Se il ritorno del populismo sulla scena politica europea si presenta non come una reviviscenza nostalgica ma come il prodotto di tensioni inedite, estranee ai punti di frattura che hanno segnato la storia del continente negli ultimi due secoli e determinato a lungo le identificazioni di partito della maggior parte degli elettorati di ciascun paese, il suo grado di effettiva novità e originalità può essere misurato a partire dagli atteggiamenti assunti dai movimenti che ne sono espressione sui problemi a loro avviso più significativi, cioè dalle prese di posizione che li distinguono, agli occhi degli elettori, da tutti i partiti concorrenti.
Alcune ricerche recenti dimostrano che alle radici dell’espansione elettorale dei partiti populisti non c’è un attaccamento dei loro sostenitori ad atteggiamenti tradizionalmente correlati all’estremismo di destra – il culto dell’autorità, l’intolleranza verso la diversità, il pregiudizio antisemita –, bensì la crescita in seno all’opinione pubblica di molti paesi europei di sentimenti come l’ostilità verso gli stranieri, la rivalutazione dell’orgoglio nazionale, la preoccupazione per la sicurezza individuale e collettiva, l’insofferenza verso l’ipertrofia degli apparati burocratici[66]. Sfruttando come terreno di coltura questa miscela postmoderna di timori e aspirazioni e passando dalla vecchia politica segnata dai riferimenti ideologici a una orientata pragmaticamente alla ricerca di temi di attualità che suscitano l’interesse emotivo del pubblico, i partiti che si ispirano alla mentalità populista conquistano sempre maggiori consensi.
Le ragioni che consentono di raccogliere questi soggetti, al di là delle specifiche caratteristiche di ciascuno di essi, all’interno di un’unica famiglia politica rimandano innanzitutto alla forte somiglianza delle soluzioni che propongono per risolvere i problemi situati al centro delle loro preoccupazioni. Analogo è il modo in cui i loro programmi elettorali trattano ed enfatizzano temi quali la lotta contro l’immigrazione, l’insicurezza individuale e collettiva, spesso attribuita all’invasione degli immigrati, la valorizzazione del radicamento nel territorio (che può tradursi, a seconda dei casi, in una retorica dell’identità nazionale oppure dell’appartenenza a un contesto locale più omogeneo, come la regione). E identici o quasi sono i toni e gli argomenti con cui denunciano i mali causati dalla partitocrazia, in primis la corruzione dei politici e l’inefficienza dei servizi pubblici, o tessono l’apologia delle virtù del lavoro, del sacrificio, dell’onestà e dell’iniziativa individuale in campo sociale ed economico, tipiche dell’uomo comune vessato dai pubblici poteri. Radicali nell’opposizione al degenerato e onnipervadente sistema dei partiti, queste formazioni vedono nel pluralismo il germe di una perniciosa conflittualità sociale e la premessa di una logica spartitoria e clientelare delle risorse pubbliche, che danneggia il popolo. E in genere si presentano non come partiti ma come movimenti, un po’ per rimarcare le distanze dal mondo della politica ufficiale, un po’ perché la loro organizzazione interna è nella maggioranza dei casi instabile e molto più limitata di quella delle formazioni avversarie. La loro piattaforma rivendicativa contempla un ventaglio di proposte comuni. Vogliono un mercato dei beni libero all’interno ma nel contempo protetto dalla concorrenza dei paesi che producono e vendono a basso costo, nonché una minore invadenza dello stato nella sfera delle attività economiche private. Proclamano il diritto alla piena realizzazione individuale, reclamando dalla mano pubblica soltanto una rigida tutela dell’ordine e un minimo di servizi essenziali, ma di fronte alla prospettiva della nascita di una società planetaria senza frontiere si arroccano a difesa delle rispettive comunità locali, minacciate dallo sradicamento culturale e dall’ingresso in massa di popolazioni straniere. Pur apparendo più vicini alla destra per il rifiuto dell’egualitarismo e dell’integrazione nella società dei gruppi marginali, che spesso li spinge sul terreno di un’aperta xenofobia, in genere rifiutano di riconoscersi in questa etichetta, giudicandola riduttiva; fanno appello all’uomo comune e al suo buonsenso e cercano di sfruttare a proprio favore i sentimenti di ansia e di delusione nei confronti dell’establishment diffusi in larghe sacche della società consumistica.
Nati come strumenti di reazione difensiva verso le conseguenze prodotte dall’erosione di subculture che si erano consolidate nel corso del tempo in ciascun paese, oltre che dal logoramento delle istituzioni e degli ambiti sociali che sorreggevano le identità collettive tradizionali, i partiti populisti traggono una sostanziosa quota del loro consenso dal risentimento e dallo smarrimento che investono i ceti più negativamente toccati dalle conseguenze della globalizzazione, il che spiega la consistente proletarizzazione del loro seguito elettorale[67] (il Front national, la Lega Nord, la Fpö e l’Udc sono ormai i partiti più votati dall’elettorato operaio in molti collegi). Ma non sono soltanto le caratteristiche sociali dei sostenitori ad autorizzare a considerarli qualcosa di diverso da un semplice prodotto evolutivo dell’estrema destra, determinato dalla necessità di travasare vino vecchio in otri nuovi, come si continua da più parti a pensare. Né è sufficiente a testimoniare il distacco dalla matrice che viene loro accollata la pur significativa dichiarata accettazione del sistema di produzione capitalistico (nella versione, si intende, di un «capitalismo popolare» alla portata di qualunque onesto cittadino, frutto del lavoro ben speso, non certo del dominio di un anonimo capitale finanziario, contro il quale anzi fioccano le accuse) e la tolleranza verso la mentalità individualistica che inevitabilmente ne discende (a patto che essa non sfoci nell’egoismo e sappia accordarsi con gli umori, le abitudini e le esigenze attribuiti alla comunità popolare cui comunque appartengono). A consentire di definirli «populisti» in senso proprio è un più vasto insieme di caratteristiche che li connotano e li differenziano, sia programmaticamente, come abbiamo visto, sia sul piano delle modalità di azione.
Un primo dato che balza agli occhi quando si esamina il modo di far politica di questo tipo di partiti è la stretta dipendenza dai rispettivi leader, non mascherata dal richiamo a procedure di democrazia interna ma esibita come un titolo di merito. Basta collegarsi alla pagina di apertura di qualunque dei siti internet di autopresentazione per vedervi spiccare l’immagine del capo, spesso riprodotta in numerose fotografie che ne illustrano l’attività pubblica e talvolta anche privata (perché il leader deve essere trasparente e rassicurante, non deve avere nulla a che fare con quei politici di professione che tessono trame dietro le quinte o passano tutta la loro vita nelle sedi istituzionali). La collegialità direttiva è un concetto sconosciuto ai populisti, che ne diffidano: rallenterebbe le decisioni e complicherebbe la capacità degli elettori di identificare il partito con il volto, la voce, la mente, il cuore del leader. All’illimitata apertura di credito di cui gode presso i militanti, il capo risponde con modi paternalistici, con le pubbliche attestazioni di stima nei loro confronti e soprattutto con il conferimento ai seguaci di un’identità univoca, che si materializza attraverso le idee e le aspettative che egli esprime. Grazie al carisma che gli viene attribuito, un aggregato indistinto di elettori si trasforma periodicamente in una comunità di credenti, nell’avanguardia del popolo, o meglio ancora nella sua prefigurazione ideale. Il contatto diretto e continuo fra il vertice e la base è necessario alla legittimazione del partito agli occhi dei sostenitori e i bagni di folla delle assemblee interne e dei comizi lo fortificano, in un rituale di costante riaffermazione di fiducia e immedesimazione reciproca che in alcuni casi ha assunto ormai cadenze fisse, come nelle adunate leghiste alla foce del Po – sospese, non casualmente, nella breve fase di «depopulistizzazione» della segreteria di Maroni, sprovvisto dell’alone carismatico che ammantava il suo predecessore –, nelle feste Bleu-Blanc-Rouge del Front national o nei comizi-spettacolo di Beppe Grillo. Lo stile autoritario che caratterizza questo rapporto è considerato indice di un’autentica democrazia dai partiti/movimenti populisti e viene difeso da qualunque proposta di riforma che assegni più spazio ai congressi o ai gruppi parlamentari: la diffidenza verso l’ingerenza di istituzioni o fazioni è franca e totale. Nei macchinosi impianti di legittimazione dal basso della dirigenza dei partiti concorrenti, del resto, tutti i populisti vedono un’ipocrita mistificazione e un veicolo di corruzione. L’acclamazione esclude il rischio di un tradimento nell’urna congressuale e delle manovre di corridoio, esprime l’entusiasmo di una base che è e deve rimanere caratterizzata dal volontariato e dall’idealismo, e inoltre mantiene il clima di mobilitazione psicologica adatto a esaltare le qualità retoriche di chi detiene il comando. A volte, per meglio ribadire questo carattere del capo come interprete diretto del popolo e delle sue esigenze, si può anche rinunciare a disporre di una vera e propria struttura organizzativa (è il caso, ad esempio, del Pvv olandese): il contatto con i sostenitori passa essenzialmente per il tramite dei canali massmediali, tanto che si è giunti a parlare, per questi casi, di «telepopulismo» o «cyberpopulismo».
A differenza dei dirigenti degli altri partiti, inclusi quelli dell’estrema destra, il leader populista non posa a politico esperto e ispirato da una vocazione a occuparsi di politica. Tiene ad apparire, e spesso è, un outsider che avrebbe potuto fare ben altro nella vita, e non di rado lo ha fatto con un successo che viene continuamente sottolineato, ma si è sentito in dovere di porsi al servizio del suo paese e dei concittadini quando il disgusto per i guasti provocati dai politici di professione, traditori del mandato popolare, gli è diventato insopportabile. E deve rimanere, agli occhi dei sostenitori, «uno di loro», non assumere mai pose scostanti, deve sottolineare la propria disponibilità all’ascolto e al colloquio. Come ha scritto Mastropaolo, i partiti di questo tipo
né pretendono, né fabbricano figure eroiche, ispirate e dotate di qualità eccezionali, che incarnino il destino nazionale, ma preferiscono accreditare i propri leader mediante una peculiare forma di carisma, che li mitizza come gente comune, come lavoratori o come imprenditori tra gli altri, che non provengono da qualche remoto palazzo, ma somigliano ai loro elettori, vivono in mezzo ad essi, ne condividono le esperienze quotidiane e sono pertanto i più adatti a risolverne i problemi, importando in politica un nuovo stile e un nuovo linguaggio: non più quello involuto, artificioso, mistificante, dei politici di mestiere, ma quello franco, diretto, comprensibile dell’uomo della strada[68].
Anche quando ha resistito per decenni alla guida del partito, sopravvivendo a congiure e faide interne e liquidando chi gli contendeva il potere, il leader populista insiste nel presentarsi come un semplice servitore del bene comune, disposto a farsi da parte quando qualcuno più giovane e non meno dotato di lui saprà assicurare il rinnovamento nella continuità (il che significa che, qualora una figura provvista delle necessarie caratteristiche non si profili all’orizzonte, o non sia da lui ritenuta tale, il suo mandato si può prolungare indefinitamente: il caso di Jean-Marie Le Pen e del sistematico affossamento dei suoi delfini[69], sino all’occasione della successione familiare, è esemplare ma non unico, se si pensa a Umberto Bossi, che aveva lasciato prefigurare uno scenario analogo, vanificato dallo scandalo che ha coinvolto due dei suoi figli). Molto importante, per il buon esito del suo ruolo di comando, è la possibilità di apparire atipico nel panorama politico: di regola, un uomo o una donna proveniente della società civile che non ha avuto nessuna esperienza precedente in altri partiti di diversa impostazione; in qualche situazione, militanti di lunga data che si sono fatti le ossa all’interno del movimento. I casi di riciclaggio sono rari. Benché il grado di controllo che hanno sull’organizzazione autorizzi a parlare di una «logica patrimoniale di possesso e di obbedienza»[70], tutti i massimi dirigenti populisti fanno mostra di considerare i loro partiti come un mero, seppure per il momento indispensabile, strumento, lasciando intendere che tutto ciò che sa troppo di politica intesa nel senso usuale non è fatto per loro, che restano prima di tutto «figli del popolo». Anche le doti carismatiche di cui volentieri si vedono gratificare vengono spese non per accreditare una distanza che renda più facile il controllo dei sostenitori, ma per diffondere la convinzione che chiunque, se vuole, può mettere i bastoni fra le ruote delle corrotte e deludenti classi dirigenti: la vita pubblica non deve perpetuare privilegi né sottostare alla logica del pedigree.
L’impersonificazione in un leader e l’assicurazione che costui dà di essere determinato a intuire, tutelare e promuovere i bisogni del popolo, se non addirittura di volersene lasciar guidare, non sono però gli unici strumenti di cui i partiti populisti dispongono per far risaltare quella diversità da tutti i concorrenti che considerano la risorsa più preziosa a disposizione. Il particolare tipo di retorica che li accomuna è un altro tratto importante a questo scopo.
Il discorso pubblico dei partiti populisti non si articola soltanto attorno a proposte di soluzione dei problemi ordinari della politica, presentate come migliori di quelle altrui; ha sempre bisogno di essere calato in un contesto di drammatizzazione emotiva e straordinarietà che assicuri al leader l’alone del salvatore, del riformatore radicale della politica, refrattario ai compromessi. Il progetto populista è rifondare a partire dalle fondamenta la democrazia, della quale gli avversari forniscono una versione falsa e incompleta: il registro accusatorio e polemico gli è quindi indispensabile, mentre non lo è altrettanto un’esposizione dettagliata dei provvedimenti chiamati a dare corpo e sostanza a un così ambizioso disegno. Questa innata propensione alla vaghezza contribuisce a spiegare le gravi difficoltà nelle quali quasi sempre i partiti appartenenti a questa famiglia si sono trovati quando il sostegno degli elettori li ha fatti accedere a posti di governo, ma si è rivelata redditizia nell’immediato. Proponendo una versione semplificata all’estremo della politica, in cui per risolvere un problema sono sufficienti buona volontà e buonsenso, e soprattutto sforzandosi di parlar chiaro, cioè di ritradurre il linguaggio sofisticato e oscuro dei professionisti dell’amministrazione nel gergo della gente comune, il leader populista fa sì che i suoi progetti appaiano in naturale sintonia con opinioni molto diffuse. Nel contempo, l’utilizzazione di temi che suscitano discordia soprattutto negli ambienti intellettuali – esempio lampante il rifiuto degli immigrati e delle conseguenze che il loro massiccio afflusso provoca su vari piani, nell’immediato e in prospettiva – è sufficiente a conferire a questa retorica del buonsenso, che per un verso potrebbe apparire scontata e banale, il carattere di spartiacque rispetto ai messaggi che tutti gli avversari rivolgono all’elettorato.
Spesso, come abbiamo notato, gli esponenti dei partiti populisti si vantano di dire ad alta voce ciò che la gran parte dei loro connazionali pensa ma non ha il coraggio di esprimere perché intimidita dal coro consensuale delle élite politiche, intellettuali ed economiche, di mettere in chiaro le sgradevoli verità di cui altri tentano di tenere le masse all’oscuro. C’è del vero in queste affermazioni, dal momento che, in panorami politici consolidati in cui le divergenze fra le forze di governo e le opposizioni si limitano spesso a dissensi su tempi e modi di attuazione di misure sostanzialmente condivise, la loro voce non solo non si vergogna a suscitare scandali, ma fa tutto quel che può per ingigantirne la portata. Volendo apparire come i portavoce della maggioranza, ma non avendo i numeri elettorali per legittimare questa pretesa, i populisti ricorrono all’espediente di denunciare il silenzio a cui le maggioranze sono state costrette dal «sistema».
L’uomo qualunque non ha tempo per fare politica, perché deve lavorare, preoccuparsi della famiglia, pagare le tasse (e questo è il motivo principale per cui in genere i movimenti populisti non ricorrono con frequenza alla mobilitazione di massa, che sarebbe per loro molto difficoltosa); inoltre i perfidi politici di professione gli impediscono di capire le vere cause dei problemi che affliggono la vita della società in cui vive e agisce, con il loro artificioso linguaggio per iniziati; così nascono l’inganno e la manipolazione che consentono a «chi sta in alto» di rimanerci e continuare a godere dei frutti della corruzione. I populisti, a malincuore, sono costretti a scendere in campo per dare voce agli sfruttati: non una classe, ma una totalità, se si eccettuano i pochi che beneficiano dell’ingiusta situazione. È questa la cornice in cui si colloca la rappresentazione della propria azione offerta al pubblico. Sui manifesti del Vlaams Blok campeggiava, per simboleggiare l’incitamento a ripulire la scena pubblica da corrotti e inetti, una scopa: il medesimo utensile domestico compare, agitato verso l’alto, fra le mani di Pim Fortuyn in una delle sue fotografie più celebri, scattata durante un comizio; e non si contano, nei volantini, nei manifesti, nelle pagine dei siti internet di queste formazioni, le immagini che evocano in varie forme il medesimo concetto: piedi che prendono a calci «parassiti» e «invasori», spade che tagliano la corda con la quale costoro cercano di scappare con il frutto dei furti compiuti ai danni dei cittadini, e via dicendo. Così come assai frequenti sono gli usi di metafore biologiche per dipingere la triste condizione a cui occorre reagire: la società è malata, lo strapotere dei partiti è un cancro in metastasi che va operato d’urgenza, la politica ha provocato una paralisi contro cui occorrono terapie d’urto, e via dicendo. Non mancano neppure i riferimenti più raffinati per giungere alle stesse conclusioni: «la banda dei quattro» è l’espressione ripresa dal lessico della Cina maoista caro ai ribelli del Sessantotto in cui Jean-Marie Le Pen ha condensato il simultaneo disprezzo verso gollisti, liberali, socialisti e comunisti[71], mentre Bossi ha riempito alcune prime pagine del quotidiano leghista «La Padania» di disegni e schemi con cui spiegare al popolo le losche manovre di cui si stavano macchiando, ai suoi danni, il capitale finanziario internazionale, la grande industria assistita dallo stato, la massoneria, le classi politiche e in qualche occasione persino gli Stati Uniti d’America.
In questa crociata condotta in nome del popolo contro i suoi nemici, all’esaltazione dei valori morali che la comunità popolare ha ereditato da tradizioni plurisecolari e alla denuncia delle rivalità partigiane che i potenti suscitano per dividerla non corrisponde mai, nel discorso pubblico dei movimenti populisti, quella critica del pluralismo che, secondo logica, dovrebbe esserne un corollario. Essi anzi insistono sul tasto della democrazia, non danno segni di insofferenza nell’assoggettarsi alle regole della competizione elettorale e semmai contestano il principio sul quale si reggono i sistemi elettorali maggioritari – che li penalizzano fortemente – perché non offre un’adeguata rappresentanza a quella parte di società che in loro si riconosce. Alieni dalla violenza fisica, abusano di quella verbale per denunciare l’illegittimità delle istituzioni che si sono staccate dal popolo e perorano, senza eccezioni, l’introduzione di strumenti di controllo delle élite affinché il popolo possa riappropriarsi almeno di una porzione di quella sovranità di cui è stato espropriato. Il referendum, la proposta di legge di iniziativa popolare e la possibilità di revoca del mandato ai rappresentanti che tradiscono le aspettative degli elettori (quel meccanismo che è definito recall negli stati degli Usa che lo hanno adottato) sono i rimedi più citati per costringere i politici a rendere conto del loro operato.
Nel mondo a tinte forti e contrapposte che i tribuni del populismo si compiacciono di descrivere, l’immaginario comunitario è sollecitato attraverso un appello congiunto al demos, la maggioranza silenziosa defraudata dai potenti, e all’ethnos, la collettività dei simili che il pericolo della convivenza multietnica e multiculturale rischia di scompaginare. Il messaggio che Jean-Marie Le Pen ha rivolto ai suoi potenziali sostenitori la sera del primo turno delle elezioni presidenziali francesi del 2002, dopo aver saputo di essere stato promosso al ballottaggio contro Jacques Chirac, è l’esempio più lineare di questo richiamo, e rende inevitabile un’ampia citazione:
Non abbiate paura! Ritrovate la speranza [...] Non abbiate paura di sognare, voi, i piccoli, voi che non avete gradi. Non lasciatevi rinchiudere nelle vecchie divisioni della sinistra e della destra. Voi che avete sopportato da oltre vent’anni tutti gli errori e le malversazioni dei politici. Voi, i minatori, i metalmeccanici, le operaie e gli operai di tutte quelle industrie rovinate dall’euromondialismo di Maastricht. Voi, gli agricoltori dalle pensioni di miseria e spinti alla rovina e alla disperazione. Voi che siete le prime vittime dell’insicurezza, nelle periferie, nelle città e nei paesi. Io faccio appello alle francesi e ai francesi, quali che siano la loro razza, la loro religione o la loro condizione sociale, a cogliere questa storica occasione che la nazione ha di risollevarsi. Sappiate che, uomo del popolo, io sarò sempre dalla parte di chi soffre, perché ho conosciuto il freddo, la fame, la povertà[72].
Sarebbe difficile raccogliere in poche frasi un numero maggiore di stereotipi populisti. In questo tipo di appelli, la diffidenza verso il principio di rappresentanza che è uno dei capisaldi teorici del populismo viene declinata in una forma più moderata, trasformandosi nella critica all’uso che i politici eletti fanno del mandato ricevuto. Questa formulazione più prudente è dettata sia dal desiderio di contrastare la frequente accusa di coltivare nostalgie autoritarie o plebiscitarie, sia dalla consapevolezza di doversi proporre proprio nelle vesti di rappresentanti ideali, perché particolarmente ricettivi nei confronti delle loro domande, ai potenziali elettori. La protesta di cui i partiti populisti si fanno veicolo è dunque una protesta rivolta contro l’establishment, mai contro il sistema democratico in quanto tale[73]. Più aperto, meno mediato, è invece il richiamo all’identità etnoculturale come carattere unificante del popolo al quale si rivolgono. Tuttavia, per quanto il riferimento alla nazione sia una componente fissa dei loro programmi, l’intensità con cui vi si ricorre varia da caso a caso, tanto che si è ritenuto di poterla porre a fondamento della distinzione fra due varietà della famiglia: quella del populismo liberale o libertario, che enfatizza l’etica produttivistica sino a farne il valore fondamentale della dinamica sociale, e quella del nazionalpopulismo, sensibile soprattutto alle campagne contro l’immigrazione e i poteri forti delle élite politiche e finanziarie e attaccato a un’idea di nazione etnica e genealogica che punta alla purificazione della cultura e della comunità in cui si è nati e cresciuti da contatti alieni contaminanti. Alla prima di queste varianti sono stati assegnati i partiti populisti scandinavi, la lista Pim Fortuyn, il Pvv e l’Udc-Svp; al secondo il Front national, il Vlaams Blok, la Dvu. Fpö, Lega Nord e Republikaner sono stati considerati oscillanti, a seconda delle circostanze e delle convenienze strategiche, fra i due poli[74]. L’ipotesi è interessante, ma la possibilità di applicarla è calata a seguito del fatto che i partiti liberalpopulisti hanno adottato piattaforme programmatiche in cui la xenofobia aveva un largo spazio e che i partiti nazionalpopulisti si sono, in varie occasioni, aperti ai principi del liberalismo economico. Pim Fortuyn è ancora una volta un simbolo di questa ambivalenza: benché fosse certamente devoto alla filosofia del libero mercato, non rifuggiva dal porre l’accento sull’inconciliabilità fra l’identità olandese e la cultura connessa alla religione islamica, e rimane celebre la foto che lo immortalava nel momento in cui, dal palco di un comizio, rivolgeva il saluto militare alla platea per dimostrare di essere ai suoi ordini.
Con il passare degli anni, piuttosto che divaricarsi in una congerie di sottotipi come avevano previsto alcuni osservatori, il populismo ha assunto, nei programmi, nello stile di azione e nelle strategie dei partiti e movimenti che se ne fanno interpreti, caratteri sempre più comuni, che inducono a riconoscervi un minimo comun denominatore in termini di mentalità o, come vorrebbero altri autori citati nel precedente capitolo, di ideologia o di visione del mondo. E ha esplicitato le sue critiche e le sue proposte lungo tre direttrici distinte e convergenti: sul piano culturale, sul piano sociale e sul piano politico.
Dal punto di vista culturale, l’elemento dominante del discorso pubblico dei movimenti populisti è stata la difesa dell’identità nazionale dei rispettivi popoli e, più estesamente, dei valori e delle tradizioni alla base della cultura occidentale, contrapposti a quelli radicati nella religione islamica professata dalla maggioranza degli immigrati giunti in Europa negli scorsi decenni. Calata drasticamente la disponibilità a battersi in difesa di norme di comportamento ispirate all’ordine naturale, che in alcuni casi (Lpf, Pvv, Fn di Marine Le Pen) sono state giudicate superate, con inedite aperture ai principi della laicità[75], il nemico principale identificato su questo versante è ormai il multiculturalismo, specialmente nella versione che ammette prassi comunitarie da parte di coloro che non si riconoscono nella cultura autoctona. La chiusura di principio verso l’immigrazione, che ha a lungo comportato la pressante richiesta di rimpatriare gli ospiti indesiderati e rendere impenetrabili le frontiere, ha ceduto il passo a una posizione più flessibile, che accetta un afflusso controllato e selezionato di allogeni purché costoro accettino di adeguarsi rigorosamente agli usi e costumi vigenti nel paese che li ha accolti. Contrapporre l’assimilazione al multiculturalismo ha significato, di fatto, selezionare i candidati all’accettazione, dato che, nell’ottica dei populisti europei, la pratica dei costumi islamici, spesso associati automaticamente al fondamentalismo, è incompatibile con l’integrazione nelle società occidentali. Questa visione del problema si è rafforzata dopo gli attentati di New York, Madrid e Londra e la polemica sulle caricature di Maometto che hanno segnato il primo decennio del XXI secolo e ha trovato alimento nella crescita di visibilità della presenza islamica determinata dai forti flussi migratori, per poi raggiungere ulteriori punte di asprezza dopo la strage parigina del gennaio 2015. Hanno fatto scalpore le dichiarazioni di Marine Le Pen sull’«occupazione del territorio» da parte dei fedeli musulmani in preghiera nelle strade di molte città francesi e, ancor più, la provocatoria proposta di Geert Wilders di vietare la diffusione del Corano perché conterrebbe precetti contrari ai diritti dell’uomo, e le dimostrazioni anti-islamiche di massa promosse periodicamente a Dresda dal «movimento civico» Pegida, ma il terreno era già stato preparato dalle dichiarazioni di Glistrup che alla fine degli anni Ottanta aveva reclamato l’instaurazione di una «zona senza musulmani», dalla denuncia di Haider dell’intrinseca opposizione fra islam e valori occidentali, dalle campagne della Lega Nord e di vari altri gruppi e comitati contro la costruzione di alcune moschee, dal referendum svizzero voluto e vinto dall’Udc contro l’edificazione di minareti e dalle dichiarazioni di Pim Fortuyn sulla «cultura arretrata» dell’islam, refrattario ai valori liberali da lui lodati[76].
L’agitazione dello spettro di un’islamizzazione che, complici i tassi demografici, potrebbe portare a breve termine a una sostituzione di popolazione, rendendo gli autoctoni una minoranza[77], ha avuto anche un importante effetto indiretto sui movimenti populisti, consentendo loro di aggiornare e spostare sul terreno culturale l’opposizione ai flussi migratori. La tematica cara a Jean-Marie Le Pen del complotto dell’impero americano, che si servirebbe dell’immigrazione come cavallo di Troia per indebolire l’Europa, distruggere l’identità delle nazioni che la compongono e assoggettarle ulteriormente alla «mostruosa utopia totalitaria» del nuovo ordine mondiale[78], è stata accantonata a vantaggio di temi più facilmente assimilabili dai cittadini comuni, poco propensi a interessarsi ai retroscena della politica internazionale. Senza smentire la logica del «padroni a casa propria» che li ha sempre contraddistinti e che li aveva portati a denunciare una costante collusione fra élite politiche, grande capitale, sinistra radicale e chiese nella promozione di un fenomeno corrosivo[79], essi hanno potuto replicare all’accusa di farsi promotori di un «razzismo differenzialista» sostenendo di limitarsi a proteggere i valori alla base della vita civile della propria comunità, messi a repentaglio da un’alterità perniciosa, come dimostrano i due brani di seguito riportati, opera di British National Party e Sverigedemokraterna:
Noi non «odiamo» i neri, non «odiamo» gli asiatici, non ci contrapponiamo a un gruppo etnico sulla base di ciò che Dio ne ha fatto; tutti hanno diritto, tanto quanto noi, alla propria identità, e tutto ciò che vogliamo è preservare l’identità etnica e culturale del popolo britannico. Vogliamo gli stessi diritti degli altri uomini, il diritto a una patria, alla sicurezza, all’identità, alla democrazia e alla libertà. Non siamo contro gli immigrati in quanto individui[80].
Sverigedemokraterna è un partito democratico e nazionalista. Noi respingiamo l’ideologia razzista così come le ideologie totalitarie e insistiamo sul fatto che ogni individuo è di uguale qualità umana. Ma siamo convinti che una società pluriculturale, comparata a una società etnicamente omogenea, non può in nessun caso svilupparsi democraticamente nelle migliori condizioni. Per questa ragione ci caratterizziamo in modo particolare in materia di politiche sull’immigrazione[81].
Dal punto di vista sociale, il registro predominante nel discorso populista più recente si è spostato dalla critica dell’assistenzialismo e del sistema consensuale-corporativo messo in atto grazie al cosiddetto «compromesso socialdemocratico», che era stato il cavallo di battaglia dei partiti appartenenti a questa famiglia negli anni Ottanta e Novanta, alla denuncia dei misfatti della globalizzazione. Mobilità del capitale e relativa perdita di controllo degli stati sulle economie nazionali, profitti della finanza, avidità del sistema bancario assistito dalle classi dirigenti dei singoli paesi e dalle autorità sovranazionali, cedimento della politica agli interessi dei grandi attori economici, indebitamento pubblico, deindustrializzazione e delocalizzazioni, riduzione delle prestazioni del sistema sanitario a causa del parassitismo degli immigrati, clandestini inclusi, sono diventati i bersagli preferiti di un’intensa azione propagandistica tesa a raccogliere il consenso delle più varie categorie di esclusi dai benefici della liberalizzazione degli scambi economici intervenuta con la demolizione delle frontiere materiali e immateriali fra le diverse zone del pianeta. Le angosce sempre più diffuse di fronte alla crescita della criminalità e della disoccupazione hanno consentito ai populisti, complice il ripiegamento della sinistra dalle tradizionali posizioni di tutela delle classi subalterne, di recitare il ruolo dell’avvocato del popolo, che assume la difesa dei deboli e degli sfavoriti della società e ne promuove a gran voce le ragioni. Il messaggio si è rivolto, come sempre, contemporaneamente a diversi settori sociali. Alle classi medie è stata, in linea con le posizioni precedenti, indirizzata «la denuncia delle disfunzioni o degli sprechi di un sistema sociale di cui ritengono di non essere le beneficiarie, pur avendo la sensazione di sopportarne principalmente il peso»[82], attizzandone i timori di declassamento anche attraverso la denuncia del progressivo degrado del sistema scolastico e dell’acuirsi della delinquenza, due fenomeni di nuovo messi in connessione con l’espansione della popolazione di origine straniera. In parallelo è cresciuta però l’attenzione mirata a settori sociali in precedenza trascurati, come gli anziani – che costituiscono una quota sempre più rilevante della popolazione autoctona – e gli operai non qualificati, particolarmente colpiti dall’effetto combinato delle innovazioni tecnologiche, dello spostamento delle attività produttive verso il terziario e del trasferimento di molte strutture industriali in paesi a basso costo di manodopera. In direzione della terza età sono state rivolte le campagne contro gli eccessivi carichi fiscali e i prelievi sulle pensioni[83], mentre soprattutto agli operai si è indirizzata la proposta della «preferenza nazionale», cioè dell’obbligo di assunzione prioritaria dei lavoratori in possesso della cittadinanza rispetto agli immigrati. Pur senza mettere in discussione il mercato, i populisti hanno poi occupato lo spazio di critica del lato oscuro del capitalismo – messo sotto accusa non come sistema di produzione ma in quanto habitat ideale di potenze economiche transnazionali preoccupate solo dei propri profitti – liberatosi a seguito della perdita di incidenza dei partiti comunisti. E, invece di proporre come rimedio un modello alternativo di produzione della ricchezza, hanno messo in campo il progetto di un’«economia nazionale di mercato»[84], una forma di protezionismo che preconizza il raggiungimento di un’effettiva sovranità economica quale indispensabile premessa dell’indipendenza politica e culturale di ciascun paese. Le campagne contro l’espansione illimitata delle merci in provenienza dai paesi del Sud-Est asiatico, e in particolare dalla Cina, sono state una concreta illustrazione di questa impostazione.
Sul piano più immediatamente politico, il cronico antielitismo populista, pur non rinunciando a cogliere ogni occasione per rilanciare le accuse di corruzione ai politici di professione, criticare le prassi consociative tramite le quali i partiti si spartiscono ingenti risorse materiali e di influenza e mettere alla berlina la sempre più sistematica convergenza di destre e sinistre nell’adozione di politiche impopolari, si è indirizzato soprattutto contro l’Unione Europea.
Contro l’azione della Commissione europea l’intera famiglia di partito ha innalzato la bandiera della sovranità nazionale, saldando questo tema con quello della difesa degli interessi popolari, che dalle politiche di austerità e di sostanziale sostegno all’immigrazione sarebbero stati danneggiati, soprattutto dal momento in cui la crisi degli hedge funds scoppiata negli Stati Uniti ha trasmesso i suoi nefasti effetti su questa sponda dell’Atlantico. Già di per sé, come hanno notato Mény e Surel, l’Unione Europea «rappresenta la quintessenza di tutto ciò che il populismo detesta: il governo delle regole, un’autorità remota, una leadership debole, una responsabilità mal definita, un potere lontano ed estraneo»[85] e tanto il suo deficit democratico quanto la tecnocratizzazione sempre più accentuata delle sue strutture portanti forniscono facili argomenti di critica. Le discusse scelte compiute dai vertici dell’Ue dell’ultimo decennio in materia di allargamento verso Est (con i connessi problemi di afflusso di stranieri nei paesi più ricchi), di circolazione illimitata delle persone (con il Trattato di Schengen), di adozione della moneta unica (con l’impennata dei prezzi di molti generi di consumo), di imposizione di ulteriori restrizioni ai margini di manovra dei governi nazionali grazie all’adozione di nuovi trattati, di previsione dell’adesione di un paese a grande maggioranza di popolazione islamica qual è la Turchia, di adozione forzosa di un regime di austerità economica con strumenti come il fiscal compact e l’obbligo di rientro dal debito pubblico, nonché le misure di salvataggio di molti istituti bancari sull’orlo del fallimento, non hanno quindi fatto altro che portare ulteriore acqua al mulino dei populisti.
Il rifiuto dei cittadini francesi e olandesi di accettare il progetto di costituzione europea sottoposto al loro giudizio per via referendaria dimostra sino a che punto le critiche che i populisti hanno – quasi da soli – rivolto all’espansione dei poteri dell’Unione Europea abbiano incontrato il consenso degli elettori. E anche se in un primo momento l’ostilità nei confronti dell’Ue può aver concorso a indebolire i movimenti populisti nei paesi dell’Est candidati a entrarvi, dove le aspettative di trarne immediato giovamento erano elevate, oggi il sentimento di sfiducia verso gli eurocrati e gli euroburocrati di Bruxelles è una delle carte di maggior successo che tutte queste formazioni possono giocare, come si è visto nelle elezioni del 25 maggio 2014, che hanno consegnato loro un semimonopolio dei sentimenti euroscettici.
L’insieme di queste prese di posizione ha delineato il volto della proposta complessiva dei partiti populisti nel primo scorcio del XXI secolo. Racchiudendola in un’unica espressione, Dominique Reynié, in uno dei libri più interessanti pubblicati di recente sull’argomento, l’ha definita populismo patrimoniale, per significare che essa è stata elaborata «per trarre un profitto politico da una duplice inquietudine ormai insediatasi fra gli europei, che riguarda non solo il loro patrimonio materiale, o il loro livello di vita, ma anche il loro patrimonio culturale, cioè il loro modo di vita»[86]. Precisando che questo tipo di manifestazione della mentalità populista non si è diffuso ugualmente in tutti i movimenti che a essa si rifanno e, dopo aver caratterizzato i partiti del Nord Europa, ha iniziato a contagiarne altri, a partire dal Front national, Reynié sostiene che il populismo patrimoniale sta prendendo il posto del nazionalpopulismo. Quest’ultimo, che l’autore reputa l’espressione «di destra» del populismo, mentre quello di protesta ne rappresenterebbe la versione «di sinistra», sarebbe ostacolato nelle prospettive di ulteriore espansione dal fatto di presupporre una passione per la nazione ormai circoscritta a una minoranza molto politicizzata della popolazione. Questo handicap sarebbe viceversa assente nel populismo patrimoniale, «emanazione di società di tipo democratico dominate dal trionfo di un individualismo materialista», in cui «lo stile di vita che va difeso non è tanto una cultura nazionale, che si vorrebbe far vivere e trasmettere, quanto piuttosto un modo di vita, che si vuol preservare per goderne più a lungo. Più che di un “Io collettivo”, mitico e glorioso, si tratta di un “Io privato”, domestico e ordinario»[87] che si addice più a movimenti di opinione, ai quali sono organizzativamente più simili molte delle formazioni di cui ci stiamo occupando, che a partiti strutturati. Fondato su quello che è stato definito «sciovinismo del welfare» e che Reynié traduce con il termine «etnosocialismo», questo modello di nuovo populismo conserva tematiche identitarie nell’opposizione a un multiculturalismo che si immagina fonte di gravi conflitti futuri, ma si distacca da quella «nuova formula vincente» che Betz aveva ritenuto di aver identificato nell’associazione fra mobilitazione contro le élite e ideologia identitaria di esclusione (degli stranieri dai benefici del sistema dei servizi pubblici)[88].
Si accetti o meno la definizione «patrimoniale» di alcune delle sue tendenze più recenti, si può dire, come accennavamo, che i partiti della famiglia populista hanno mostrato negli ultimi anni una convergenza programmatica sempre più accentuata. Restano da spiegare i motivi del successo che le loro proposte hanno incontrato nelle diverse fasi di sviluppo del fenomeno.