessi antagonistici rispetto a quelli dei non nativi. L’appartenenza alla comunità popolare, nell’ottica di questa prima fase, è determinata dalla nascita e dal mantenimento delle tradizioni ereditate; di conseguenza, l’obiettivo proclamato dalle prime leghe è l’autodeterminazione delle rispettive regioni, volta al rafforzamento della posizione socioeconomica della popolazione autoctona attraverso riserve di posti negli impieghi pubblici e priorità di assunzioni nel settore privato. Ma già si intuisce che in questi gruppi vi è una differenza significativa rispetto ai tradizionali partiti a base etnica che hanno conosciuto un revival in Europa negli anni Settanta. Tutte le leghe accentuano infatti la critica verso le istituzioni e la società politica, non solo perché queste fanno da ostacolo alle rivendicazioni di autonomia culturale di alcune minoritarie avanguardie, ma anche e soprattutto perché colpiscono l’intera popolazione locale nei suoi interessi concreti, favorendo con misure assistenzialistiche dettate dal clientelismo il Sud improduttivo ai danni del Nord sviluppato e tartassato dal fisco. Gli interventi in dialetto svolti dai primi rappresentanti leghisti eletti nei consigli comunali o provinciali non sono pure manifestazioni di culto del folclore: il loro obiettivo primario è attirare l’attenzione sulla colonizzazione culturale e amministrativa delle regioni settentrionali. È al risveglio della sovranità popolare conculcata dalle élite centralizzatrici che la Liga veneta, la Lega autonomista lombarda e l’Union piemontèisa guardano quando, nei loro programmi, affermano il diritto all’autonomia di tutti i popoli e insistono sul ruolo positivo delle piccole comunità, rivendicando il decentramento politico e il ricorso al referendum e ad altri strumenti di espressione diretta dei cittadini contro la democrazia di massa omologante e livellatrice delle specificità culturali[4]. Il nucleo populista delle convinzioni che animano il leghismo è dunque già presente nella fase eroica delle origini.
Già allo stato nascente, i piccoli gruppi che compongono l’arcipelago dell’autonomismo regionalista mostrano un evidente desiderio di conquistare i favori degli impolitici, di coloro che provano diffidenza verso tutto ciò che sa di potere, di istituzioni, di ufficialità burocratica, e sperano di poter dare il via a un cambiamento radicale della natura stessa della politica. Il messaggio espresso nei primi manifesti e documenti leghisti è sintetico, essenziale e rivolto all’uomo della strada; fa appello all’identità locale come base per la ricostruzione di comunità omogenee, solide e sicure, dove non esistano discriminazioni di classe e il riconoscimento di alcuni interessi (e valori) comuni a tutti coloro che ne fanno parte sia chiaro e indiscusso. La proposta di autorizzare l’uso dei dialetti, cioè delle lingue che il popolo usa come veicolo di comunicazione quotidiana, in tutte le sedi istituzionali, dagli uffici della pubblica amministrazione alle aule dei consigli comunali, provinciali o regionali, mira a sottolineare la necessità di ripristinare e tutelare un legame che assicura la solidarietà fra la gente comune e nel contempo la allontana dal paese legale.
Quando questa pretesa dal sapore anacronistico viene abbandonata per la scarsa presa che ha al di fuori di un piccolo nucleo di fedelissimi, il tentativo di ricreare una coscienza popolare unitaria nelle regioni del Nord Italia trova altri strumenti. Messa fra parentesi la connotazione etnica dell’appartenenza locale, si delinea il progetto di un federalismo integrale che ha come orizzonte la costruzione di un’Europa dei popoli[5]. Facendo leva sulla richiesta di autonomia territoriale, le leghe si propongono di risvegliare l’attenzione del pubblico su temi da sempre marginali nelle preoccupazioni dei movimenti regionalisti: l’insoddisfazione per il cattivo funzionamento delle istituzioni e per la crescente insicurezza, il disagio dinanzi all’inefficienza dei servizi pubblici. Il radicamento nel territorio periferico si trasforma in un segno di antagonismo al sistema. La protesta contro la politica romana e l’elogio della laboriosità del virtuoso popolo produttore del Nord, contrapposta all’oziosità del Sud parassita, esprimono la consueta ostilità populista verso il sistema dei partiti e dei privilegi burocratici[6]. In questa fase l’appello al popolo è comunque inteso, più che come una rivendicazione di legittimità alternativa a quella del paese legale, come un’esaltazione della maggioranza silenziosa della popolazione, troppo impegnata nel lavoro per sporcarsi le mani in prima persona con la politica, alla quale si richiede la concessione di un’ampia delega rappresentativa.
Puntando sull’egoismo localistico, sulla promessa di una progressiva liberalizzazione delle attività imprenditoriali, sulla critica del welfare e del potere sindacale, e proponendo la regionalizzazione del sistema pensionistico e previdenziale, la sostituzione delle tasse centrali con tasse locali, l’aumento delle capacità impositive degli enti locali, la privatizzazione di tutte le imprese ancora sotto il controllo diretto o indiretto dello stato, si cerca di tenere insieme liberismo e populismo, in un mix destinato a incontrare umori diffusi nel ceto medio. In questa fase, nella propaganda leghista spicca la sottolineatura della comunità di interessi fra le popolazioni delle regioni settentrionali, e la simpatia verso le idee neoliberali in economia si accompagna all’ostilità verso tutte le forme di monopolio: lo sbandierato favore per i «piccoli», in questo caso i proprietari delle fabbriche di dimensioni familiari, non può che avere il suo corrispettivo nelle accuse ai «grossi» di voler strangolare il tessuto produttivo disperso sul territorio attraverso le concentrazioni, le fusioni e le manovre finanziarie.
Ponendosi sul terreno delle rivendicazioni riformiste e professando idee liberiste, la Lega punta ad accrescere il proprio bacino di consenso, ma sa anche di esporsi a possibili concorrenze, in un contesto in cui la moda della Reaganomics è ancora attuale. Per questo, anche se inizialmente lascia supporre di accettare la globalizzazione degli scambi commerciali, che apre nuovi mercati alla piccola e media industria di qualità, non fa mistero della netta contrarietà all’omogeneizzazione culturale che questo fenomeno sin dalle sue prime manifestazioni minaccia di propagare. È una posizione ambigua, che rende più che mai indispensabile tenere vivi al suo interno i connotati che ne rendono evidente la diversità, così da demarcare con chiarezza i contorni del suo progetto rivoluzionario a lungo termine, destinato a tenere vive la fiducia e la dedizione dei militanti al di là di qualunque compromesso tattico e a giustificare tutte le correzioni di rotta che si renderanno di volta in volte necessarie[7]. Questa funzione è affidata a un’intensa opera di produzione simbolica che comprende una pluralità di strumenti, dai periodici raduni di massa sul prato di Pontida (che la Lega finirà con l’acquistare grazie anche a una sottoscrizione fra i militanti e i simpatizzanti, per evitare il rischio di essere espropriata del luogo di culto dove la sua identità viene coralmente sacralizzata e rinnovata) all’uso delle uniformi di colore «verde padano», dalle pubblicazioni ai gadget più disparati[8], dai plebisciti tenuti sotto i gazebo all’adozione di una toponomastica vernacolare che, nei comuni amministrati da sindaci leghisti, sovrappone al nome italiano della località quello dialettale. Anche nel periodo di maggiore impegno all’interno delle istituzioni, il movimento non rinuncia a questo canale di espressione e di formazione della sua identità; anzi, ne intensifica l’uso adattandolo alle circostanze, come quando, nel 1990, impegna con un pubblico giuramento a Pontida i consiglieri eletti nelle sue liste a vincolarsi senza riserve alle direttive del movimento o, quattro anni dopo, chiede alla folla dei simpatizzanti convenuta nello stesso luogo la formale (e scontata) autorizzazione a stringere il patto elettorale con Forza Italia.
In ogni fase della vita della Lega, il ricorso all’identità popolana è ribadito dalle parole d’ordine che sottolineano l’avversione allo stato sfruttatore, con toni a volte vittimistici («Somaro lombardo, paga [le tasse] e taci») e a volte tracotanti («Roma ladrona, la Lega non perdona»), dai simboli che risvegliano l’orgoglio per il glorioso passato comune delle popolazioni alle quali si rivolge (il Leone di San Marco, emblema della Serenissima Repubblica veneta all’epoca del suo massimo fulgore; l’Alberto da Giussano che incarna la rivolta dei comuni lombardi contro l’imperatore straniero) e soprattutto da un linguaggio originale ed esclusivo, che in breve tempo si trasforma in un vero e proprio marchio di fabbrica.
Il linguaggio è lo strumento essenziale per l’affermazione della specificità leghista, così come lo era stato oltre quarant’anni prima per il qualunquismo. È il cardine della formula vincente che il movimento adotta alla fine degli anni Ottanta, il populismo regionalista[9]. Gli consente di gettare le basi di un ampio consenso nella società del Nord Italia, fa sì che le sue teorie appaiano a molti di coloro ai quali vengono proposte come evidenze dettate dal senso comune e rende più netta la frattura con la classe politica, arroccata intorno alla sua langue de bois – il politichese preso a bersaglio dalla satira giornalistica e televisiva –, indecifrabile dai non addetti ai lavori. Attingere al modo di pensare della gente ordinaria e dire le cose nello stesso modo in cui quella gente le direbbe nelle conversazioni in famiglia, amplificandole senza snaturarle, si rivela subito una tattica di successo, l’unica che può dare a persone diverse per condizione sociale, educazione, abitudini e tradizioni culturali, la sensazione o l’illusione di appartenere a un unico aggregato nazionale se non addirittura etnico: il popolo lombardo, veneto o piemontese che viene esaltato dalla propaganda leghista nei primi anni di attività del movimento e sarà in seguito trasformato dalle esigenze strategiche, diventando prima il popolo del Nord e poi il popolo padano. Usando espressioni sarcastiche dirette, rozze, non di rado violente nei toni polemici, la Lega infrange i codici simbolici ai quali gli elettori sono stati abituati dalle forze politiche tradizionali, supera la barriera delle ideologie e rende più credibile l’appello a ritornare a tradizioni comunitarie genuine, a staccare lo sguardo dai grandi orizzonti planetari evocati da politici e media per fissarlo sulle necessità primarie legate al territorio, alla famiglia, al lavoro.
Se il gergo dei politici è sinonimo di ipocrisia e di divisione e quello dei burocrati dà un’impressione di astrattezza e di distanza dai problemi reali della vita quotidiana, il linguaggio usato dagli esponenti leghisti è quello del senso comune, che indulge alla volgarità ma che a livello popolare è parlato un po’ ovunque: in casa, al bar, in strada con gli amici. È la lingua che unisce agli altri, omogeneizza e permette di comunicare con franchezza su un piano di uguaglianza al di là della diversa professione che si esercita o della condizione economica in cui ci si trova[10]. Ed è soprattutto la lingua in cui si esprime la comunicazione di transito, quella «comunicazione semplificata che si svolge di norma nei luoghi di cui è punteggiata la mobilità territoriale dei soggetti[: a]utobus, bar, uffici pubblici [...] una comunicazione semplificata, basata sui luoghi comuni o su cronache di vita quotidiana, ma non per questo priva di senso ai fini della definizione dei riferimenti simbolici necessari a orientare il soggetto»[11]. Il fatto che a parlare questa lingua nelle occasioni pubbliche sia stato soprattutto Umberto Bossi, l’uomo nel quale il movimento si è a lungo impersonato, è una prova evidente della disponibilità del leader a essere aperto al rapporto diretto con il popolo.
Come Bossi non si è mai stancato di ripetere in ogni occasione, la Lega non è soltanto popolare, ma anche e soprattutto popolana; nasce dal popolo e ne vuole interpretare le domande adottandone lo stile, anche a costo di risultare sgradita ai ceti colti e di attirarne la derisione. Come sostiene uno degli analisti di lunga data del fenomeno, «il populismo della Lega si è basato sul rovesciamento di una serie di elementi di disvalore con cui vengono connotati settori popolari in elementi di valore. Il modo di parlare, di vestire, di atteggiarsi di Bossi si presentava al tempo stesso come garanzia di autenticità e di autovalorizzazione di uno stile di vita popolare»[12]. Persino una canottiera, esibita nel corso di un soggiorno in Sardegna nella villa di Berlusconi, serve a dare il senso della distanza dall’alleato del momento, è lo sberleffo dell’uomo del popolo nei confronti dell’arricchito con cui è costretto a percorrere un tratto di strada (che sarà ben più lungo del previsto). Ha scritto a ragione uno dei tanti giornalisti che si sono interessati al capo storico leghista: «Quale abito indossa Umberto Bossi? Quello dell’everyman, dell’uomo qualsiasi, o qualunque. Un abito che funziona perché è un costume indossato da tutti, comune, collettivo. Con un aggettivo possiamo dire: popolare»[13]. E al popolo, ha detto Bossi, «bisogna parlare in maniera molto chiara e semplice» per farsi capire. Per quanto nascano nella maggior parte dei casi da un retroterra di genuino attaccamento ai modi di vita popolari, c’è poco, se non nulla, di casuale nelle esagerazioni, nelle grossolanità, nell’aggressività che costellano i discorsi degli oratori leghisti, molto più preoccupati di apparire ogni volta convinti e convincenti che di dimostrarsi coerenti; la reazione all’intellettualizzazione della politica è parte integrante della loro retorica. Parlare senza peli sulla lingua e non frequentare i salotti sono due dei meriti che essi vantano più di frequente; il posto dei leghisti è nei luoghi nei quali si svolge la vita della gente qualunque: il bar, la bottega del barbiere, il circolo sportivo, lo stadio, la piazza dove la domenica ci si ferma a chiacchierare con gli amici. Essere descritti come i nuovi barbari non fa paura ai leghisti; al contrario, rafforza l’immagine di estraneità ai giochi del Palazzo che essi si sforzano di accreditare. Ciò che semmai temono ed esorcizzano di continuo è il rischio di apparire omologati alla classe politica contro la quale combattono.
La scelta di un registro linguistico popolano, del resto, è intrinseca alla natura di un movimento che si presenta come il paladino del popolo che lavora contro i partiti, il Palazzo, i parassiti di ogni risma. Ed è funzionale ai temi che il movimento tratta sin dall’inizio nella sua propaganda – il rifiuto della mediazione intellettuale, politica e culturale, la diffidenza verso ogni forma di rappresentanza, la rivendicazione di autonomia delle comunità locali[14] – tanto quanto alla possibilità di modificarli, a volte repentinamente, a seconda delle scelte strategiche e tattiche che ne caratterizzano le diverse fasi di sviluppo[15].