Le numerose analisi dedicate in ambito accademico al populismo da mezzo secolo in qua partono quasi tutte dal sottolineare la difficoltà di una sua definizione. Questa sarebbe ostacolata, a dire di molti, dall’ampia estensione geografica e cronologica del fenomeno, dalla poliedricità che lo ha portato a presentarsi a seconda delle circostanze nelle vesti di movimento, regime, stile discorsivo, strategia politica, schema ideologico, espediente retorico, stato d’animo, atteggiamento psicologico, corrente di idee, clima di opinione e via elencando, nonché dalla capacità «camaleontica» (la suggestiva espressione è stata coniata da Paul Taggart, che pure è uno fra gli studiosi che più si sono adoperati per dare alla parola un contenuto certo) di adattarsi ai più diversi contesti, coniugandosi con filoni politico-culturali eterogenei o integrandosi al loro interno per dare vita a sintesi inattese, incongrue con il discrimine usualmente tracciato tra destra e sinistra.
Chi vuole dare un’idea della paradossale capacità di questo o quell’aspetto del populismo di comparire a ogni latitudine della geografia politica, e magari nel contempo desidera sottrarsi alla fatica di cercare comunque il nocciolo di questa formula, ricorre in genere alla prolissa elencazione dei personaggi a cui la qualifica di «populista» è stata applicata, contando sul fatto che mettere in fila i nomi di Juan Domingo (ed Eva) Perón e Margaret Thatcher, Josip Stalin e Jörg Haider, Jean-Marie (e Marine) Le Pen e Fidel Castro, Lin Piao e Umberto Bossi, Julius Nyerere e Silvio Berlusconi, Boris Eltsin e Hugo Chávez, Alberto Fujimori e Ronald Reagan, Enoch Powell e Fernando Collor de Mello, Getulio Vargas e Jesse Ventura, ex lottatore di wrestling asceso al rango di governatore del Minnesota, Guglielmo Giannini e Saddam Hussein, Ross Perot e Gamal Abdel Nasser, George Wallace e Jesse Jackson, Vladimir Žirinovskij e Andreas Papandreou, Lech Wałęsa e Pim Fortuyn, Süleyman Demirel e Bernard Tapie, Recep Tayyip Erdoğan e Beppe Grillo – giusto per limitarci a una ristretta porzione degli esempi possibili – sia già sufficiente a scoraggiare il ricercatore troppo devoto al culto delle classificazioni e delle tipologie.
Il carattere multiforme delle espressioni del fenomeno a cui è stata applicata l’etichetta di «populismo» ha sempre creato sconcerto, sia in chi si è proposto di analizzarne, separatamente o in prospettiva comparata, le manifestazioni empiriche, sia in chi si è concentrato sul tentativo di astrarre da queste ultime un’unitaria sostanza teorica. L’ampiezza delle sue manifestazioni, tanto sul piano geografico (non c’è quasi paese al mondo nel quale non si sia ritenuto di rilevarne le tracce) quanto su quello cronologico (i più tendono a datarne l’avvio al tardo Ottocento identificandone i prototipi nei narodniki, gli studenti e gli intellettuali che nella Russia dell’ultimo quarto di quel secolo si proponevano di «andare verso il popolo» imbevuti di una visione romantica e ingannevole delle virtù etiche conservate dalle comunità di villaggio contadine, e nel People’s Party che pochi anni più tardi espresse le inquietudini e le richieste degli agricoltori del Sud e dell’Ovest degli Stati Uniti d’America insoddisfatti dell’azione dei parlamentari sia democratici sia repubblicani, ma la ricerca delle radici ha spinto a considerare «protopopuliste» persino le rivolte contadine medievali e i cartisti inglesi)[3] ne ha fatto sottolineare molto più l’eterogeneità che le matrici comuni.
Dagli inviti a ridefinire i contorni del concetto, che hanno caratterizzato una prima fase di studi e ricerche, si è quindi passati negli anni Novanta dello scorso secolo, con un’intensità crescente, ai moniti a scartarlo in quanto, si è sostenuto, «la “populismità” è solo un’entità fittizia che sarebbe vano cercare di cogliere»[4]. Si è addirittura giunti a scrivere che, essendo le definizioni solo «formule felici di cui gli studenti fanno tesoro ma che altri specialisti si affrettano a squalificare», il populismo lo si può capire «senz’altro meglio alla luce confusa delle forme cumulative che ha rivestito nel tempo e nello spazio piuttosto che attraverso una sintesi intellettuale per forza di cose semplicistica»[5]; una posizione che ha portato altri a convincersi che, non essendo possibile dare una definizione unica del populismo – e neppure di termini come «popolo» e «popolare» –, ci si dovrebbe limitare a «rischiarare la discussione individuando i contorni storici, culturali e sociali» di un dibattito situato nel punto d’incrocio di una molteplicità di discipline: scienza politica, sociologia, filosofia, storia delle mentalità, storia culturale, scienze della comunicazione[6].
Il carattere oltranzista di affermazioni di questo genere è già evidente nel fatto che a proporle sono studiosi che alla ricerca di questa presunta araba fenice hanno dedicato da decine di anni, e continuano a dedicare, una cospicua dose di energie intellettuali. Le si può dunque considerare alla stregua di «provocazioni» dettate dall’insoddisfazione per la tendenza dei mezzi d’informazione a inflazionare l’uso di un concetto sino a deformarne il senso; ma non bisogna prenderle alla lettera.
Si può concordare sul fatto che il populismo non si è storicamente identificato in un tipo omogeneo di regime politico, non ha presentato contenuti identici in tutti i movimenti che sono stati veicolo delle sue suggestioni e non può essere ricondotto né a un’articolata concezione del mondo intesa secondo i canoni che i filosofi adottano per identificare una Weltanschauung né a un programma politico integralmente condiviso da tutti i suoi esponenti; ma ciò non rende impossibile coglierne un’essenza unitaria. Anzi, la convinzione che esso possieda «molti degli attributi di un’ideologia ma non tutti», per dirla con Taggart[7], può essere rovesciata di segno e utilizzata per dimostrare che il populismo ha un proprio nucleo visibile, un’anima, un cuore composto da «caratteri ricorrenti nel tempo e nello spazio che lo fanno rassomigliare a un’ideologia»[8], stigmate che è possibile individuare anche quando alcuni dei suoi elementi stilistici o contenutistici vengono assorbiti a fini puramente strumentali da soggetti insensibili al suo credo profondo e mescolati a prassi o programmi che gli sono, nella sostanza, estranei.
Com’è capitato a quasi tutti gli altri filoni che hanno caratterizzato la storia del pensiero politico, il populismo è stato oggetto di formulazioni contraddittorie e si è incarnato in tendenze discordi; il che non basta certo per escluderlo dal novero delle tendenze politiche che hanno esercitato influenze significative nell’epoca contemporanea. Nessuno, infatti, si sognerebbe di ritenere troppo vago o inconsistente il concetto di «democrazia», sebbene nell’attraversare l’arco di due abbondanti millenni esso abbia modificato per più di un verso le sue coordinate sia teoriche sia operative, o si sia accompagnato tanto a formulazioni dottrinarie quanto all’azione di movimenti collettivi, alla messa in opera di istituzioni e alla definizione di criteri di comportamento sul piano sociale o addirittura su quello delle relazioni interpersonali, alla costruzione di partiti e alla definizione di atteggiamenti mentali. Per non parlare delle connotazioni contraddittorie, e non di rado reciprocamente escludenti, che movimenti, regimi, stili retorici e dottrine che pretendevano di arrogarsi la qualifica di «democratici» hanno assunto nel corso dei secoli[9], senza che, per fare chiarezza sulla nozione, si decidesse di abbandonarla considerandola inservibile. E, se uno degli argomenti più utilizzati per screditare la nozione di populismo e derubricarla a mera etichetta polemica è il fatto che la maggioranza dei soggetti a cui è riferita ne respinge l’attribuzione, è facile far notare che con la democrazia è accaduto l’esatto contrario – tutti o quasi gli esponenti politici l’hanno rivendicata, anche quando le loro idee ed azioni rivelavano ispirazioni autoritarie e persino totalitarie –, ma l’amalgama terminologico, che avrebbe potuto svuotare il senso del concetto, non ha spinto affatto gli studiosi a metterlo da parte. Al contrario, li ha istigati a proporre puntualizzazioni, osservazioni critiche e ridefinizioni volte a sgombrare il campo dagli equivoci che l’uso spregiudicato della parola suscitava.
Considerazioni analoghe si possono avanzare a proposito del liberalismo, che pure si è diviso sin dalle origini in correnti distinte e litigiose, a lungo – e tuttora – impegnate a negarsi il diritto di fare legittimo uso dell’etichetta. E ad ancora maggior ragione si possono estendere al socialismo, che, anche a prescindere dall’inesausta filiazione di tendenze discordi e propense a scomunicarsi accusandosi di eresia, ha annoverato fra i suoi dichiarati e non graditi adepti nominali persino il «nazionalsocialista» Adolf Hitler, delle cui convinzioni non sarebbe facile argomentare la compatibilità con le idee sostenute da Karl Marx o da Rosa Luxemburg. Gli esempi potrebbero continuare, coinvolgendo altri concetti politici collegati a dottrine, movimenti e concezioni del mondo, come il «nazionalismo» (che si è accoppiato con le ideologie più disparate, incluse alcune di quelle che in linea di principio lo condannavano, come nel caso di numerosi movimenti di liberazione del Terzo mondo, in cui ha coabitato con la dottrina marxista-leninista ufficialmente proclamata dalla leadership) o il «conservatorismo». Su questo dato di fatto difficilmente confutabile, però, molti studiosi sorvolano o minimizzano. L’affermazione secondo cui un determinato fenomeno politico, essendo irriducibile a unità, non può essere definito sembra essere un espediente specificamente riservato a soggetti che suscitano una diffusa diffidenza o avversione (si pensi al caso esemplare del fascismo, intorno alla cui natura – e persino alla sua effettiva esistenza come fenomeno transnazionale – ci si interroga senza giungere a un accordo convincente da novant’anni a questa parte[10]), una discutibile scorciatoia volta a sminuire la rilevanza del tema affrontato, che è oggi più che mai opportuno evitare.
Per dare un volto adeguato al populismo – o meglio, per delineare i tratti essenziali di quel volto che esso ha lasciato intravedere attraverso le sue molteplici incarnazioni – è dunque necessario seguire un’altra strategia di ricerca, per certi versi più ambiziosa di quelle sinora messe in atto.
Nel corso del tempo si sono accumulati materiali sufficienti a far uscire il profilo complessivo di questo fenomeno dal cono d’ombra in cui lo si è tenuto celato, e, partendo da un confronto tra le più significative definizioni che ne sono state sin qui proposte, è ormai possibile fare un decisivo passo in avanti. In altre parole, né la «natura essenzialmente impalpabile» e la «scivolosità concettuale che non permette di afferrarlo saldamente» rilevate da Taggart[11], né l’ambiguità, l’ambivalenza e la polisemia che gli vengono attribuite da buona parte della letteratura specialistica vietano di cogliere un nucleo sostanziale e costante del populismo, che fa da intelaiatura e supporto a tutte le sue variegate manifestazioni. Sarà dunque in questa direzione, e con questo dichiarato intento, che qui procederemo, in un primo momento presentando in ordine cronologico gli apporti fondamentali del dibattito scientifico e poi cercando di combinarne gli elementi per dare una risposta convincente al nostro dilemma. Che deve essere risolto, perché la rinuncia all’impiego della parola non cancellerebbe, né ridimensionerebbe, il crescente rilievo che le manifestazioni di quel modo di pensare e di declinare la politica che va sotto il nome di «populismo» hanno assunto.
È stata del resto proprio questa reiterata capacità di incidenza nel dominio della prassi di attori politici comunemente descritti come «populisti» a indurre la comunità scientifica a impegnarsi a più riprese nel tentativo di giungere a una definizione del fenomeno che fosse capace di rendere ragione, a un tempo, dell’unitarietà e della polisemia che lo contraddistinguono. I contributi a questa opera di chiarificazione si sono orientati in varie direzioni e sono stati diversamente classificati. Francisco Panizza, che si è occupato in primis di vicende latinoamericane ma non ha trascurato di rivolgere la sua attenzione ad altri ambiti e ha collaborato con studiosi europei e nordamericani, ha suggerito di raccoglierli intorno a tre principali approcci. Il primo è quello che comprende le generalizzazioni empiriche, che presuppongono l’esistenza di un elemento comune in seno alla variegate manifestazioni del fenomeno e puntano a costruire in base ad esso una tipologia – anche se, ad avviso di Panizza, spesso lo fanno in maniera implicita e intuitiva piuttosto che esplicita e analitica. Nel secondo (le spiegazioni storiciste) si collocano gli studi che vincolano il populismo a un preciso periodo, a una dinamica economico-sociale o a un determinato insieme di circostanze storiche. Al terzo fanno capo le interpretazioni sintomatiche, le quali incorporano alcuni dei tratti caratterizzanti rilevati dagli altri due approcci ma li includono in un nucleo analitico che ha alla base la costituzione del popolo come attore politico e la sua collocazione in posizione antagonistica rispetto a un «altro» (il «non-popolo», si potrebbe dire) all’interno di una rappresentazione dicotomica della società[12].
Interventi ispirati a tutte e tre le impostazioni citate caratterizzano il primo sforzo di riflessione scientifica collettiva sul tema compiuto dai partecipanti al simposio organizzato dalla rivista «Government and Opposition» presso la London School of Economics nel maggio 1967, da tutti considerato come la pietra angolare del tentativo di dare al concetto di populismo solide fondamenta. È quindi d’obbligo partire dalle risultanze di quell’incontro se si punta a giungere a una connotazione universalmente accettabile della nozione di populismo – e dunque all’individuazione di un minimo comun denominatore delle espressioni del fenomeno che essa vuol descrivere – e, nel contempo, a illustrare e giustificare le difficoltà che hanno sin qui impedito di pervenire al risultato sperato.
Nel momento in cui si svolse il simposio della London School of Economics (Lse), ormai da tempo il vocabolo «populismo» si era affermato nel gergo delle scienze sociali, tanto da essere stato applicato sia all’analisi di un’ampia serie di esperienze di integrazione politica di masse precedentemente escluse dalla scena politica svoltesi nel contesto di regimi dal profilo autoritario in paesi del Terzo mondo – America Latina in testa, con Perón in Argentina, Vargas in Brasile, Haya de la Torre in Perú, Paz Estenssoro in Bolivia, Rojas Pinilla in Colombia, Velasco Ibarra in Ecuador e vari altri leader popolari spesso ispirati dalla tradizione dei caudillos – sia all’individuazione di tendenze che si erano fatte strada all’interno di sistemi pluralistici, a partire da quello degli Stati Uniti d’America. Ciò obbligava a estendere l’analisi su scala quasi planetaria, rendendola ancor più complicata[13]. Constatando ironicamente che, ad onta del suo carattere «elusivo e proteico», il populismo si era ormai sostituito al comunismo nell’interpretazione del ruolo di spettro destinato a ossessionare il mondo, gli organizzatori dell’incontro, significativamente intitolato «To Define Populism», si chiedevano se esistesse davvero un fenomeno unico corrispondente ai contenuti che quella parola evocava e se, in caso di risposta affermativa, lo si dovesse catalogare come un’ideologia, un movimento, una mentalità risultante da una particolare situazione sociale oppure una predisposizione psicologica[14].
I pareri raccolti, sulla base di un’indagine panoramica estesa a quattro continenti, furono divergenti. Da quel dissenso prese avvio la discussione che, nell’arco di quasi mezzo secolo, ha cercato di delineare e circoscrivere i contorni – empirici e, di conseguenza, teorici – del populismo. E molte delle osservazioni esposte in quella sede conservano piena attualità.
Sulla caratterizzazione generale dell’oggetto, come accennato, i punti di partenza non coincidevano. Se Donald MacRae riteneva che si potesse parlare di un’«ideologia populista», Peter Wiles gli replicò che di una dottrina non si poteva assolutamente parlare; semmai, lo si poteva considerare, in senso stretto, una «sindrome»; Kenneth Minogue scelse di privilegiare la sua dimensione di movimento politico, mentre Angus Stewart puntò a individuare i connotati sociali che gli conferivano una specifica identità, collegandosi al tema dei rapporti fra mutamento socioeconomico e sviluppo politico, a quel tempo in gran voga. Ma fu al momento di tirare le somme del dibattito che emerse quella convinzione dell’impossibilità di una definizione univoca che ha serpeggiato, da allora in poi, nell’ambito degli studi specialistici. La sintetizzò in una formula destinata a godere di enorme successo Isaiah Berlin, quando accennò al rischio che la pretesa di identificare un tipo puro di populismo potesse assoggettare eternamente gli studiosi al «complesso di Cenerentola», cioè alla frustrazione che derivava dal non riuscire a trovare nella realtà oggetti perfettamente rispondenti ai requisiti stabiliti dalla teoria. Vale la pena di riprendere per esteso le sue parole:
[per «complesso di Cenerentola»] intendo quanto segue: che esiste una scarpa – la parola «populismo» – per la quale da qualche parte esiste un piede. Ci sono tutti i tipi di piedi che quasi le si adattano, ma non dobbiamo essere ingannati da questi piedi che quasi si adattano. Il principe sta sempre andando in cerca con la scarpa; e da qualche parte, ne siamo sicuri, aspetta un limbo chiamato «populismo» puro. Questo è il nucleo del populismo, la sua essenza[15].
La ragionevolezza di quel monito e l’autorevolezza di chi lo aveva formulato hanno contribuito a diradare i tentativi di racchiudere il populismo in una definizione onnicomprensiva, ma la speranza di trovare un accordo sull’individuazione dei suoi caratteri essenziali non si è estinta e ha dato esca a un dibattito oggi particolarmente vivo, i cui capisaldi rimangono comunque quelli fissati negli anni Sessanta, se non ancor prima. Si può infatti far risalire a Edward Shils, che si era occupato dell’influenza del fenomeno sulle politiche di sicurezza statunitensi a metà del decennio precedente, la convinzione originaria secondo cui il populismo «proclama che la volontà del popolo in quanto tale detiene una supremazia su ogni altra norma, sulle norme delle tradizionali istituzioni, sull’autonomia delle istituzioni e sulla volontà di qualunque altro strato sociale», «identifica la volontà del popolo con la giustizia e la moralità» ed esprime il desiderio di una relazione diretta fra popolo e governanti, non mediata da istituzioni[16]. Da allora in poi, la convinzione che l’appello al popolo, considerato la pietra angolare di un ordine equo e legittimo, stia al centro di ogni manifestazione politica di questo fenomeno si è trasformata in un luogo comune; ma attorno ad essa sono fiorite numerose e dissonanti proposte di integrazione di ulteriori elementi in quel nucleo indiscusso.
Nel convegno londinese, MacRae si trovò isolato nel sostenere la necessità, se si vuole comprendere il senso del populismo, di trattarlo, per il ruolo che svolge nell’azione politica e sociale degli uomini, «come, anche se non solo come» un’ideologia, pur ridotta a un livello di estrema semplicità – tanto da poter essere integrata e almeno in parte assorbita in schemi dottrinari più complessi, come quelli dello stalinismo o del maoismo. Nella sua visione, il populismo si presenta come un primitivismo romantico, «profondamente apolitico», che guarda a un passato mitico per rigenerare il tempo presente e coltiva, idealizzandola, l’idea di un buon tempo sacro, caratterizzato da un ordine semplice e spontaneo, «profumato di Eden», nella quale aleggia, a seconda dei contesti, la nostalgia per la comunità agraria salda nel richiamo alle proprie radici o per l’epoca precedente l’oscura fase del dominio coloniale. Molto interessanti, nella prospettiva del futuro dibattito, sono altre due constatazioni di MacRae: la prima riguarda il fatto che, per i populisti, il senso di fratellanza si colloca sopra l’apprezzamento della libertà, la seconda concerne la loro convinzione che, se paragonata alla comunità e più in generale alle dinamiche sociali, la politica in fondo non conta granché: un dato che li porta a impegnarsi in movimenti ma non in partiti organizzati. La sottolineatura dell’importanza attribuita dai populisti all’appartenenza a un ben preciso contesto locale e della loro propensione a imputare a complotti di estranei – a seconda dei casi gli ebrei, gli stranieri, i banchieri, gli eretici – le difficoltà incontrate dalla gente semplice e onesta nella vita quotidiana porta peraltro la sua nozione di «ideologia» a trasformarsi in una teoria della personalità (lui stesso la definisce così) che elegge a modello paradigmatico un uomo «sfuggito alla conseguenze della caduta di Adamo», che può sviluppare interamente la propria libertà solo rifugiandosi nell’uniformità sociale e nell’identità di carattere con i suoi simili. Questa visione, di cui è evidente il sottofondo morale, implica la contrarietà alla divisione sociale del lavoro, accusata di frammentare il carattere umano, la fiducia nelle doti di un Volk virtuoso, un’aspirazione all’uguaglianza e la contrarietà a ogni tipo di élite[17].
Wiles si mosse in un’ottica diversa, pur giungendo, in sede di individuazione dei tratti fondanti del fenomeno analizzato, a conclusioni non lontane da quelle di MacRae. Dopo aver espresso la convinzione che «populista» può definirsi ogni credo o movimento basato sulla premessa secondo cui «la virtù risiede nella gente semplice, che è la stragrande maggioranza, e nelle sue tradizioni collettive», sostenne che da tale premessa deriva «una sindrome politica di sorprendente costanza» composta da una molteplicità di sintomi – il suo intervento ne cita ben ventiquattro – che possono comporsi in una grande varietà di modi. Fra questi alcuni spiccano, anche per il rilievo che hanno assunto nella successiva discussione scientifica: il carattere moralistico e non programmatico, che porta i populisti a considerare meno importanti la logica e l’efficacia rispetto alla correttezza negli atteggiamenti e alla connotazione spirituale di una personalità; il rifiuto delle burocrazie e della disciplina di partito; la vaghezza dei referenti ideologici (a tal punto che i tentativi di definirli con maggiore precisione suscitano «derisione e ostilità»); l’affidamento a capi dotati di qualità fuori dall’ordinario («in contatto mistico con le masse»); la diffidenza verso gli intellettuali, il potere finanziario e qualunque altro settore dell’establishment (da cui sono peraltro esclusi gli imprenditori impegnati in funzioni produttive); una coscienza sociale conciliativa e cooperativa; l’opposizione agli squilibri socioeconomici causati dalle istituzioni (ma non alle «tradizionali disuguaglianze dovute al modo di vita del proprio ambito», accettate passivamente); un isolazionismo ostile al militarismo, seppur non pacifista in senso proprio; un «temperato razzialismo», che si esprime nel richiamo privilegiato alle tradizioni etniche ancestrali. Anche in questo caso, emerge la convinzione che il populismo sia fondamentalmente nostalgico: «Non apprezzando il presente e l’immediato futuro, cerca di modellare il futuro ulteriore accordandolo alla sua visione del passato»[18].
Nel terzo contributo seminale emerso durante il convegno, Peter Worsley, tenendo fuori dal raggio di indagine il contesto europeo, a quel tempo ritenuto pressoché immune dalla capacità di diffusione del fenomeno analizzato, escluse esplicitamente la possibilità di far corrispondere il populismo a un particolare tipo di sistema ideologico o di organizzazione e ne parlò, rifacendosi a Shils, come di una dimensione della cultura politica che comporta l’adesione a due principi cardinali: la supremazia della volontà del popolo su ogni prescrizione istituzionale e il desiderio di una relazione diretta fra popolo e leadership. Questi principi si traducevano a suo avviso in una credenza quasi religiosa nelle virtù della incorrotta e semplice gente comune, che portava simmetricamente a una forte sfiducia nei confronti di quanti esibivano comportamenti in contrasto con le proprie convinzioni etiche: «“furbi”, effeminati, arroganti, aristocratici, oziosi, opulenti, funzionalmente superflui e fondamentalmente degenerati o corrotti», in una rappresentazione omogenea e anticlassista della società, nell’insistenza sul conflitto tra l’uomo della strada e il mondo circostante e nel risentimento verso l’ordine imposto dalla classe dirigente. L’influenza politica di questo insieme di convinzioni era palese nei molti regimi del Terzo mondo nati sulla scia della decolonizzazione che si sforzavano di metterle in atto servendosi di un partito unico o dominante, volto all’integrazione comunitaria delle masse nella nazione. Tuttavia, sostenne allora Worsley inaugurando una delle grandi controversie che avrebbero animato il confronto accademico successivo, «Il populismo è certamente compatibile con la democrazia, sebbene ciò sia spesso negato»; la sua particolarità (e, si potrebbe dire, uno dei tratti salienti della sua opposizione al liberalismo in quanto dottrina dei limiti all’esercizio del potere) consiste nel fatto che esso «si schiera a favore dei diritti delle maggioranze per far sì – “intervenendo” – che essi non siano ignorati (così come comunemente avviene)»[19].
Alcuni altri interventi del convegno fornirono spunti di interesse tuttora validi. In particolare, occupandosi specificamente delle proiezioni politiche del populismo, Kenneth Minogue lanciò un monito a distinguere l’ideologia populista, «che esprime le correnti più profonde del movimento», dalla sua retorica, «che può essere accidentalmente plagiata in qualunque ambito a seconda delle necessità del momento», e si richiamò, sottoscrivendoli, ad alcuni dei capisaldi della visione populista identificati da un altro noto studioso, Richard Hofstadter: l’idea, di forte presa sulla psicologia popolare, che sia esistita un’età dell’oro; la credenza in un’armonia naturale della società, che sarà ristabilita quando gli sfruttatori di cui i produttori sono vittime saranno stati sconfitti; l’interpretazione dualistica dello scontro sociale e una teoria complottistica dello svolgersi degli eventi[20]. E Angus Stewart, dopo aver riscontrato tre modi per accostarsi allo studio del populismo, considerandolo o come un sistema di idee o come un insieme di fenomeni storici distinti o come il prodotto di determinati tipi di situazioni sociali, optò per la terza di queste vie e lo descrisse come «un idealtipo di relazione sociale», la cui unità deriva da un’identità di situazioni. Da ciò discendeva la sua decisione di considerarlo, sulla base soprattutto dell’esempio fornito dal peronismo, una particolare risposta ai problemi posti dalla modernizzazione e alle sue conseguenze e, più specificamente, un tentativo di rivitalizzare l’integrazione sociale, in società modernizzate o in via di divenire tali, sulla base del richiamo a valori tradizionali, presentandosi nelle vesti sia di movimento, sia di ideologia. Stewart fu il primo, per giustificare l’accostamento del populismo all’ideologia, a rifarsi all’impostazione di Clifford Geertz secondo cui quest’ultima va vista come «una mappa della problematica realtà sociale, che ha la possibilità di rendere comprensibile e significativa una situazione altrimenti incomprensibile» e può dunque servire a trovare una soluzione a dilemmi cruciali, fungendo da agente di mobilitazione collettiva[21].
A ridosso dell’incontro londinese, fu ancora Isaiah Berlin a cercare di sintetizzare in modo efficace gli spunti emersi dalla discussione, sostenendo che da essi si potevano enucleare sei caratteristiche basilari del populismo: a) un’idea di società coesa che si apparentava da vicino alla «comunità organica» descritta da Tönnies nella sua celebre opera Gemeinschaft und Gesellschaft[22]; b) una fiducia riposta più nella società che nello stato; c) la preoccupazione, e la conseguente volontà, di riportare il popolo alla perduta armonia con l’ordine naturale; d) un orientamento a riproporre nostalgicamente una serie di valori legati ai tempi antichi; e) la convinzione di parlare in nome della (stragrande) maggioranza della popolazione; f) la tendenza a manifestarsi in contesti sociali nei quali è già in corso, o è in fase di avanzata incubazione, un processo di modernizzazione[23]. Echi di questa immagine d’insieme sono rintracciabili, dichiaratamente o meno, in molte delle ricerche successive, che hanno tuttavia lasciato sin qui insoluto il problema della natura profonda del populismo: se cioè lo si possa considerare un’ideologia o qualcosa di diverso – e, in questo caso, cosa esattamente.