2. Da Copenaghen a Strasburgo: la lunga marcia del populismo in Europa

Una prima modifica di questo piatto panorama interviene nel 1972. Un anno prima, in una breve intervista televisiva, il noto avvocato di Copenaghen Mogens Glistrup, impegnato in un duro contenzioso con il fisco del suo paese, aveva dichiarato di non avere alcuna intenzione di pagare l’imposta sul reddito, da lui giudicata esosa, e di poterlo fare senza infrangere la legge. I suoi espedienti non vennero considerati legali e gli valsero una condanna penale, ma accrebbero la sua popolarità e attirarono molte simpatie fra i cittadini che giudicavano troppo elevato il prezzo da pagare per il mantenimento dello stato sociale[26]. Fiutato il vento favorevole, Glistrup decise l’anno successivo di fondare un movimento che si proponeva di opporsi alla pressione tributaria e di raccogliere lo scontento dei danesi verso la pubblica amministrazione. Battendo sui tasti della retorica della rivolta dell’uomo della strada contro gli abusi dei potenti, nelle elezioni parlamentari del 1973 il suo Fremskridtsparti (Partito del progresso) ottenne il 16% dei voti, sconvolgendo un assetto del sistema partitico consolidato da decenni e provocando una forte eco anche oltreconfine. Se infatti nei paesi più lontani il successo di questo inedito tipo di «progressisti» venne liquidato dai mezzi d’informazione come una folcloristica ribellione antifiscale[27] priva di altri aspetti degni di interesse, in un raggio geografico più ristretto il messaggio di Glistrup suscitò echi politici sensibili, tanto che una formazione ispirata anche nel nome a posizioni analoghe, il Fremskrittsparti capeggiato da Anders Lange, che in un primo momento si era denominato «Partito per una forte riduzione delle tasse, delle imposte e dell’intervento pubblico», riuscì a raccogliere una quota di consensi elettorali – il 5% – sufficiente a consentirgli di entrare in parlamento in Norvegia. Oggi è lecito sostenere che i risultati ottenuti dalle liste presentate da quei due improvvisati movimenti hanno innescato un lento effetto domino, facendo nascere (a volte per scomparire rapidamente e altrettanto d’improvviso riapparire) un numero rilevante di formazioni – fra il 1971 e il 2014 ne sono state contate una sessantina – che, sbandierando l’aperta volontà di tenersi lontani da tutte le ideologie che hanno sostanziato la storia politica del Novecento e di trasgredire i confini convenzionalmente tracciati tra sinistra e destra, hanno ripreso nei propri programmi molti degli elementi dell’immaginario populista di cui abbiamo in precedenza tracciato le grandi linee, modificandoli in vario modo per adattarli alle esigenze dei contesti al cui interno miravano a guadagnare consenso, senza peraltro stravolgerli.

In un primo momento, le potenzialità di espansione di queste pionieristiche esperienze non sono state colte dagli osservatori e l’etichetta populista è stata utilizzata di preferenza per descrivere aspetti specifici di fenomeni più complessi e sostanzialmente estranei al quadro ideale della corrente di idee che aveva dato loro nascita, come il castrismo a sinistra o il neoconservatorismo liberale e venato di nazionalismo di Ronald Reagan e Margaret Thatcher a destra. In questi casi a essere in discussione era esclusivamente il presunto carattere populista dello stile comunicativo di un capo di governo o di taluni dei provvedimenti da lui (o lei) fatti adottare; si trattava insomma di giudicare il tasso di populismo «allo stato benigno»[28] circolante all’interno di un sistema politico.

Ben diversa è stata la reazione degli osservatori quando il rientro sulla scena politica delle argomentazioni populiste ha assunto proporzioni più consistenti e forme più coerenti. Il caso del Pasok, il movimento socialista panellenico guidato da Andreas Papandreou che nel 1981 conquistò il potere riuscendo a mantenere le redini del governo per gran parte degli anni successivi, è stato trattato con relativo equilibrio, stante la collocazione del partito all’interno di una delle grandi famiglie tradizionali, e i suoi caratteri populisti sono stati attribuiti in gran parte all’anomala configurazione della cultura politica greca e alle doti tribunizie del suo ispiratore e capo, senza scomodare ingombranti parentele che ne avrebbero squalificato l’immagine in campo internazionale[29]. Ma quando il Front national nel 1984 in Francia ottenne il suo primo rilevante risultato, raccogliendo l’11,2% dei voti alle elezioni per il Parlamento europeo e conquistando 10 seggi, la percezione che un evento imprevisto e tuttavia da tempo temuto si stava materializzando suscitò immediatamente allarme e denunce.

Alla radice di questa accoglienza negativa stava il fatto che il Front national, fondato nel 1972 allo scopo di fornire rispettabilità a un movimento di estrema destra, Ordre nouveau, affiancandogli un piccolo gruppo di notabili del nazionalismo francese, era un partito che sino a pochi anni prima aveva professato opinioni neofasciste e tenuto atteggiamenti oltranzisti[30], ma da qualche tempo aveva iniziato una netta virata verso toni e temi schiettamente populisti. Il fatto che il suo presidente, Jean-Marie Le Pen, fosse stato eletto nel 1956 deputato nelle liste dell’Uff di Poujade lasciava temere che il ricongiungimento delle idee e dello stile del populismo con un retroterra fascista fosse ormai scontato e che le conseguenze che quel connubio aveva causato potessero riprodursi. L’inquietudine era destinata a crescere nel 1986 quando il giovane Jörg Haider, capofila della corrente più radicale, assunse la guida della Freiheitliche Partei Österreichs (Fpö), un partito liberalnazionale in crisi di consensi, spostandone a destra l’asse e innescando, con l’assunzione di un programma e di una retorica apertamente populisti – Haider è stato uno dei pochi uomini politici che non hanno respinto questa etichetta ma si sono sforzati di conferirle un senso positivo –, un circolo virtuoso di successi elettorali che soltanto nel 2003 si è temporaneamente interrotto, anche per l’abbandono del leader carinziano e la sua decisione di creare una formazione concorrente, il Bzö (Bundnis Zukunft Österreichs), per poi riprendere con pari vigore[31]. Da allora in poi di «populismo», o più spesso di «nuovo populismo» o «neopopulismo», si è parlato con sempre maggiore frequenza sui giornali e nei seminari scientifici, inseguendo gli alti e bassi di una tendenza che sino a oggi è apparsa altalenante ma nel complesso si è dimostrata significativa e diffusa in ambiti sociali e geografici disparati, sebbene, per motivi cui faremo cenno in seguito, si sia affermata soprattutto nel campo conservatore o di destra, a scapito di quella trasversalità che quasi tutti gli esponenti delle formazioni comprese in questo filone tengono a rivendicare.

Una sintetica ricostruzione dei passi compiuti dai partiti etichettati come «populisti», «neopopulisti» o «nazionalpopulisti» – seguendo il suggerimento di Taguieff, che ha sottolineato lo stretto nesso esistente nei loro programmi fra popolo e nazione – può dare conto dell’ampiezza della loro presenza in Europa, prima nel suo versante occidentale e, dopo il 1989, anche all’Est.

Sebbene i suoi esordi abbiano suscitato scarsa attenzione al di là delle frontiere della penisola e gli stessi evidenti tratti populisti del suo discorso non fossero stati identificati come tali dalla maggior parte degli osservatori, che avrebbero avuto modo di ricredersi solo qualche anno dopo, l’ingresso del leghismo nelle istituzioni italiane è stato un tratto pionieristico di questo fenomeno. Riuscendo a far eleggere un deputato e un senatore della Liga veneta nel 1983 e altrettanti rappresentanti della Lega lombarda nel 1987, il movimento – ancora da quasi tutti considerato puramente etnoregionalista – assicurava agli argomenti populisti una voce di cui da molto tempo mancavano nel paese che pure, grazie a Guglielmo Giannini, per primo li aveva reintrodotti nel circuito della politica ufficiale sottraendoli a un destino che li aveva confinati nel mugugno del popolino. Molta più sensazione tuttavia fece, per il timore di veder riaffiorare l’ombra di quella mitizzazione della comunità popolare (la Volksgemeinschaft) che era stata uno dei cavalli di battaglia del nazionalsocialismo prima e durante il Terzo Reich, l’effimera fiammata dei Republikaner tedeschi guidati da Franz Schönhuber, che peraltro, dopo aver conquistato il 7,1% dei voti nel 1989 alle elezioni per il Parlamento europeo, portando a Strasburgo 6 rappresentanti, a causa dell’incapacità di emanciparsi dal tema ormai superato del nazionalismo pantedesco, videro sgonfiarsi il serbatoio di consensi nell’arco di poco più di un anno, raggiungendo solo il 2,1% alle elezioni politiche dell’autunno 1990, le prime tenutesi nella Germania riunificata, e vedendosi sorpassati da un diretto concorrente collocato ancora più a destra, la Deutsche Volksunion di Gerhard Frey, brillante in alcune elezioni regionali ma entrata quasi subito in stallo[32].

Le manifestazioni del populismo si sono poi progressivamente estese ad altri paesi. Una prima fase, coincisa con gli anni Novanta dello scorso secolo, ha visto sia fiammate effimere, come quella che in Svezia ha avuto a protagonista l’instant party Ny Demokrati nel 1991, quando raggiunse il 6,7% e mandò in parlamento 25 deputati per crollare all’1,2% nel 1994 e rapidamente dissolversi[33], o che in Gran Bretagna ha fatto assurgere a notorietà continentale il British National Party (Bnp, riemerso peraltro dalla marginalità tre lustri più tardi) per il solo fatto di aver conquistato un consigliere comunale nella piccola località di Millwall nel 1993, sia successi destinati a persistere. In quel periodo, un notevole grado di radicamento ha infatti caratterizzato varie formazioni populiste. Nelle Fiandre belghe il Vlaams Blok è giunto a godere dei favori di un settimo dell’elettorato della regione. In Italia la Lega Nord, accentuando i toni di rottura del suo programma, ha toccato il massimo storico del 10,2% a livello nazionale nel 1996, dopo aver conquistato due anni prima una forte rappresentanza parlamentare grazie all’alleanza con Forza Italia. In Austria la Fpö si è attestata sopra il 20% dei consensi lungo l’intero decennio, suscitando le allarmate reazioni dell’Unione Europea con il 26,9% ottenuto nel 1999 e il conseguente accesso al governo in coalizione con i popolari dell’Övp. In Francia il Front national, pur penalizzato dal sistema elettorale che gli ha impedito di andare oltre i due eletti alla Camera malgrado punte di consenso attorno al 15%, è stato ben rappresentato nei consigli regionali, ha conquistato quattro comuni di rilievo ed è riuscito a toccare con il suo leader il 15,3% alle presidenziali del 1995. In Svizzera, l’Unione democratica di centro (Udc-Svp), sino ad allora partito tradizionale minore, dopo l’ascesa ai vertici di Christoph Blocher, che ha dato libero sfogo alla mentalità populista con accenti radicali, distinguendosi soprattutto grazie alla vittoriosa campagna referendaria del 1992 contro l’adesione della Confederazione allo Spazio economico europeo, è salita al secondo posto nelle preferenze dell’elettorato nelle consultazioni nazionali del 1999 con il 22,8%, mentre anche la Lega ticinese si ritagliava un cospicuo spazio nel proprio cantone. In Danimarca il Dansk Folkeparti, nato da una scissione dell’indebolito partito di Glistrup e guidato da una donna, Pja Kjaersgaard, grazie all’adozione di propositi più radicali soprattutto in tema di immigrazione ha superato con successo la prima prova elettorale nel 1998 con il 7,4% dei voti, destinato a crescere in tutte le successive consultazioni. In Norvegia il Partito del progresso, passato nelle mani di un leader autorevole, Carl I. Hagen, si è trasformato nel terzo incomodo nel tradizionale scontro tra socialdemocratici e conservatori. Negli stessi anni, il fenomeno ha iniziato a trovare sfogo anche nella parte orientale del continente, in particolare in Russia, dove il Partito liberaldemocratico dell’esuberante Vladimir Žirinovskij ha raccolto ben il 22,9% nel 1993, in Ungheria, con il Miép al 5,5% nel 1998 e in Romania con il Partidul România Mare[34].

A far capire che il populismo era qualcosa di più di uno sgradito ospite di passaggio nel panorama politico del Vecchio continente è stata però soprattutto la terza ondata del fenomeno, sviluppatasi a partire dal 2000. A impressionare è stata l’espansione a macchia d’olio della sua presenza, che ha toccato paesi che sino ad allora ne erano considerati strutturalmente immuni. Pur con alti e bassi, l’Europa occidentale ha visto una complessiva crescita elettorale delle formazioni ricollegabili più o meno direttamente a questa famiglia informale. In Germania le incursioni sono state effimere e soprattutto locali, con formazioni di consistenza organizzativa molto scarsa che hanno ottenuto successi rilevanti ma transitori, di cui è esempio il 19,4% alle elezioni del parlamento regionale di Amburgo della lista della Partei Rechtsstaatlicher Offensive (Partito dell’offensiva dello stato di diritto) guidata dal giudice Ronald Schill, balzato agli onori delle cronache per la sua lotta alla corruzione e all’immigrazione. In Olanda, invece, probabilmente soltanto l’assassinio del leader ha impedito alla lista formata dal sociologo ex marxista Pim Fortuyn, populista anomalo per la sua omosessualità dichiarata e rivendicata orgogliosamente, in spregio del culto dei valori morali tradizionali fervidamente celebrato dagli altri esponenti di questa famiglia di idee, di coronare il sogno di diventare in breve tempo la prima forza politica. All’insegna del motto Leefbaar Nederland (Un’Olanda sostenibile) e di una campagna di protesta che aveva nell’immigrazione – soprattutto islamica – e nella chiusura corporativa della classe politica i bersagli presi più duramente di mira, Fortuyn aveva fatto sensazione, ottenendo il 35% alle elezioni comunali di Rotterdam, e di lui si parlava come di un possibile primo ministro. Il suo credo libertario, antistatalista, critico nei confronti della burocrazia, dell’immigrazione e del multiculturalismo ne faceva un portavoce di alcune delle più tipiche istanze populiste, alle quali univa peraltro un insolito apprezzamento per talune rivendicazioni femministe e un deciso liberismo economico. La rapida dissoluzione, a seguito di vivaci dissensi intestini, della lista intitolata al suo nome, ridimensionata al 5,7% nel 2003 e piombata allo 0,2% nel 2006, malgrado il 17% raccolto nel maggio 2002, che le aveva consentito l’ingresso nel governo, impedisce di capire quali sviluppi avrebbe potuto avere il «modello olandese di populismo»[35] qualora il suo fondatore avesse potuto continuare a pilotarlo. Sta di fatto che nel 2006 un liberale dissidente, Geert Wilders, ha colto l’occasione che la crisi della Lpf gli offriva e, fondando il Partij Voor de Vrijheid (Partito della libertà), ha ripreso, accentuandone la radicalità, i temi divulgati da Fortuyn, allargandoli alla contestazione dell’Unione Europea, raccogliendo il 5,9% alle elezioni del 2006, il 15,4% nel 2010 e il 10,1% nel 2012. Nello stesso arco di tempo, l’Udc è diventata il partito preferito dagli elettori elvetici raggiungendo nel 2007 il 28,9%, in Norvegia il Partito del progresso è salito al 23% nel 2009, il Vlaams Blok ha toccato l’11,7% nel 2003, in Svezia gli Sverigedemokraterna (Democratici svedesi) hanno raccolto l’eredità di Ny Demokrati entrando nel 2010 in parlamento con il 5,7% e nel 2003 un altro fronte si è aperto davanti all’offensiva populista, con l’ingresso nel parlamento di Helsinki di uno dei più pittoreschi personaggi di questa pur già colorita specie politica, l’irruento pugile e cantante Tony Halme, avversario dell’immigrazione e difensore della «Finlandia integrale» e dei diritti della terza età, e di un paio di suoi compagni di lista, destinati a essere seguiti dai Perussuomalaiset, i Veri finlandesi[36], capaci di ottenere il 14,1% nelle elezioni nazionali del 2007 e il 19% in quelle del 2011.

L’Europa occidentale ha dunque offerto al populismo movimentista – quello cioè che si impegna nell’agitazione dei suoi temi a tempo pieno, non limitandosi a farne una componente retorica o stilistica coniugabile con altri credo ideologici – una serie di tribune rilevanti dall’alto delle quali far sentire la sua voce, seppur con il limite, tipico di formazioni politiche determinate a parlare ciascuna solo alla propria gente, al popolo del proprio paese, di non poter suscitare, se non tramite il canale indiretto dei commentatori e degli avversari, un’eco cumulativa sul piano internazionale. Se si considera che anche in Grecia alcuni segni della mentalità nazionalpopulista si sono fatti strada, pur in un penalizzante amalgama con il sottofondo ideologico dell’estrema destra, prima nel Laikos Orthodoxos Synagermos (Laos, 5,6% e 15 deputati nel 2009) e poi in Chrysí Avgí (Alba Dorata, 7% nel 2012), e che in Gran Bretagna, pur scontando l’handicap non indifferente di un sistema elettorale uninominale a turno unico, ben due formazioni, il già citato Bnp, tuttora oscillante fra il campo populista e l’estrema destra[37], e lo United Kingdom Independence Party (Ukip)[38], hanno tratto notevoli benefici da analoghe aperture sia nelle elezioni locali sia in quelle europee, soltanto l’Irlanda, la Spagna, dove pure qualche esperimento si è verificato con le liste di scarso successo presentate da Ruiz-Mateos, Gil y Gil e Plataforma per Catalunya[39], e il Portogallo[40] sembrano esserne esenti. Ma non si può certo dire che nei paesi dell’Est il fenomeno non abbia attecchito.

Dopo il 1989, in Russia, al di là del caso Žirinovskij, il populismo si è manifestato attraverso una molteplicità di soggetti, dal movimento nazionalpatriottico di opposizione a Boris Eltsin, che ha suscitato la convergenza di elementi di sinistra e di destra in nome del popolo tradito dai nuovi governanti democratici, alla candidatura alla presidenza della Federazione del generale Aleksandr Lebed, senza escludere il nuovo Partito comunista di Ghennadi Ziuganov. In Romania Corneliu Vadim Tudor, che del populismo ha mostrato di essere, nei temi e negli atteggiamenti, una quintessenza, è giunto al ballottaggio nelle elezioni presidenziali del 2000 e il suo Partito della grande Romania (România Mare) fra il 2000 e il 2004 è stato il secondo per consistenza di seggi in Parlamento, ottenendo il 28% dei consensi. In Polonia, a prescindere dalle connotazioni populiste attribuite a Lech Wałęsa e ad altri uomini politici di caratura istituzionale come il presidente Alexander Kwaśniewski, il fenomeno è stato incarnato in un primo tempo dalla candidatura alla presidenza della Repubblica di Stanisław Tymiński, incarnazione perfetta dell’outsider deciso a turbare i sonni della classe politica professionale con il sostegno di forti risorse economiche, di una nomea di «vincente» e di una vocazione alla demagogia; in seguito le idee populiste hanno trovato contemporaneamente una versione di destra, con la Liga Polskich Rodzin (Lega delle famiglie polacche) che nel 2005 ha ottenuto l’8%, e una di sinistra, Samoobrona Rzeczpospolitej Polskiej (Autodifesa della Repubblica Polacca), al contempo partito e sindacato agricolo, che nella medesima occasione è arrivato all’11,4%[41]. In Jugoslavia e poi in Serbia le istanze populiste sono state sostenute principalmente dal Srpske Radikalne Stranke (Srs) del nazionalista Vojislav Šešelj (27,5% nel 2003, primo partito del paese), più che dal Socijalistička Partija Srbije (Srs, Partito socialista serbo) di Slobodan Milošević (7,6% nella stessa occasione), al quale l’epiteto non è stato, al pari di molti altri, risparmiato. In Slovacchia se ne è appropriata una congerie di personaggi pubblici, a partire dal primo ministro del periodo immediatamente successivo all’indipendenza Vladimír Mečiar per arrivare allo Smer di Robert Fico, diventato primo ministro in un governo di coalizione in cui era inclusa la Slovenská Národná Strana (Partito nazionale slovacco, 11,7% nel 2006). In Cechia posizioni analoghe sono state sostenute dal Partito dei repubblicani (Republikánská Strana), apertamente ispirati agli omonimi tedeschi. In Ungheria nel 1998 il Magyar Igazság és Élet Pártja (Miép, Partito della verità e della vita ungherese), guidato dallo scrittore Istvan Csurka, è riuscito a portare in parlamento una piccola pattuglia di deputati, ma quando le idee populiste hanno preso a espandersi fortemente nella pubblica opinione, a contendersene il monopolio sono stati il più conservatore Fidész di Viktor Orban, che ne ha fatto la base di vasti consensi elettorali, e il più radicale Jobbik Magyarországert Mozgalom (Movimento per una migliore Ungheria), che, malgrado un inizio in sordina, nel 2010 ha conquistato il 16,67% e nel 2014 il 20,03%. In Bulgaria, Ataka ha esordito nel 2005 con l’8,4% basandosi su una piattaforma programmatica tipicamente nazionalpopulista e l’anno seguente il suo leader Volen Siderov è arrivato al ballottaggio per la presidenza della Repubblica, perso con il 24%, poi si è spostato su posizioni più estreme, concentrandosi sull’ostilità verso i rom, calando nel 2009 al 9,4% e nel 2014 al 4,5%. In Lituania, il fondatore del partito Tvarka ir teisingumas (Ordine e giustizia), Rolandas Paksas, è stato addirittura eletto alla presidenza della Repubblica all’inizio del 2003, salvo essere destituito dal parlamento perché giudicato colpevole di corruzione nello stesso anno. Movimenti che alcuni osservatori indicano come populisti hanno fatto la loro comparsa anche in altri paesi un tempo inclusi nella sfera di influenza sovietica, a partire dalla Bielorussia, con il Bps di Lukashenko[42], e dall’Ucraina, con Svoboda, peraltro solitamente classificato nell’estrema destra, e secondo taluni lo stesso partito diretto dall’ex campione del mondo di pugilato Vitali Klyčko.

La differenza sin qui più evidente fra il populismo dell’Ovest e quello dell’Est Europa è che il primo sembra aver già raggiunto un discreto grado di istituzionalizzazione e presenta alcune caratteristiche di fondo comuni che permettono di considerarlo come l’incubatrice potenziale di una famiglia politica transnazionale piuttosto omogenea, almeno in prospettiva, mentre il secondo è per adesso frammentato in schegge del tutto indipendenti, anche sul piano dei riferimenti culturali, e in genere non comunicanti: movimenti che recano in profondità i segni delle rispettive specificità nazionali. Solo l’ingresso di un certo numero di paesi orientali nell’Unione Europea e l’assestamento delle loro formazioni lungo le linee di divisione del sistema di partito che all’interno dell’Ue si è via via sempre più chiaramente delineato ha modificato in parte la situazione e ha contribuito, seppure ancora limitatamente ed episodicamente, a irrobustire il fenomeno populista nei tratti fondamentali che era venuto assumendo a partire dagli anni Novanta nella parte occidentale del continente.

Un primo risultato di questa convergenza si è visto nelle elezioni per il Parlamento europeo del 25 maggio 2014. Annunciata da una campagna allarmistica che aveva il dichiarato obiettivo di arginarla, per quanto possibile, l’ondata populista si è abbattuta su Strasburgo senza provocare quegli effetti ciclonici che mezzi d’informazione e politici mainstream avevano pronosticato, ma ha comunque lasciato il segno. Ed ha soprattutto suggerito un’equazione indebita, in base alla quale ogni manifestazione di euroscetticismo viene catalogata con l’aggettivo «populista». Non vi è dubbio che fra le forze politiche che esprimono sfiducia o ostilità nei confronti del processo di integrazione europea, in linea di principio o per la piega che ha preso e le politiche che ha prodotto, soprattutto in relazione alla crisi economica apertasi nel 2008, molte meritano l’appellativo, ma non è detto che per dissentire dalle scelte di alcune delle istituzioni dell’Unione Europea – la Commissione, la Banca centrale o l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune – si debba per forza essere ispirati dalla mentalità populista. Difficilmente si può dissentire, invece, da quanti sostengono che, per la loro natura di consultazioni di secondo livello, che non incidono direttamente sugli equilibri di governo dei singoli paesi membri, le elezioni europee hanno consentito a una parte della popolazione di scegliere le liste più connotate in senso populista per inviare un messaggio ai partiti maggiori, ai quali era andata in precedenza la loro preferenza, e convincerli ad ascoltare le loro inquietudini[43]. Salvo, in caso di mancata risposta, perseverare anche in futuro nella nuova scelta.

Quali che ne siano stati i motivi, è certo che le elezioni dei parlamentari europei hanno offerto ai movimenti populisti un’occasione cruciale per dimostrare la loro forza. Che, per quanto si possa ancora considerare elettoralmente circoscritta nel confronto con le famiglie partitiche consolidate, fa di queste formazioni un soggetto di cui non si può non tener conto. I dati riportati nella tabella 2.1, da cui sono esclusi partiti che, pur essendo da taluni considerati nazionalpopulisti a nostro giudizio appartengono invece all’estrema destra[44], stanno a dimostrarlo.

Va detto peraltro che, malgrado i buoni risultati ottenuti, l’attitudine strutturale a considerare importanti soltanto le aspettative del proprio popolo e a guardare con scetticismo le ipotesi di collaborazione con soggetti collocati al di là della frontiera ha fortemente ridotto sinora la possibilità di queste formazioni di esercitare un’azione incisiva in seno al Parlamento europeo. Le reciproche diffidenze o indifferenze hanno soffocato sul nascere quasi tutte le iniziative per creare un gruppo unico a Strasburgo, che avrebbe potuto offrire molte più risorse economiche e di agibilità politica. L’unico tentativo andato in porto nel 2007, con la costituzione di Identità, tradizione e sovranità – che peraltro vedeva convergere anche deputati di estrema destra[45] – è durato pochi mesi e si è sciolto per la defezione dei componenti rumeni, indignati per le offese rivolte ai loro connazionali da Alessandra Mussolini dopo un efferato delitto perpetrato in Italia da un immigrato proveniente dalla Romania. All’indomani delle elezioni del 2014 è stato costituito il gruppo Europa della libertà e della democrazia, una sorta di «struttura di raccordo» dei populisti più moderati, che raccoglie Ukip, M5S, Sverigedemokraterna, Svobodní, i due parlamentari dei partiti lettone e lituano[46], nonché una transfuga dal Front national. Non ha avuto invece, almeno per ora, successo l’iniziativa di Marine Le Pen, che è arrivata a raccogliere l’adesione di cinque partiti (Fn, Vb, Fpö, Pvv, Ln) ma si è vista opporre un rifiuto dai polacchi (che non condividono l’impostazione libertaria di Wilders in materia di diritti civili), dai tedeschi di Afd, dai danesi e dai finlandesi (che considerano il Front national troppo vicino all’estrema destra), mentre ha evitato di rivolgersi a Jobbik e Alba Dorata in quanto, a sua volta, li reputa estremisti infrequentabili. Il mancato ingresso dei partiti affini di Bulgaria[47] e Romania ha quindi determinato una situazione di stallo e confermato che l’«internazionale populista» tanto paventata dai mezzi d’informazione non potrà mai vedere la luce, perché non è nelle corde della mentalità che caratterizza questa corrente politica. La comune avversione all’Unione Europea e all’euro, le identiche invettive contro i politici di professione, le banche, i burocrati e i tecnocrati, la medesima volontà di combattere l’immigrazione non sono bastate a superare idiosincrasie, diffidenze reciproche e preoccupazioni di immagine.

TAB. 2.1. Risultati dei partiti populisti alle elezioni europee del 2009 e del 2014

  Partito Voti 2009 Voti 2014
    % seggi % seggi

Austria

Freiheitliche Partei Österreichs

12,7

2

19,5

4

 

Bundnis Zukunft Österreichs

4,6

0

0,5

0

Belgio

Vlaams Belang

9,9

2

4,2

1

Bulgaria

Ataka

12,0

2

3,0

0

Croazia

Hrvatska Stranka Prava

   

6,9

0

Danimarca

Dansk Folkeparti

14,8

2

26,6

4

Finlandia

Perussuomalaiset

9,8

1

12,9

2

Francia

Front national

6,3

6

25,0

24

Germania

Alternative für Deutschland

   

7,0

7

Gran Bretagna

United Kingdom Independence Party

16,1

13

29,5

23

 

British National Party

6,2

2

1,1

0

Grecia

Laikos Orthodoxos Synagermos

7,2

2

2,7

0

Italia

Lega Nord

10,2

9

6,2

5

 

MoVimento 5 Stelle

   

21,1

17

Lettonia

Nacionala Apvieniba «Visu Latvija!»

7,5

1

14,3

1

Lituania

Tvarka Ir Teisingumas

12,2

2

14,3

2

Olanda

Partij Voor de Vrijheid

17,0

4

13,4

4

Polonia

Nowa Prawica

   

7,0

4

Repubblica Ceca

Svobodní

1,3

0

5,2

1

Romania

Partidul România Mare

8,7

2

2,7

0

Slovacchia

Slovenská Národná Strana

5,5

1

3,6

0

Svezia

Sverigedemokraterna

3,3

0

9,7

2

Ungheria

Jobbik

14,8

3

14,7

2

fonte: Nostra elaborazione su dati ufficiali.