Malgrado la sua parabola si sia consumata in un tempo molto breve, il qualunquismo continua comunque a offrire, a distanza di oltre sessant’anni dall’effettiva scomparsa, una lezione importante a chi indaga sul peso che il populismo ha avuto nella politica italiana del secondo dopoguerra. Per quanto una combinazione di fattori internazionali e interni sfavorevoli, nonché di errori strategici imputabili personalmente al suo leader, trasformatosi in breve tempo in uno di quei Capi che tanto detestava, ne abbia limitato le possibilità di affermazione elettorale, che dopo il confortante esordio erano sembrate molto consistenti, il movimento fondato e diretto da Guglielmo Giannini è un primo importante rivelatore della potenziale attrazione che le idee e lo stile del populismo esercitano, già all’immediato indomani della Seconda guerra mondiale, su una parte della società italiana, quella che per un paio di anni sembrò volergli affidare, nelle regioni del Sud, un ruolo di primo piano.
Questa capacità di servire da sonda della psicologia collettiva dell’Italia del tempo si sviluppa su due piani correlati. Da un lato, il pur meteorico successo qualunquista mette in luce quella profonda diffidenza di un settore della popolazione nei confronti sia dei partiti, accusati di faziosità e di insensibilità all’interesse nazionale, sia del parlamento, criticato per le troppe divisioni e l’inconcludenza, che la nazionalizzazione delle masse tentata dal regime fascista, nonostante i parziali insuccessi, ha lasciato in eredità a molti italiani «qualunque». Dall’altro fa capire che un attacco frontale all’intera classe politica condotto in nome dell’efficienza, dell’onestà e del buonsenso pratico può trovare in Italia consensi in un’area trasversale rispetto alla divisione sinistra/destra – non a caso, Giannini oscillò, nella ricerca di alleati che gli consentissero di tradurre i voti in effettiva influenza politica, da De Gasperi a Togliatti, passando per il Partito liberale con il quale presentò liste comuni alle elezioni del 1948 –, anche se soltanto in periodi di acuta crisi degli equilibri interni del sistema politico. Inoltre, questa composita aggregazione che rifiuta consapevolmente di assumere la denominazione di «partito» (perché la «parte» divide, mentre il «fronte» unifica; ed è significativo che la stessa formula, rafforzata dall’aggiunta dell’aggettivo «popolare», sia stata adottata da comunisti e socialisti nel 1948 per enfatizzare la loro unione elettorale), esprime per la prima volta nella storia dell’Italia unita una protesta contro la classe di governo che, pur nella sua radicalità antipolitica, non mira a sovvertire le regole del gioco democratico ma soltanto a spartirne diversamente la posta fra élite e masse.
Diversamente da quanto era accaduto nel caso del fascismo all’indomani della Prima guerra mondiale, l’Uomo qualunque non si propone infatti di abbattere il principio della rappresentanza che è alla base della democrazia liberale, ma di riequilibrarlo in favore dei teorici titolari del potere. Le lamentele qualunquiste contro l’onnipotenza dei partiti, contro l’arroganza della burocrazia e contro l’invadenza dello stato nella vita quotidiana dei cittadini, esercitata soprattutto attraverso la forte pressione fiscale, così come le richieste di valorizzazione delle competenze individuali trascurate dalle istituzioni e di affidamento della guida dello «stato amministrativo» a un «buon ragioniere» dal mandato annuale, non coprono nessuna aspirazione a restaurazioni autoritarie, ma sono finalizzate a rivendicare il diritto del popolo a fissare i limiti oltre i quali i suoi rappresentanti non devono spingersi; cioè a vincolarli al rispetto di quel mandato che è stato loro temporaneamente affidato attraverso la scheda elettorale.
Il fatto che queste rivendicazioni siano espresse in forma tribunizia da un solo uomo, Guglielmo Giannini, che negli articoli o nei comizi si arroga in forma esclusiva la funzione di tutela delle masse, di cui è convinto di poter ottenere il plebiscitario consenso quando sarà trascorso il tempo necessario per risvegliarle dagli effetti della manipolazione a cui gli upp le hanno assoggettate, apparenta ancora più efficacemente il Fronte dell’Uomo qualunque al tipo ideale della formazione politica populista, così come oggi la conosciamo. E sebbene non si possa dire che il populismo italiano che ha espresso il suo massimo vigore a partire dagli anni Novanta sia figlio del qualunquismo, non vi è dubbio che fra l’uno e l’altro sono riconoscibili molte non trascurabili assonanze di forma e di sostanza[48]. Lo ha d’altronde rilevato uno storico del berlusconismo, Giovanni Orsina, che, dopo aver indicato nel qualunquismo un populismo radicale e strutturale, «la forma più pura di populismo liberale che si sia data nella storia d’Italia», lo ha inserito per alcuni dei suoi punti di vista – fra i quali la negazione dell’idea che la politica possa essere un efficace strumento di trasformazione delle realtà e la speculare fiducia negli spontanei meccanismi evolutivi della società – fra i precorritori della vicenda che ha visto per protagonista il Cavaliere di Arcore[49].
[1] Sono molti gli studi che connettono più o meno strettamente il fascismo al populismo, non senza, però, alcune contraddizioni. Juan J. Linz, ad es., nello stesso saggio (Some Notes Toward a Comparative Study of Fascism in Sociological Historical Perspective, in Walter Laqueur (a cura di), Fascism: A Reader’s Guide, Berkeley, University of California Press, 1976, pp. 3-121; trad. it. Note per lo studio comparato del fascismo in una prospettiva storico-sociologica, in Juan J. Linz, Democrazia e autoritarismo, Bologna, Il Mulino 2006, pp. 207-359), prima include nella sua «definizione tipologica multidimensionale» del fascismo – inteso come «fenomeno transnazionale» – il suo carattere «antipopulista, e dunque antiproletario» (ibidem, p. 226), poi sostiene che in vari movimenti fascisti «anti-individualismo, autoritarismo antidemocratico ed elitismo si combinano con un forte messaggio populista» (p. 231), che i fascisti contrapposero «il loro populismo alla idealizzazione del proletariato» (p. 235), che i loro nuclei attivistici iniziali ritenevano fondata la pretesa di essere democratici di quei movimenti «a causa del loro populismo» (p. 242), che i conservatori non condividevano «il loro populismo» e che in alcuni paesi la disgregazione dei partiti agrari offrì «un’insperata opportunità al populismo fascista» (p. 253). Roger Griffin, in The Nature of Fascism, Londor, Pinter, 1991, individua addirittura in «una forma palingenetica di ultranazionalismo populista» il nucleo centrale dell’ideologia fascista (p. 26), ma poi chiarisce di usare la parola «populismo» come «un termine generico per forze politiche che, anche se condotte da piccole cerchie di élite o da “avanguardie” autonominatesi tali, in pratica o in linea di principio (e non meramente per apparenza) dipendono dal “potere del popolo” come base della propria legittimazione» (p. 37). Richiamo che appare vago e debole e non tiene conto del diverso significato attribuito da populisti e fascisti al concetto di «popolo», che abbiamo ricordato nel cap. 2. Uno studioso attento del populismo come Incisa di Camerana (Populismo, cit., pp. 356-357), pur sostenendo che «il populismo può includere quasi tutti se non tutti i fascismi», esprime dubbi sull’ipotesi che il fascismo possa «essere considerato come una variante aggressiva o drammatica del populismo e quest’ultimo in senso stretto come una versione pacifica e asettica del fascismo», limitandosi ad affermare che «È certo che il populismo rappresenta un utile punto di riferimento per ulteriori classificazioni» in questo ambito.
[2] Tullio-Altan, Populismo e trasformismo, cit., p. 49.
[3] Nella sua peraltro discutibile ricostruzione della tradizione filosofica del populismo, Nicolao Merker, Filosofie del populismo, cit., p. 88, ricorda i continui riferimenti di Mazzini al connubio fra il popolo e Dio, citando frasi quali «Dio è Dio e il popolo è il suo profeta» e «Dio e il popolo soli ci schiuderanno i campi dell’avvenire». Per Mazzini, il popolo è l’interprete della volontà di Dio, è «la grande unità che abbraccia ogni cosa: complesso di tutti i diritti, di tutte le potenze, di tutte le volontà: arbitro, centro, legge viva del mondo».
[4] Lo ricorda Pierre Milza, Mussolini entre fascisme et populisme, in «Vingtième siècle», 56, ottobre-dicembre 1997, p. 118.
[5] È ancora Tullio-Altan, Populismo e trasformismo, cit., a prendere questo elogio ad esempio di un atteggiamento diffuso nella cultura fascista, che molti storici riconducono soprattutto alle sue correnti «di sinistra». Sulla concezione fascista del «popolo», cfr. Piergiorgio Zunino, L’ideologia del fascismo, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 200-202.
[6] Secondo alcuni, il legame fra sinistra e populismo risale alla Rivoluzione francese, dove per la prima volta avviene la prima mitizzazione del popolo come «depositario di tutte le virtù che la borghesia ha insozzato»: così Souchard, Les (nouveaux?) populismes, cit., p. 11. Molto utili a capire questo connubio sono due libri di Marc Crapez, La gauche réactionnaire. Mythes de la plèbe et de la race dans le sillage des Lumières, Paris, Berg International, 1996, e Naissance de la gauche, Paris, Michalon, 1998.
[7] Naturalmente, questa immedesimazione dell’antifascismo nell’intero popolo richiedeva il ricorso all’argomento del suo risveglio da un ventennio di manipolazioni e inganni e risultava difficilmente digeribile alla componente più legata a un’analisi classista dei rapporti sociali; per questo motivo il Partito comunista preferì, per giustificare la propria collaborazione con gli altri partiti del Cln, legare la classe alla nazione. In merito, cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 313-412 (La guerra di classe).
[8] Cfr. Pombeni, L’appello al popolo, cit., p. 44. Di «reminiscenze patriottiche resistenziali» nell’immagine dell’unità del popolo armato riproposte decenni più tardi dalle Brigate rosse parla Sergio Bianchi, La vacca del consenso, in Idem (a cura di), La sinistra populista, Roma, Castelvecchi, 1995, p. 11.
[9] Matteucci, Dal populismo al compromesso storico, cit., p. 5. Questo tipo di populismo alligna, secondo Matteucci, soprattutto fra i socialisti e i cattolici.
[10] Cfr. Lazar, Du populisme à gauche: les cas français et italien, cit., p. 128, che sul caso di Nenni riprende osservazioni di Giovanni Sabbatucci, Il riformismo impossibile, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 67.
[11] Cfr. Andrea Colombo, I feticci del terzo mondo, in Bianchi, La sinistra populista, cit., p. 61.
[12] Così Incisa di Camerana, Populismo, cit., p. 361, che addebita gli stessi caratteri, altrettanto a torto, al poujadismo.
[13] Questa è la posizione di Chiapponi, Il populismo come problematica della scienza politica, cit., pp. 104-105, n. 66. Curiosamente, Chiapponi, notando che «nel qualunquismo non vi è traccia della concezione del popolo come comunità omogenea [su questo rinviamo alle nostre considerazioni successive], e la denuncia delle élites acquista il tono di un rifiuto della politica tout court», cita a sostegno della propria opinione la voce Qualunquismo redatta da Pasquino, in Bobbio, Matteucci e Pasquino, Dizionario di politica, cit., pp. 820-821. Ora, in tale voce Pasquino scrive, sì, che questo termine indica «una serie di atteggiamenti e di comportamenti politici [...] che hanno come sostrato comune l’esaltazione dell’individuo e del suo lavoro, la difesa della famiglia e della proprietà e la promozione dell’ordine e della legge» – il che peraltro non ci pare contrasti affatto con il credo di numerosi movimenti populisti, europei e non solo –, ma aggiunge che incarnazioni del qualunquismo si sono avute in Francia con il poujadismo e in Danimarca (il riferimento, implicito, è al Partito del progresso). Com’è noto, e come abbiamo documentato nel precedente capitolo, sia Poujade sia Glistrup sono unanimemente considerati esponenti di primo piano della mentalità populista. L’argomentazione di Pasquino smentisce la convinzione che l’esperienza storica dell’Uomo qualunque non possa essere posta a fondamento di un concetto «suscettibile di essere utilizzato per connotare casi lontani tra loro nel tempo e nello spazio» e, per traslato, rafforza la nostra interpretazione.
[14] Cfr. Sandro Setta, L’Uomo qualunque. 1944-1948, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 58-59. A quest’opera, di gran lunga la migliore in argomento, siamo debitori per gli altri aspetti della ricostruzione della vicenda qualunquista che seguono.
[15] Gino Pallotta, Il qualunquismo, Milano, Bompiani, 1972, p. 35.
[16] Cfr. Carlo Maria Lomartire, Il qualunquista. Guglielmo Giannini e l’antipolitica, Milano, Mondadori, 2008, p. 28.
[17] L’acronimo, da leggersi come «u-pi-pi», ha una risonanza volutamente irridente.
[18] Guglielmo Giannini, La Folla, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002, pp. 57-58. Si tratta di una riedizione antologica e commentata dell’opera.
[19] Guglielmo Giannini, La Folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide, Roma, Faro, 1945, p. 7.
[20] Ibidem, p. 10.
[21] Giovanni Orsina, Le virtù liberali del qualunquismo, saggio introduttivo a Giannini, La Folla, riedizione antologica cit., p. 13.
[22] Giannini, La Folla, riedizione antologica cit., p. 59.
[23] Giannini, La Folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide, cit., p. 8.
[24] Cfr. Valerio Zanone, La riduzione qualunquista del liberalismo, saggio introduttivo a Giannini, La Folla, riedizione antologica cit., pp. 34-36.
[25] Giannini, La Folla, riedizione antologica cit., pp. 92-93.
[26] Cfr. ibidem, pp. 138 e 154-178.
[27] Dall’articolo di presentazione del primo numero dell’«Uomo qualunque», 27 dicembre 1944.
[28] Ibidem, pp. 183-184 e 72.
[29] Cfr. Sandro Setta, Il qualunquismo, in Idem (a cura di), Italiani contro gli uomini politici: il qualunquismo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2005, p. 128.
[30] Lomartire, Il qualunquista, cit., p. 7.
[31] Cfr. Setta, L’Uomo qualunque. 1944-1948, cit., p. 83.
[32] Cfr. Vespe, in «L’Uomo qualunque», 19 settembre 1945.
[33] Guglielmo Giannini, Grido di dolore, in «L’Uomo qualunque», 8 agosto 1945.
[34] Ibidem, pp. 85-86.
[35] Cfr. Pallotta, Il qualunquismo, cit., p. 57. In un primo momento, però, Giannini non apprezza il diffondersi dell’uso del termine «qualunquismo», ritenendolo dispregiativo. Lo adotterà solo perché è entrato nell’uso comune da quando il settimanale ha iniziato a circolare. Cfr. Lomartire, Il qualunquista, cit., p. 84.
[36] Tutti questi temi sono messi in evidenza da Giovanni Orsina, In principio è uno stato d’animo, in «Ideazione», IV, 6, novembre-dicembre 1997, pp. 48-49.
[37] Pallotta, Il qualunquismo, cit., p. 59.
[38] Giannini, La Folla, riedizione antologica cit., p. 128.
[39] Giannini, La Folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide, cit., p. 28.
[40] Giannini, La Folla, riedizione antologica cit., pp. 125 e 130.
[41] Cfr. Pallotta, Il qualunquismo, cit., p. 73.
[42] Aspetto sottolineato da Roberto Chiarini, La politica dell’antipolitica, in «Ideazione», IV, 6, novembre-dicembre 1997, pp. 73-74.
[43] Cfr. Angelo Michele Imbriani, Vento del sud, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 75-77.
[44] Cfr. Lomartire, Il qualunquista, cit., p. 68, che cita anche gli epiteti «cameragni», affibbiato ai comunisti, e «demofradici-cristiani», riservato agli esponenti della Dc, oltre che l’esplicitazione dell’acronimo Rai in «Restituitela agli italiani».
[45] Cfr. Setta, L’Uomo qualunque. 1944-1948, cit., p. 229.
[46] Il testo del decalogo è in Lomartire, Il qualunquista, cit., p. 147.
[47] Cfr. Setta, Il qualunquismo, cit., p. 117.
[48] In questi termini si esprime anche Sandro Setta, Il qualunquismo, in Gianfranco Pasquino (a cura di), La politica italiana. Dizionario critico 1945-95, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 374-375.
[49] Cfr. Giovanni Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Venezia, Marsilio, 2013, pp. 62-64.