2. Un populismo dai molti volti

L’adattabilità a situazioni politiche molto diverse nell’arco di una ormai lunga vita è una delle caratteristiche più notate e discusse del leghismo, ed è stata spesso considerata il segno di un assoluto pragmatismo reso possibile dalla mancanza di valori di riferimento. Molto più realisticamente, la si può considerare come il riflesso di una cultura politica fondata su una mentalità, solida nel suo nucleo costitutivo ma flessibile nelle applicazioni, e non su un’ideologia rigida e vincolante; e questa mentalità, a un esame accurato di tutte le posizioni successivamente adottate dal movimento, coincide con quella del populismo[16].

Dal punto di vista dell’elaborazione programmatica e delle scelte strategiche, nel corso degli anni la Lega ha certamente compiuto un’ampia serie di cambiamenti di rotta, rispondendo più all’emergere di nuove opportunità che alla sollecitazione di orientamenti di valore. Soltanto alcuni dei temi che l’avevano caratterizzata all’origine sono stati però abbandonati; la maggior parte di essi è stata riformulata a seconda delle circostanze, coniugandosi di volta in volta con gli umori di quei settori dell’opinione pubblica a cui la Lega guardava con maggiore interesse. La scelta dei temi attorno a cui svolgere campagne di opinione ha privilegiato questioni trascurate dai concorrenti e che difficilmente si prestavano a essere recuperate da costoro. Anche quando si è avventurata in campi dove avrebbe potuto imbattersi in contiguità non gradite, la Lega si è comunque premurata di differenziarsi in modo tale da rendere le sue richieste non negoziabili – prima fra tutte l’autonomia del Nord Italia, poi trasmutato in Padania – un segno distintivo inequivocabile.

E diversa dagli altri partiti la Lega effettivamente lo è. Pur avendo puntato sin dall’inizio a entrare in parlamento e negli enti locali, essa si propone come strumento di espressione di una volontà popolare che non può né sa esprimersi unicamente in forme razionali, attraverso procedure formali, e cerca canali di manifestazione collocati al di fuori del contesto istituzionale, che valorizzino l’emotività e l’affettività. Come molte altre formazioni della stessa famiglia, «utilizz[a] tutte le opportunità offerte dal canale elettorale-rappresentativo» ma si muove «con i criteri di un movimento di protesta della società civile»[17] e offre ai potenziali sostenitori una «terra patria» che può essere declinata, a seconda delle preferenze, in tre versioni diverse: come semplice aggregato di popolazioni regionali, come comunità etnica radicata in tratti culturali e psicologici condivisi, come comunità civica che ha per fondamento interessi convergenti[18]. Nella «singolare combinazione di ribellismo, “nuovismo”, intolleranza e tradizionalismo»[19] che le è propria, c’è spazio sia per chi è mosso da concreti moventi materiali, sia per chi vuol dare sfogo a pulsioni emotive.

La natura carismatica del movimento risponde alla perfezione a questa esigenza di flessibilità. Malgrado alcune somiglianze di facciata, fra cui un complesso apparato organizzativo che comprende segreterie regionali e provinciali, 1.400 sezioni territoriali, oltre 150.000 iscritti[20], un sindacato, associazioni parallele, un’agenzia di stampa, il quotidiano «La Padania»[21], decine di pubblicazioni locali, uno staff di funzionari e impiegati e per qualche anno persino una struttura di consulenza tecnica per i parlamentari, la Lega non può infatti essere inclusa fra i partiti burocratici di massa. Non ha posseduto infatti, perlomeno durante il lungo regno di Bossi, un’effettiva direzione collegiale; suddivide gli iscritti in livelli gerarchicamente distinti; ne limita il reclutamento per evitare infiltrazioni ma soprattutto per impedire la formazione di gruppi dissidenti organizzati; a dispetto di talune esibizioni muscolari della sua retorica, che ha minacciato a più riprese mobilitazioni di piazza e iniziative referendarie, non punta su una partecipazione militante continua e capillare dei seguaci, preferendo stimolarne l’identificazione psicologica attraverso alcune fondamentali parole chiave. Per questo motivo essa assegna una grande importanza alla comunicazione – il ricorso a uno stile argomentativo immediato e informale, intessuto di esagerazioni e paradossi, viene esibito come forma di rifiuto delle convenzioni della politica professionale – ma anche e soprattutto alla funzione svolta dal leader.

La Lega, come la maggioranza delle formazioni populiste, ha incarnato per quasi tutto il corso della sua esistenza il tipo puro di partito del leader sia nella pratica sia nelle formulazioni dei suoi statuti: basti dire che il segretario federale gode della facoltà di sospendere temporaneamente qualsiasi carica interna, in ogni momento in cui lo ritenga opportuno, e che le sue decisioni in tal senso restano in vigore sino alla convocazione della successiva riunione del Consiglio federale, organo direttivo del movimento la cui funzione è peraltro rimasta quasi sempre sulla carta nell’epoca bossiana. La logica carismatica è consustanziale al leghismo e si esprime, oltre che nel ruolo assegnato ai rituali e alla comunicazione simbolica, in una mistica dei padri fondatori che è sopravvissuta alle necessità di istituzionalizzazione, a numerose scissioni e all’integrazione nella Lega Nord delle strutture delle leghe regionali originarie. Il ruolo anomalo riservato ai soci fondatori, in realtà in gran parte cooptati in momenti successivi alla nascita del movimento per rafforzare l’omogeneità della classe dirigente e costantemente ridotti nel numero dalle espulsioni che colpiscono chiunque dissenta dalle scelte del capo, è stato il segno del carattere personale che ha contrassegnato i legami fra Bossi e i seguaci e, sebbene sia stato ridimensionato dalla segreteria Maroni, non è del tutto scomparso. L’obbligo di lealtà diretta verso il segretario e il conferimento di legittimità ad personam sino ad epoca recente sono stati ribaditi anche pubblicamente, in forma liturgica, tramite la cerimonia del periodico giuramento di Pontida, che è servito a raccogliere attorno al leader la massa dei discepoli. L’informalità di fatto delle gerarchie intermedie, protrattasi sino al sofferto passaggio delle consegne prima a Maroni e poi a Salvini, l’incertezza delle forme di finanziamento almeno sino a quando i contributi statali non hanno migliorato la situazione, la dipendenza delle possibilità di carriera dei militanti e dei dirigenti dal rapporto di fiducia personale con il capo sono altri caratteri carismatici che hanno accompagnato la Lega dagli inizi sino al congresso della svolta del luglio 2012[22].

I successi elettorali degli anni Novanta e la compromissione con il mondo della politica romana nelle varie esperienze di governo, nel 1994, dal 2001 al 2006 e dal 2008 al 2011, hanno modificato soltanto in piccola parte questo quadro. Nell’immaginario dei militanti e di gran parte dei sostenitori esterni, Bossi è rimasto sino alla forzata estromissione dalla carica di segretario – o forse sino allo scandalo familiare che l’ha determinata – non solo la guida indiscussa sul piano della prassi, ma anche colui che ha fondato il movimento, ne ha elaborato le mete ideologiche, ne ha stabilito la dottrina e ha saputo tradurla in una linea di azione politica efficace. Il suo carisma è dunque apparso come quello del «creatore e predicatore»[23] che indica di volta in volta le nuove mete e l’itinerario per raggiungerle, non come quello della figura sacerdotale che interpreta le tavole di una Legge che gli preesiste.

Che questa permanenza del carisma nella figura del leader (anche se il concetto a tutt’oggi è applicabile esclusivamente a Bossi, non essendosi la dote in questione trasmessa a Maroni né, almeno per il momento, a Salvini, nel primo caso per il profilo non adeguato del soggetto, nel secondo per la sua ancora incompiuta maturazione nel ruolo assunto e per la concorrenza che un’altra figura di primo piano del movimento, il sindaco di Verona Flavio Tosi, continua a esercitare) abbia anche ragioni funzionali ben identificabili, prima fra tutte la necessità di tenere legato a un’unica linea strategica un partito-movimento piuttosto eterogeneo sotto il profilo della cultura politica degli aderenti, è indiscutibile. Questo aspetto parzialmente strumentale non ne attenua tuttavia l’efficacia pratica, soprattutto da quando la crescita di un forte ceto di semiprofessionisti politici (parlamentari, sindaci, assessori, consiglieri degli enti locali) ha aumentato i rischi di frazionismo interno e accresciuto gli appetiti carrieristici. L’equazione «Bossi è la Lega, la Lega è Bossi» appare retroattivamente riduttiva, anche perché il movimento ha superato la grave prova dell’assenza dell’allora indiscusso leader nei mesi del 2004 in cui era convalescente dall’ictus che lo aveva colpito e che ne ha menomato le facoltà; ma è un dato di fatto che, soprattutto quando il partito è stato sottoposto a tensioni che eccedevano la routine, la personalizzazione del comando si è ulteriormente accentuata e il rapporto tra capo e base è stato pubblicamente enfatizzato. Un’ulteriore illustrazione di questa dinamica è stata fornita dalla svolta seguita al fallimento – in termini elettorali – della breve stagione di gestione fattualmente collegiale avviata da Maroni, durante la quale sono state valorizzate le figure dei più noti amministratori locali leghisti, a partire dal già citato Tosi e dai presidenti delle regioni Veneto (Luca Zaia) e Piemonte (Roberto Cota), a cospetto dei quali il segretario federale è apparso, volutamente, per l’intero periodo del suo mandato, come una sorta di semplice primus inter pares. Di fronte all’impasse che questa situazione ha generato, si è rapidamente ritornati ad affidare le redini della struttura a un personaggio dalla forte connotazione personale, tutt’altro che privo di alcuni dei tratti istrionici che tanto peso hanno avuto nel creare il forte legame psicologico fra Bossi e la base leghista, qual è Matteo Salvini.

Il ruolo più importante che la personalizzazione della leadership ha sinora esercitato a beneficio della Lega si è rivelato comunque nel rapporto che essa ha cercato di stabilire e mantenere con la platea dei suoi potenziali elettori. Nell’appello personale rivolto al popolo, il leader leghista si è presentato infatti sino ad epoca recente come un catalizzatore che intuisce e articola le esigenze dei cittadini grazie alla relazione diretta che mantiene con loro[24], le unifica e si impegna a promuoverle nelle sedi in cui vengono assunte le decisioni di interesse pubblico. Il complesso apparato simbolico che la Lega ha costruito nel corso degli anni, con i raduni di massa nel prato di Pontida, con i giuramenti pubblici mediante i quali dirigenti e militanti si impegnano a essere fedeli al popolo e al movimento – che in tal modo si identificano l’uno nell’altro –, con le proclamazioni virtuali di repubbliche e stati autonomi dal resto dell’Italia, con i riti di consacrazione del territorio della valle del Po in stile pagano, con l’uso di bandiere e camicie verdi come simulacri di identità collettiva per gli aderenti, con la creazione del pur effimero parlamento padano e con ulteriori espedienti, incluso il bizzarro tentativo di creare una moneta alternativa alla lira che avrebbe dovuto essere adottata dai sostenitori del movimento nei loro interscambi e possibilmente utilizzata nei comuni a guida leghista, è servito a conferire un carattere di solennità a questo impegno e a ribadire la specificità leghista in spregio dei codici di espressione e di comportamento stabiliti dai professionisti della politica. Bossi ha d’altronde più volte affermato che il suo movimento è il portavoce del Terzo stato, volendo con ciò ribadirne la vocazione rivoluzionaria e l’ambizione di rappresentare le istanze della parte più ampia e attiva della società del Nord Italia, quella che si contrappone oggi al parassitismo dei ceti privilegiati così come nel 1789 il Terzo stato francese si ribellò al mantenimento delle prerogative del clero e della nobiltà.

Della gente comune, la Lega non vuole tuttavia interpretare soltanto le istanze materiali, ma anche le passioni e le emozioni: il populismo leghista è un credo che mobilita, aggrega e politicizza, non soltanto uno strumento comunicativo.

La retorica del lavoro e del sudore che ha sempre impregnato i discorsi di Bossi e oggi viene ripresa, con toni pressoché identici, da Salvini, da Zaia e dagli altri esponenti di primo piano della Lega, viene vista e criticata dagli avversari come un semplice artificio per giustificare la pretesa degli abitanti delle regioni più ricche d’Italia di pagare meno tasse e per rifiutare qualsiasi sacrificio a vantaggio delle meno sviluppate zone del Sud; inquadrarla in questi termini è utile a scopo polemico, ma significa non comprenderne per intero la natura. Il produttivismo leghista, l’elogio delle qualità misconosciute di laboriosità, frugalità, spirito di iniziativa, onorabilità, concretezza del padroncino, del piccolo e medio imprenditore, self-made man che si è costruito una ricchezza partendo dal nulla potendo contare solo sulla sua volontà e sulle sue capacità, così come l’apologia dell’artigiano e del piccolo commerciante in lotta contro i supermercati, le banche e gli usurai (insomma, contro i «grandi» che vorrebbero strangolarlo) riflette, in una versione aggiornata del poujadismo, una pretesa di superiorità morale che concorre, in misura non secondaria, a costruire il mito di un popolo incorrotto ed esemplare, potenzialmente in grado di costituire una nazione a sé stante, le cui virtù devono essere difese contro i numerosi nemici esterni. A questi nemici, come tutti i movimenti populisti, la Lega dà volentieri un nome e un volto, facendoli oggetto di continue argomentazioni polemiche. Il popolo padano, mancando di basi etniche e linguistiche che ne rendano indiscutibile la specificità, si definisce infatti per differenza rispetto a un ambiente ostile e, per prendere consapevolezza della propria identità, deve saper riconoscere le forze che gli sono avverse. I leghisti si assumono il compito di indicargliele.

Al primo posto, in questa galleria di bersagli polemici, si collocano i partiti, parassiti per eccellenza, che, come sostiene lo slogan stampato su uno dei primi e più famosi manifesti affissi dalla Lega sui muri delle città e dei paesi lombardi, hanno trovato nell’industriosa popolazione del Nord la gallina dalle uova d’oro da sfruttare. Il potere che i partiti esercitano sulla società è fonte di corruzione, induce a non rispettare le leggi, sconvolge le gerarchie naturali fondate sul merito e distorce la competizione nel campo economico attraverso i favoritismi clientelari[25]. La partitocrazia è colpevole del distacco che si è creato tra i cittadini e lo stato e dell’incapacità di quest’ultimo di fornire risposte adeguate ai problemi che sono stati suscitati dalla modernizzazione, primo fra tutti lo squilibrio tra il Nord e il Sud della penisola. Esaurito l’iniziale periodo etnonazionalista e messa la sordina alle più radicali argomentazioni indipendentiste, le critiche che la Lega rivolge allo stato italiano non si appuntano più tanto sull’illegittimità del suo processo di formazione storica, quanto piuttosto sull’inefficienza che lo contraddistingue, sulla degenerazione oligarchica di cui è oggetto, sui suoi cedimenti ai poteri forti: i partiti, le burocrazie sovranazionali come quella dell’Unione Europea e, soprattutto, l’alta finanza e la grande industria. Il big business è infatti individuato, talvolta nel contesto di una ricostruzione complottistica dello sviluppo storico che assegna al Bilderberg Group e alla Trilateral Commission il ruolo di burattinai sia della politica sia dell’economia, come un nemico particolarmente pericoloso del popolo, un fattore di divisione della comunità popolare a causa della logica di sfruttamento che lo contraddistingue. Sono gli interessi della grande industria, tutelati dai partiti, a creare la più insidiosa minaccia per quella coesione della comunità popolare a cui la Lega si richiama: l’introduzione in massa nelle regioni del Nord Italia di una manodopera fatta di estranei, portatori di una cultura radicalmente diversa da quella che, con il passare del tempo, ha gettato le basi di una comune identità settentrionale.

Nei primi anni di attività, le varie leghe manifestano la propria ostilità contro questi allogeni prendendo come bersaglio principale i meridionali, designati dalla stampa dei movimenti con il termine spregiativo «terroni» (particolarmente diffuso negli strati medi e bassi della popolazione) e rappresentati come fannulloni che rifiutano di integrarsi nella mentalità e nelle tradizioni dei luoghi di accoglienza. Sono gli anni in cui, formulando l’equazione tra mafia ed establishment politico, Bossi colpisce simultaneamente il Sud e la partitocrazia. Successivamente, la polemica leghista si sposta verso gli immigrati dai paesi poveri, che forniscono manodopera a basso costo facendo un’ingiusta concorrenza ai lavoratori autoctoni e rendono sempre più utopico il sogno di preservare l’idealizzato carattere unitario originario della gente del Nord. A mano a mano che, ampliandosi il fenomeno, la sua visibilità mediatica cresce e le sue ricadute sociali si fanno più acute, l’opposizione all’immigrazione dal Terzo mondo e dall’Est Europa si trasforma in Leitmotiv delle campagne di opinione leghiste, spingendo il movimento a intensificare i contatti con altri partiti della famiglia neopopulista, primo fra tutti la Fpö di Haider[26].

Ciò non fa tuttavia della Lega un movimento monotematico. La difesa dell’integrità culturale delle regioni del Nord contro i rischi di invasione dall’esterno si combina costantemente con altri temi. La denuncia del cosmopolitismo si accompagna all’enfasi sul valore del radicamento territoriale ma anche a una rinnovata polemica contro i poteri non legittimati dal consenso popolare, primo fra tutti quello del denaro. Al di là delle connotazioni specifiche, il nazionalismo padano, estremizzato o temperato a seconda delle opportunità ma mai abbandonato dal 1995 a oggi, fa da brodo di coltura per una serie di atteggiamenti che avvicinano ancora più sensibilmente che in passato il movimento alla famiglia neopopulista[27]. Uno degli slogan con cui la Lega conduce la campagna elettorale del 1996 (che la porterà ai massimi storici in termini di voti), in alternativa sia alla coalizione di centrodestra sia a quella di centrosinistra, recita ad esempio «chi vota Polo vota Mafia, chi vota Ulivo vota Agnelli». L’accentuazione dei connotati populisti dell’identità leghista serve in questo caso, attraverso il simmetrico riferimento a un’organizzazione criminale e al presidente onorario della Fiat, incarnazione simbolica del grande capitalismo italiano, a sottolineare la volontà di presentarsi come interprete della gente comune in conflitto con la destra e la sinistra dei ricchi, espressioni diverse ma complementari del dominio delle oligarchie: lo strapotere del capitale privato e l’alleanza fra sindacati e grande impresa. Contemporaneamente, la valenza liberista di molte delle originarie proposte leghiste viene messa fra parentesi e controbilanciata da nuove prese di posizione di segno assai diverso, fra le quali spicca fra il 1996 e il 2000 la denuncia degli effetti nocivi dell’egemonia statunitense a livello planetario, incubatrice della detestata globalizzazione e della sua ideologia guida, definita sulle colonne del quotidiano leghista «mondialismo», accompagnata da un’improvvisa diffidenza verso la cultura politica liberaldemocratica[28]. Quando si fa concreta la prospettiva di un accordo con il centrodestra per le elezioni del 2001, questo tema viene ovviamente cancellato dall’agenda, ma subito viene sostituito da altri che puntano nella stessa direzione, come la richiesta di «sdoganare la parola protezionismo» ritornando ai dazi doganali per difendersi dall’afflusso dai paesi orientali di prodotti a basso prezzo.

Favorita dalla trasformazione delle linee di frattura attorno alle quali si era costituito il sistema di partito dell’Italia repubblicana e dal conseguente indebolimento delle lealtà subculturali che tale sistema aveva prodotto e alimentato, la Lega ha sempre cercato di occupare lo spazio politico che le si è reso disponibile sforzandosi di cogliere ogni occasione per adeguare la propria offerta ideologica – nel senso più lato e generico del termine – alla mentalità del pubblico dei potenziali sostenitori. Ciò l’ha portata nei primi anni Novanta a formulare un programma in cui liberismo e populismo si mescolavano, ma il secondo elemento della formula ha sempre mantenuto la prevalenza. Per dirla con altre parole, la mentalità populista ha sin dall’inizio calzato al leghismo come una seconda pelle. Gli ha consentito di mantenersi estraneo agli obiettivi e alle logiche di azione dei partiti rivali e ha ampliato le dimensioni del suo mercato politico-elettorale, spingendolo a schierarsi lungo linee di conflitto sociale trascurate dai concorrenti per guadagnare consensi trasversali: a sinistra agitando temi abitualmente classificati come «di destra» e viceversa, coniugando ad esempio l’esigenza di sicurezza, che un tempo era patrimonio delle classi abbienti ma oggi si va diffondendo soprattutto fra gli abitanti di estrazione proletaria delle periferie urbane, con la richiesta di una maggiore giustizia sociale. In altri termini, la Lega ha sostituito la frattura di classe con la contrapposizione tra popolo ed élites, che le ha consentito di aggregare una porzione più ampia degli strati popolari.

La scelta di cavalcare la battaglia contro l’immigrazione con toni di aperta xenofobia, che è valsa alla Lega frequenti accuse di razzismo[29] e l’ha fatta a volte catalogare nell’estrema destra, rientra in questa prospettiva. A motivarla non sembrano essere tanto suggestioni di natura ideologica (che pure, scorrendo le pagine della «Padania», si vedono spesso affiorare) quanto piuttosto esigenze di natura strategica, prima fra tutte la ricerca di un potenziale di disaggregazione delle appartenenze legate allo schema bipolare oggi prevalente sia in Italia sia in molti altri paesi europei. Attraverso le ricorrenti campagne contro l’immigrazione clandestina, condotte anche attraverso uno degli strumenti preferiti dai populisti, la raccolta di firme per una consultazione referendaria mai peraltro concretizzatasi, Bossi e i suoi collaboratori hanno individuato uno strumento che consente di raccogliere e sollecitare le inquietudini dei ceti sociali del Nord preoccupati da una serie di fattori di disagio che uno schema propagandistico semplicistico può accollare, almeno in parte, alla deprecata invasione extracomunitaria: la forte disoccupazione, il peggioramento delle prestazioni di servizi pubblici essenziali come l’istruzione, la sanità e la previdenza, l’aumento della criminalità diffusa e della connessa insicurezza, la crescita del prelievo fiscale per sovvenzionare il welfare, la scomparsa degli stili di vita radicati nelle tradizioni locali. La quasi totale mancanza di concorrenti allo sfruttamento di questo argomento, che per tutto l’arco della sua esistenza Alleanza nazionale è stata costretta a trattare con le molle per non vedersi accusata di celare, dietro le prudenti formulazioni dei suoi programmi[30], recondite assonanze con quel passato di estrema destra da cui teneva sopra ogni altra cosa a prendere le distanze, ha istigato la Lega a proseguire su questa strada anche quando si è trovata a condividere responsabilità di governo, e ciò spiega il suo impegno, coronato dal successo, affinché il secondo governo Berlusconi assegnasse un’assoluta priorità al varo di una legge restrittiva sull’immigrazione, nota come «Bossi-Fini» proprio perché il segretario leghista, ormai ministro per le Riforme istituzionali, volle a ogni costo legarla al suo nome. Rimasta un po’ in sordina durante la segreteria Maroni, anche per le critiche espresse in merito a una sua eccessiva valorizzazione dal presidente della regione Veneto Zaia durante il Congresso che ha determinato la forzata abdicazione di Bossi, questa tematica non è comunque mai scomparsa dall’agenda del movimento. L’inedito successo (40.000 partecipanti secondo le stime delle autorità) della manifestazione contro «l’invasione straniera» tenuta a Milano dalle Lega il 19 ottobre 2014, voluta da Salvini per coronare l’intensa campagna condotta nei mesi precedenti per chiedere la cessazione dell’operazione di soccorso Mare Nostrum condotta dalla Marina italiana nel Mediterraneo, dimostra che il tema continua a essere uno di quelli di maggiore richiamo dell’offerta politica leghista.

Grazie all’enfasi che pone contemporaneamente sulla tutela della sicurezza (attraverso il contrasto della criminalità e dell’immigrazione), della moralità (con la lotta alla corruzione, la difesa della famiglia e delle tradizioni, il rifiuto dell’omosessualità) e delle condizioni di vita dei ceti meno difesi dai partiti rivali e dai sindacati (con il protezionismo commerciale e l’opposizione più volte ribadita al ridimensionamento dei meccanismi previdenziali), il leghismo si presenta come un movimento populista con attributi sia protestari sia identitari[31]. I suoi dirigenti non perdono occasione per proclamare di battersi per liberare la comunità a cui fanno riferimento dai mali che la affliggono all’interno e per preservarla dalla corrosione a cui possono esporla le aggressioni dall’esterno. Il popolo padano al quale si rivolge il loro messaggio è un’entità unitaria, è ethnos e demos insieme, una comunità idealizzata nella quale le distinzioni di classe non hanno la benché minima rilevanza (chi vuol mettere in evidenza questa caratteristica spesso cita il primo programma della Lega lombarda, in cui si affermava che la comune appartenenza alla Lombardia, l’essere lombardi, deve prevalere su ogni differenza sociale, economica, culturale o religiosa esistente tra i residenti nella regione). Ma è anche, nel fondo, un’entità genuina, sana, naturale, indenne dai vizi che contaminano le classi dirigenti, un aggregato di gente onesta e lavoratrice, in tutto e per tutto diversa da chi illegittimamente le impone la propria volontà: politici, burocrati, intellettuali, lobbysti della grande industria, finanzieri. In altre parole, la propaganda leghista si sforza di interpretare lungo le linee di un paradigma organicistico la collettività che è oggetto delle sue preoccupazioni, di enfatizzarne forzosamente il carattere unitario svalutando le fratture socioculturali che la attraversano.