Il dato che occorre adesso chiarire è a quale popolo la mentalità populista si riferisce quando chi la esibisce pretende di parlare in suo nome. Su alcuni dati di fondo non c’è, se non marginalmente, dissenso fra gli studiosi. Innanzitutto, il popolo a cui i populisti tributano un vero e proprio culto, facendone un oggetto di venerazione, ha un’essenza idealizzata e mitica. Si presenta come un tutt’unico coeso e armonico, una comunità di origine naturale, basata sulla fiducia reciproca, «dove è chiaro chi è “uno di noi” e chi non lo è»[82]. Inoltre, ha uno smisurato potere di integrazione simbolica di quelle che potrebbero altrimenti essere derubricate a masse informi o a semplice giustapposizione di miriadi di individui. Infine, la sua titolarità a pretendere di esercitare la sovranità è indiscussa. Al di là di questi aspetti condivisi, le rassegne più aggiornate dei significati che gli attori populisti assegnano alla parola e al concetto che vi si esprime non coincidono pienamente. Occorre quindi, per trovare una risposta all’interrogativo che ci siamo appena posti, esaminare almeno le tre più citate, elaborate rispettivamente da Margaret Canovan, da Mény e Surel e da Taguieff.
Margaret Canovan, prendendo spunto dalle connotazioni che il termine people assume nella lingua inglese, ha riconosciuto nelle campagne antiestablishment promosse da movimenti populisti quattro diverse declinazioni del concetto sotteso alla parola. La prima di esse fa appello all’united people, ovvero alla nazione intesa come entità coesa che la vocazione dei partiti alla faziosità tende a dividere; in questo caso, la funzione che il populismo si assegna è di gettare le basi di un’unica organizzazione rappresentativa del popolo nel suo complesso, spesso incarnata da un’individualità carismatica collocata al di sopra delle divisioni ideologiche e di classe e intenzionata a cancellarle. Un secondo modo populista di richiamarsi al popolo consiste nell’intenderlo come common people, il popolino dei diseredati, dei derelitti, dei poveri, dei lavoratori di umile condizione, il cui risentimento viene utilizzato nella polemica contro la classe dirigente, che sfrutta il potere per arricchirsi alle spalle degli altri. Abituale corollario di questa immagine del popolo è la polemica contro le istituzioni, viste come strumenti grazie ai quali i potenti e coloro che li sostengono si arricchiscono a spese dei deboli. Se l’appello privilegia invece l’ordinary people, la gente comune, i semplici cittadini, il bersaglio dei populisti è l’arroccamento dei politici di professione in un’arrogante indifferenza alle istanze di base che non collimano con i loro interessi, la mancanza di trasparenza delle loro azioni, la sordità alle proteste che vengono dal basso. Spesso, chi punta su questo significato del concetto denuncia il tradimento del mandato rappresentativo e contesta i carichi fiscali imposti a chi lavora da governi inefficaci e sordi alle istanze dei cittadini. Infine, l’ethnic people a cui gli attori politici populisti fanno con sempre crescente frequenza richiamo è la comunità specifica – quello che in un secondo momento l’autrice preferirà etichettare come our people, il «nostro» popolo –, contraddistinta da un’identità e da una serie di tradizioni che hanno particolari radici culturali, linguistiche, religiose e razziali, la cui persistenza va difesa e serve a creare una barriera verso gli estranei, stranieri e/o immigrati, mai completamente assimilabili. In questo caso, l’appello al popolo assume contemporaneamente un volto integrativo, che chiama a raccolta contro gli alieni quanti discendono, o ritengono di discendere, dal ceppo originario attorno al quale la comunità popolare si è andata formando, e un volto divisivo, che esclude dal popolo gli elementi ritenuti estranei a prescindere dal loro possesso formale dei titoli di cittadinanza e nazionalità[83].
L’analisi di Mény e Surel, premesso che «in quanto sineddoche il “popolo” è la parte e il tutto, e indica tanto una determinata comunità quanto una sua componente»[84], distingue invece tre accezioni della parola, anch’esse raccordabili a usi diversi, come nello schema proposto da Canovan. Il popolo sovrano è il fondamento della legittimità politica dei governi, in quanto titolare originario del potere che in suo nome viene esercitato e che nelle sue mani deve essere concretamente riportato, e quando ci si presenta come i suoi portavoce (custodi, per dirla con il Rousseau citato dai due politologi francesi, del suo «ego morale collettivo alla ricerca costante del bene comune»), si possono nel contempo contestare i presunti tradimenti della funzione rappresentativa commessi dalle élite al potere e reclamare strumenti di controllo dal basso delle decisioni di interesse pubblico. Il perseguimento dell’ideale di un esercizio concreto delle funzioni di governo da parte dell’unico attore sul quale si basa la legittimità porta di conseguenza i populisti a proporre, per correggere le storture della rappresentanza, correttivi che vanno nella direzione di una democrazia diretta, quali il referendum, le proposte di legge di iniziativa popolare e i meccanismi di revoca di funzionari pubblici eletti o nominati, in una sorta di «ripresa aggiornata» della logica del mandato imperativo, di cui in alcuni casi si rivendica il ripristino. Il popolo classe, nel linguaggio di Mény e Surel, è invece quello che Hermet preferisce chiamare il «popolo plebe», la parte umile della popolazione, il microcosmo dei trascurati, la folla anonima sulle cui teste si abbattono le conseguenze di processi decisi e avviati «in alto» dai titolari del potere economico e dai politici infeudati alla tutela dei loro interessi, come le speculazioni finanziarie, gli smantellamenti e i trasferimenti degli apparati produttivi, le ristrutturazioni che scaricano sulla «gente qualunque», sui «piccoli», costi sociali come la disoccupazione o la precarietà degli impieghi lavorativi. I movimenti populisti che più spesso ricorrono a questa declinazione della nozione di «popolo» in genere lo raffigurano in costante rivolta contro i ricchi, al di fuori però degli schemi classisti, perché nella mentalità dei populisti ogni conflitto intestino che non prenda di mira il vertice del potere è visto con diffidenza se non con dichiarata ostilità, in quanto attenta all’unità dell’aggregato collettivo. Per tale ragione questo popolo ha una configurazione estesa e variegata e, lungi dal confinarsi nel proletariato, «si confonde con i piccoli imprenditori, i piccoli artigiani o i piccoli commercianti che si contrappongono agli agenti economici dominanti»[85]. Infine, il popolo nazione si lega ai connotati culturali dell’ethnos, è un gruppo la cui coesione è assicurata da legami geografici, linguistici, storici e biologici, in conformità con una tradizione intellettuale che vede nella comunità – non necessariamente coincidente con uno stato, giacché il sentimento nazionale può essere indirizzato verso un’entità territoriale substatuale, come una regione – un organismo vivente che, in una prospettiva olistica, integra e subordina a sé tutti gli individui che lo compongono. Partendo da questa visione, ci si richiama alla difesa del popolo per combattere le minacce alla sua integrità rappresentate innanzitutto dalla creazione di società plurietniche, di cui i populisti vedono come strumenti gli immigrati, come ideatori gli intellettuali cosmopoliti e i potentati economici e come garante, ancora una volta, il connivente ceto politico. I fautori di questa rappresentazione del popolo diffidano di ciò che è straniero e sconosciuto e sono portati a denunciare il pericolo di qualunque tipo di imperialismo, militare, politico, economico o culturale che sia[86].
La terza delle classificazioni più citate dei significati del concetto di «popolo», antecedente alla tripartizione di Mény e Surel, che in parte se ne sono ispirati, è stata tratteggiata da Taguieff, che, dopo aver distinto – con un esplicito riferimento alla categoria del «nazionalpopulismo» – l’appello al popolo intero, esente da divisioni di classi, riferimenti ideologici e connotazioni culturali, dall’appello al popolo autentico, semplice, sano e onesto, rivolto naturalmente al bene e dotato di un istinto infallibile, e dall’appello a quello che si potrebbe definire un popolo etnico, che discrimina fra gli individui residenti su un territorio in base alle origini etniche e alle appartenenze culturali, si è accontentato di una bipartizione fra demos ed ethnos. Nel «discorso demagogico» dei movimenti populisti, il riferimento al primo – la plebe, la massa popolare – condurrebbe a un «populismo di protesta», fondato sullo schema antagonistico piccoli contro grandi e/o grossi, mentre il richiamo al secondo darebbe corpo a un «populismo identitario», nel quale ai portatori di un’identità comune definita dalla condivisione delle radici etnoculturali vengono contrapposti gli stranieri, o i cittadini di origine straniera, e i sostenitori di idee cosmopolite[87].
Queste tre classificazioni illustrano, anche se non ne esauriscono la descrizione, la caratteristica più tipica della nozione di «popolo» utilizzata dai populisti: il suo carattere di «comunità immaginata», mitizzata, nel contempo parte e tutto, entità complessiva ma anche sua componente elevata a paradigma di un insieme idealizzato, migliore e più completo delle sue incarnazioni reali. Tutte queste immagini dell’interlocutore ideale del populismo possono essere considerate coerenti con la schema di pensiero che giace al fondo di questa mentalità, a patto di mettere in chiaro che esse vanno intese come diverse sfaccettature del soggetto che ciascun attore politico preferisce enfatizzare e non come concezioni insanabilmente in contrasto l’una con l’altra. Certo, se si sceglie di caratterizzare fortemente in senso etnico il popolo al quale si fa appello, all’interno di una società multietnica l’intensità integrativa del richiamo si riduce nel raggio di azione, ma la collettività individuata rimane, a livello di immaginario, unita e omogenea. Si modificano soltanto le argomentazioni utilizzate per sollecitarla a riscoprire le virtù offuscate e/o i diritti negati. Come hanno ben visto Mény e Surel, una delle caratteristiche del populismo è la sua capacità di utilizzare a seconda delle circostanze le diverse accezioni del termine «popolo», tanto che diventa quasi impossibile inglobare in una possibile definizione del fenomeno una concezione omogenea e stabile del suo referente ideale: «Il popolo infatti non esiste, non costituisce un’essenza, ma la base di consuetudini sociali fondate sul rifiuto ricorrente di alcuni elementi. Di conseguenza il populismo [...] assume posizioni diverse sulla base delle varie accezioni della comunità immaginata alla quale fa riferimento»[88] e del tipo di identità collettiva che si intende suscitare.
Il popolo dei populisti, nell’immagine ideale che fa da sfondo alla loro predicazione, è infatti sempre e comunque una totalità fondamentalmente omogenea ma non indifferenziata né egualitaria, perché accetta e valorizza le gerarchie e le funzioni ritenute naturali; è una comunità organica formata da tradizioni che si sono succedute e consolidate con l’avvicendarsi delle generazioni, depositaria delle virtù positive connesse all’esperienza e cosciente della propria identità e dei propri interessi, coincidenti con il bene comune. In questa prospettiva, al popolo si appartiene in virtù non di una particolare condizione sociale o professionale, ma di un destino comune che la tradizione e le circostanze assegnano: come si è detto ricordando l’analisi pionieristica di Incisa di Camerana, ci si sente popolo, istintivamente, accettando di riconoscersi in un’identità accomunante basata sul sentimento di fratellanza, alla quale si sottrae solo chi è sotto l’effetto di strategie manipolative poste in atto dai nemici della comunità. Il popolo autentico è una comunità basata sulla fiducia reciproca dei suoi componenti, che ha preso forma grazie ai legami storici che si sono coagulati, con l’andar del tempo, nel substrato delle sue tradizioni consolidate, che vengono tuttavia periodicamente messe in discussione da elementi marginali e refrattari a riconoscersi nei codici di comportamento correnti. È una collettività in tutto e per tutto superiore agli individui che la compongono, i quali solo riconoscendovisi possono conferire un senso pienamente soddisfacente alle proprie azioni e sentirsi realizzati. Ed è il depositario esclusivo di alcune delle migliori virtù umane – la dignità, l’onestà, la laboriosità, la generosità, lo spirito di sacrificio – messe a dura prova dall’azione corrosiva di classi dirigenti avide e amorali. È «lo scrigno nel quale si conserva un senso comune del quale il populismo si eleva a naturale interprete e di cui possiede il monopolio»[89].
Quali che siano, su altri versanti, gli elementi che li differenziano, tutti coloro che condividono la mentalità populista e non si limitano a riprenderne strumentalmente qualcuno dei corollari stilistici, che si richiamino per ragioni contingenti e strumentali all’ethnos piuttosto che al demos, ai derelitti piuttosto che all’onesta gente comune, coltivano la medesima concezione ideale di fondo del popolo, che lo vede come una totalità organica, perlomeno in potenza, e ne valorizza enfaticamente l’unità, l’omogeneità e l’unicità. Ogni movimento, leader o regime populista guarda però esclusivamente al «proprio» popolo, pur in genere promuovendo la visione dicotomica – e spesso manichea – dell’eterno conflitto tra masse sfruttate e classi dirigenti sfruttatrici a regola universale della politica. Se si assumesse l’espressione in senso letterale, il «popolo classe» cui fanno cenno Mény e Surel sarebbe un non senso, giacché non solo per i populisti la lotta di classe è inammissibile, ma ogni forma di divisione della comunità in gruppi separati e non comunicanti è inaccettabile: chi sostiene l’esistenza di classi portatrici di interessi distinti fomenta perciò inconsciamente perniciosi conflitti intestini. La logica che sorregge la mentalità populista è fondamentalmente organicista e, nel contempo, funzionalista: in seno alla comunità popolare naturale a ogni soggetto, in vista della tutela del bene comune, è assegnato un ruolo specifico; su qualunque gradino della scala sociale si sia collocati, svolgendolo correttamente si partecipa alla tutela dell’interesse collettivo. Vi è dunque una parità etica fra tutti i membri del popolo. Alcune funzioni o professioni possono comportare una maggiore considerazione pubblica, e in una certa misura si potrebbe supporre che il populismo accetti una partizione della collettività in ceti, se ad essi si collegano, come in Max Weber e in Werner Sombart, gradi diversi di «onore sociale», e dunque diverse attribuzioni di status; mai però questa concessione può ampliarsi sino ad ammettere l’esistenza di classi provviste di una specifica coscienza e perciò propense a organizzarsi autonomamente all’interno della società. Parlare di «popolo plebe» è invece più legittimo, poiché questa espressione sottintende il riferimento polemico allo stato di ingiusta subordinazione a cui la folla dei «senza nome» è costretta da chi le impone il peso del proprio potere, politico, economico, intellettuale, a volte anche religioso: in questo caso, l’iconografia alla quale ci si intende richiamare è quella dei «piccoli» che si contrappongono ai «grossi»[90], in una trasposizione della lotta tra Davide e Golia, anche se in questo caso la risorsa della dimensione – il numero – sta dalla parte del contendente buono.
Evocando l’immagine della plebe, ma anche quella della gente comune o di maggioranze silenziose, costrette a essere tali perché impegnate a lavorare, pagare le tasse e condurre una vita tranquilla e loro malgrado soggiogate e ingannate da minoranze rumorose[91], è sulla confisca del potere a profitto delle classi dirigenti che si vuol puntare l’indice. Nell’argomentazione populista, al popolo spetta sempre il ruolo della vittima a cui si offrono riscatto e vendetta, sia che ci si collochi all’opposizione nei confronti dell’establishment – in tal caso a chi sta in basso si chiede di ribellarsi contro chi sta, senza meritarlo, in alto – sia che si sia conquistato il potere. L’aver assunto responsabilità di governo spinge a valorizzare gli aspetti solidaristici del messaggio populista, a incitare all’impegno e al sacrificio di tutti per la conquista di traguardi comuni che andranno prima di tutto a vantaggio di chi si trova sui gradini più bassi della scala sociale ma non penalizzeranno gli altri ceti. A essere lodate, in entrambi i casi, sono le virtù usualmente praticate dalla «gente normale», a partire dal buonsenso e dall’etica lavorativa, oggetto di una vera e propria apologia dell’anonimo eroismo quotidiano. Com’è stato notato, il populismo propone «il modello placido di una società di piccoli, di modeste imprese, di ambizioni casalinghe, di cooperazione ravvicinata fra partner mossi da un riflesso quasi familiare di fiducioso aiuto reciproco»[92], esprime «un’aspirazione a ritrovare uno stare insieme politico che non si è ancora cristallizzata ideologicamente» quando questa sensazione di proficua coesistenza fra cittadini e governanti è entrata in crisi[93]. Se invece l’appello al popolo è mirato soprattutto a preservarne l’identità e fa leva sulla riaffermazione dei suoi connotati etnici, la polemica populista è rivolta in particolare a un’altra categoria di estranei: gli stranieri e, più ampiamente, i «diversi», e in generale tutti coloro che deviano dalle regole standardizzate nelle abitudini che si sono diffuse all’interno della comunità. Non sempre, tuttavia, costoro vengono messi al bando; in un certo numero di casi si chiede loro di ravvedersi – qualora la diversità che li contraddistingue sia collegata a comportamenti stigmatizzati sul piano etico – oppure di integrarsi (ma meglio sarebbe dire «assimilarsi», specialmente se ci si riferisce a immigrati) attraverso il servizio reso alla collettività e la rinuncia alle caratteristiche che più li distinguono dagli altri componenti del popolo, come le stigmate culturali o le credenze religiose[94].
Qualunque visione del popolo sottenda, la sostanza del messaggio populista resta comunque identica: il popolo deve riconciliarsi, sottraendosi al gioco fazioso dei partiti e degli artificiosi spartiacque di cui essi si servono per mantenere la discordia fra i loro sudditi, suturare le ferite che gli sono state inferte dai seminatori di zizzania, riprendere nelle proprie mani il timone della società che aveva abbandonato a piloti inesperti o disonesti, far prevalere le sue buone ragioni e reagire ai rischi di disgregazione o di decadenza, perché solo in seno a una comunità organica fedele ai precetti dell’ordine naturale potrà recuperare la sovranità di cui è stato espropriato ed esercitarla efficacemente. Obiettivi al cui conseguimento si oppongono tenacemente i suoi nemici, che i movimenti populisti promettono di combattere e sconfiggere.
L’universo mentale populista è infatti strutturato in forma dicotomica e manichea: chi non appartiene al popolo, chi non corrisponde alla sua immagine ideale, chi non coltiva i valori su cui si basano le genuine tradizioni autoctone e, volontariamente o per un riflesso condizionato da una diversa formazione culturale, se ne differenzia, è «non popolo»: una minaccia, un’insidia, un ostacolo da rimuovere. Il compito che i populisti si assegnano è stanare questi agenti patogeni, che hanno progressivamente fatto perdere a gran parte dei membri del popolo la consapevolezza di ciò che li unisce, tanto sul piano dei valori spirituali quanto su quello degli interessi materiali, anche quando agiscono dietro l’anonimato delle istituzioni, denunciare il pericolo da essi rappresentato e combatterli, talvolta ricorrendo a un armamentario argomentativo che attinge alle teorie del complotto (dello straniero, dei poteri forti, delle quinte colonne, degli invasori, dei gruppi a vocazione cosmopolita, delle organizzazioni internazionali, ecc.). Soltanto per questa ragione, assicurano ai potenziali seguaci tutti o quasi i leader populisti, costoro sono disposti a vincere l’innata riluttanza a occuparsi di politica – una sfera di azione che considerano insidiosa e impura, oltre che inutilmente complicata – ponendo le proprie energie al servizio del bene comune. Si potrebbe dire che, sottolineando ostentatamente questa condizione di outsider, il loro intento è quello di richiamarsi al modello di Cincinnato, l’eroe che non si sottrae al dovere delle armi perché la salvezza di Roma lo esige, ma non appena ha adempiuto al suo compito torna al piacere, e alle fatiche, della vita semplice di ogni giorno.
La chiave di volta della mentalità populista è la diffidenza verso tutto ciò che non può essere racchiuso nella dimensione dell’immediatezza, della semplicità, del rapporto diretto e visibile con la realtà, delle abitudini e delle tradizioni. Il suo primo nemico non è l’élite in quanto tale, ma la classe dirigente che ha tradito l’impegno di conformarsi alle necessità e ai desideri di chi ne legittima il ruolo e le ha affidato il compito di tutelare i propri interessi. Malgrado talvolta i suoi interpreti sostengano il contrario, per caricare di emotività il loro messaggio, il progetto populista è bonificare la politica, non sconvolgere l’ordine sociale attraverso una rivoluzione. Le posizioni di preminenza sociale a cui si è giunti percorrendo la via ordinaria e lodevole del lavoro e dell’impegno produttivo non vengono messe in discussione e solitamente la ricchezza acquisita onestamente non viene demonizzata; a essere biasimato e colpito è invece il privilegio conquistato senza merito, in modo non limpido. L’ostilità populista verso l’élite, tanto citata dalla letteratura accademica, deve essere intesa come la condanna di un blocco di potere autoreferenziale, oligarchico, sdegnosamente distante dalla gente comune, i cui modi di procedere sono offuscati dall’omertà e dalla riservatezza, custodita dall’immagine (non sempre solo metaforica) degli inaccessibili palazzi dove si prendono le decisioni che contano.
A conferma di ciò, nel pantheon populista dei nemici del popolo il posto d’onore spetta al mondo della politica, popolato esclusivamente da parassiti, che sfruttano i sacrifici della gente semplice per il proprio esclusivo tornaconto, e da usurpatori, che hanno sottratto al popolo la sovranità che gli spetterebbe. Partiti e politici di professione sono considerati i principali responsabili dei problemi irrisolti che affliggono la società, e se ne denunciano instancabilmente con toni aspri la permeabilità alla corruzione e al clientelismo, l’indifferenza ai desideri delle masse, la rissosità, l’inconcludenza. A chi vive di politica si rimproverano lo spirito di casta, l’oscuro linguaggio da iniziato esibito a mo’ di status symbol, la sensibilità agli interessi particolari di quanti possono garantirgli la rielezione, l’agiatezza ingiustificata di chi nella vita «sa solo fare chiacchiere» e rifiuta la fatica del vero lavoro. Dei parlamenti si deplorano le perdite di tempo, le ipocrite ritualità, l’esasperata propensione alla mediazione e al compromesso. Applicata alla politica, la visione semplificatrice dei processi sociali tipica del populismo si traduce nella richiesta di una prassi trasparente e rapida e nella convinzione che molte soluzioni di annosi problemi sarebbero a portata di mano se solo si ricorresse al buonsenso con cui ciascun cittadino risolve le questioni di ogni giorno; dunque, se non le si adotta, è perché non convengono a questo o a quel gruppo di potenti e ai professionisti della politica, che tirandola per le lunghe possono ricattare i clienti e trarne illeciti vantaggi.
Questo modo di vedere le cose ha portato ad associare sistematicamente il populismo all’antipolitica, a ridurlo ad essa o addirittura a proporre di sostituire il primo concetto con il secondo; ma benché il connubio sia frequente, l’equiparazione tra i due fenomeni non è giustificata, e merita un chiarimento in sede critica.
Il termine «antipolitica» – più raramente specificato come «antipartitismo» – ha ormai una storia consolidata nelle scienze sociali e la varietà dei suoi significati è stata oggetto di interessanti trattazioni[95]. Sulla sua maggiore utilità rispetto al termine «populismo» per connotare una serie di fenomeni politici ai quali entrambe le etichette vengono usualmente applicate ha insistito molto Mastropaolo, considerandola un po’ più neutra rispetto ai possibili – e frequenti – usi stigmatizzanti cui questa espressione è soggetta. Il suggerimento ha avuto un certo grado di successo, anche nel lessico comune della politica, senza però risolvere, e anzi aggravando, il problema di eccessiva estensione semantica che i sostenitori della preferibilità di questa parola imputano al populismo. Per rendersene conto, basta far riferimento proprio all’esplorazione della nozione compiuta in varie fasi dall’autore del rilievo critico citato.
In un primo momento, Mastropaolo ha sostenuto che, «a ben pensarci, l’antipolitica altro non è che la versione aggiornata di quell’antico fenomeno, pur sempre di vaga e ardua definizione che è il populismo»[96]. Qualche anno dopo la sua visuale si è articolata, abbracciando nel contempo più espressioni del fenomeno. Fra questi, i movimenti che criticano la politica così com’è o a loro appare, mirando a renderla «più trasparente e più democratica mediante una partecipazione ampia e continuativa del cittadino comune alla conduzione della cosa pubblica» e i soggetti che «alla democrazia confiscata dai partiti» oppongono «il più episodico coinvolgimento consentito dai referendum, dalle iniziative popolari e magari anche dai sondaggi», i sostenitori di governi tecnocratici, «che alle distorsioni della politica tradizionale vo[gliono] sostituire la competenza dei tecnici», seguendo la ricetta neoliberale «che preferisce gli automatismi del mercato». Una diversa collocazione, accanto a tutte queste forme, ritenute compatibili con la tradizione liberaldemocratica, è stata assegnata all’«antipolitica berlusconiana», che a tale tradizione sarebbe estranea perché inneggia alle forme della democrazia liberale ma «ne brutalizza la sostanza proponendo un inquietante fondamentalismo democratico (e iperpolitico) in cui convivono suggestioni liberali e tensioni plebiscitarie, insofferenza per il pluralismo e ancor più propensione a quella che i classici definivano la “tirannia della maggioranza”, rinnegando per cominciare la divisione dei poteri»[97]. Un ulteriore raffinamento ha portato l’autore a considerare l’antipolitica sinonimo di «malessere democratico», a vederne l’incarnazione in discorsi e retoriche critici nei confronti della politica – ma divisi in due sottotipi: quelli «che definiscono la politica superflua, e perciò da sopprimere, o da ridurre al minimo» e altri per i quali «la politica è da sottomettere, o da rinnovare radicalmente» – e a distinguerne un ulteriore uso, per designare partiti e movimenti «la cui cifra distintiva risiede nell’utilizzo di retoriche antipolitiche per opporsi alle dirigenze politiche e ai partiti tradizionali»[98].
Definire estensivi i significati inclusi in questa accezione del concetto è addirittura eufemistico. E lo stesso Mastropaolo se ne rende conto, quando finisce con il giudicare l’etichetta che pure predilige «tanto larga, quanto fumosa e sprezzante», perché denomina troppe cose insieme e il suo impiego è talvolta «squalificante e riduttivo»[99]. Sorge dunque il sospetto che, sostituendo antipolitica a populismo, si finisca con il cadere dalla padella nella brace, o, meglio, da un lato a voler ridurre il carattere complesso del populismo a una sola delle sue componenti (la visione semplicistica e semplificatrice della politica, vista come una semplice estensione dei compiti che spettano a chiunque conduca la vita di un nucleo familiare) e dall’altro a forgiare una nozione predisposta a usi valutativi (la buona antipolitica verso quella cattiva). Recenti tentativi di specificazione, che chiamano in causa fra l’altro la direzione dall’alto o dal basso delle spinte antipolitiche[100], hanno cercato di liberare il concetto da tali ambiguità, ma non convincono della possibilità di sostituirlo alla nozione di populismo per designare con maggiore nitidezza la sostanza dei fenomeni che è chiamato ad analizzare. Né cancellano il sospetto che l’antipatia verso la parola «populismo» sia dovuta in taluni casi al dubbio, poco scientifico, che essa possa attribuire ad attori politici detestati «il monopolio del popolo e delle classi popolari»[101]. Lo stesso discorso vale per i tentativi di chi, invece che di «antipolitica», preferisce parlare di «antipartitismo»[102]. Per quanto individuare la specificità di questo sentimento e degli atteggiamenti che ne discendono sia utile e, come accennato, un substrato antipartitico sia sempre presente nella mentalità che stiamo cercando di definire e circoscrivere, gli studi che ne indagano la varietà ci rafforzano nella convinzione che il suo raggio di inclusione sia, come nel caso precedente, decisamente meno ampio di quello che caratterizza la nozione di populismo. Ovvero che siano l’antipolitica e l’antipartitismo a dover essere considerati espressioni – fra le altre – della mentalità populista, e non l’inverso.
Per quanto infatti siano spinti dall’impazienza e dal culto della semplificazione a diffidare della politica e a dipingerla come un luogo dove regnano pigrizia, corruzione e parassitismo, e sebbene l’esistenza di un diffuso atteggiamento antipolitico possa essere considerato «la condizione preliminare per la delega incondizionata dell’autorità al leader populista»[103], i movimenti populisti non rifuggono mai dal misurarsi con i concorrenti sul piano della conquista del consenso e delle leve del potere; anzi, rovesciare il ceto politico professionale e sostituirlo con uomini nuovi forgiatisi grazie al lavoro e alla competenza, e quindi in grado di presentarsi nelle vesti di dilettanti di successo mossi esclusivamente dalla passione civile, è per loro un vero e proprio imperativo. La loro dunque è un’azione antipolitica quando si esprime in forme di pura protesta, ma ogni volta che si cimenta sul terreno della competizione istituzionalizzata con altri soggetti, a partire dalla partecipazione alle elezioni, si trasforma in azione squisitamente politica, sia pur sempre esplicitamente rivolta contro l’establishment. Non solo: la loro azione è servita come valvola di sfogo per settori della società profondamente delusi dal malfunzionamento della democrazia, che avrebbero potuto altrimenti essere attratti dalle sirene di un estremismo violento. E non si può trascurare il fatto che, in tutti i casi in cui in contesti democratici consolidati i movimenti populisti sono entrati in coalizioni di governo, non hanno cercato di modificare i caratteri di fondo del regime[104]. Si può perciò concordare con chi sostiene che «il populismo spoliticizza e iperpoliticizza contemporaneamente le relazioni sociali»[105] ai propri scopi, facendo mostra di estraneità dalla politica per potervisi meglio inserire.
Del resto, non è solo nel recinto della politica che la mentalità populista individua i nemici da combattere. La sua visione si estende all’intera società e prende di mira altre categorie di parassiti e profittatori, appartenenti a quella oligarchia dal cui condizionamento il popolo deve liberarsi. Sul terreno economico, accetta la formazione di ricchezze costruite sul lavoro, sull’ingegno e sulla fatica – componenti essenziali del suo elogio dell’uomo comune – ma respinge drasticamente il potere esercitato dalla finanza, di cui detesta il carattere smaterializzato, anonimo e, per definizione e vocazione, cosmopolita. Il capitalismo «usuraio», a volte contrapposto a un capitalismo produttivo diffuso, «popolare» e per ciò sano e legittimo, è uno dei suoi bersagli prediletti, e la connivenza tra il potere dei finanzieri (i burattinai) e quello dei politici (i burattini) è spesso al centro delle sue invettive e delle ricostruzioni complottistiche degli eventi che costituiscono uno dei piatti forti della retorica dei suoi esponenti. Le gerarchie basate sul denaro contrastano nettamente con gli ideali del populismo, che non a caso nelle sue prime manifestazioni di rilievo in epoca moderna, in Russia e negli Stati Uniti, ha fatto del contadino, quintessenza del lavoro produttivo e vittima esemplare dello sfruttamento, la propria icona, e agli effetti nefasti dell’economia si ricollega un altro degli spauracchi dei populisti, la lotta di classe, minaccia mortale all’unità naturale del popolo e strumento di disgregazione della comunità in cui esso vive. Anche nelle sue coniugazioni con il socialismo, frequenti nel Terzo mondo, il populismo ha sempre abbracciato un ideale di riconciliazione della collettività fondato sulla preminenza di una giustizia sociale amministrata con spirito paternalistico, fustigando gli agitatori sociali e i fomentatori di conflitti intestini, paragonati agli untori. Hermet ha fotografato efficacemente questo modo di vedere le cose quando ha scritto che i populisti sono «i predicatori di commoventi incontri nazionali di vecchi amici in cui gli operai fraternizzerebbero con i padroni, gli abitanti delle città con quelli delle campagne, e dai quali verrebbero esclusi soltanto i politici corrotti, i burocrati bardati di diplomi ma privi di un’anima e altri tipi di intellettuali»[106].
Le ultime due categorie nominate nella frase appena citata figurano stabilmente nel novero dei tradizionali nemici del populismo. I burocrati, come i tecnocrati e gli esperti, si sono guadagnati questa considerazione negativa perché concorrono, in forme diverse ma concomitanti, a offuscare la visione semplice e naturale della società cara a chi ne diffida o li disprezza. I loro linguaggi negano alla radice la semplicità e l’immediatezza dei rapporti interpersonali; la lentezza e la prudenza che caratterizzano il loro modo di agire vengono interpretate non come esigenze dettate dalla funzione esercitata ma come un segno di cattiva volontà e di arroganza (nei burocrati) o di supponenza e distacco (nei tecnici e negli esperti). Il vero prototipo della figura del parassita, dell’arrogante e del perditempo che il populista detesta dal profondo del cuore è però l’intellettuale, che peraltro aggrava le proprie colpe accusando di rozzezza e stupidità chi lo descrive come un fannullone inadatto al «vero» lavoro. Negli intellettuali, specialmente in quelli che si affacciano alla ribalta della politica attraverso i media, il populismo vede dei propalatori di discordia, le cui teorie e ideologie hanno il difetto imperdonabile dell’astrattezza e l’unico e pernicioso effetto di distrarre l’attenzione del pubblico dai problemi della vita di tutti i giorni, complicandone ulteriormente la soluzione. A questa casta sentenziosa viene di solito attribuita anche la responsabilità della corruzione dei principi morali su cui il popolo aveva costruito la sua originaria coesione, ormai corrosa e da ricostruire: a riprova di questo nesso di causalità viene spesso citato il fatto che la solidarietà verso i «diversi» che da tali principi si sono discostati – gli omosessuali, i vagabondi senza dimora, i nomadi, gli emarginati che rifiutano il lavoro e via dicendo – proviene essenzialmente da ambienti culturalmente impegnati.
Un ultimo ma importante novero di nemici del popolo è costituito dagli agenti esterni che possono minarne la compattezza. Nell’immaginario cospirativo che ha caratterizzato molte forme di populismo a tutte le latitudini, per molti decenni un ruolo di primo piano è stato assegnato a soggetti che si sospettavano manovrati da potenze straniere o guidati da interessi estranei alla nazione, come i massoni o gli ebrei, ma di recente la diffidenza populista si è concentrata sugli immigrati da altri paesi e su tutti quei soggetti o enti ai quali si imputa di manovrarne, preordinarne o favorirne l’ingresso. L’internazionalità e il cosmopolitismo, da sempre aborriti, hanno infatti assunto progressivamente le sembianze esemplari della società multietnica e multiculturale, ancora più preoccupante agli occhi di chi condivide una mentalità populista in quanto introduce un elemento di stabile divisione della società e di complicazione dei rapporti fra i suoi membri, quando addirittura non è vista come la premessa di una progressiva «sostituzione di popolazione», destinata in tempi più o meno lunghi a ridurre a minoranza il ceppo autoctono. Ciò spiega perché nei movimenti populisti abbia oggi assunto un forte rilievo la predicazione di opinioni xenofobe, caratterizzate cioè, come ha messo in rilievo Giovanni Sartori, da una paura dello straniero, più che da un suo rifiuto caratterizzato da presupposti di superiorità razziale (tipici invece degli ambienti di estrema destra)[107].