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Come in tutti i precedenti soggiorni, anche durante quell’ultimo aveva concesso a Boccaccio di rovistare tra le sue carte e di fare copia degli scritti sufficientemente elaborati. Sedevano nello studio, lui al suo tavolo, Giovanni a quello che era stato del Malpaghini, e trascorrevano lunghe ore in silenzio, immersi nelle loro occupazioni. Spesso il silenzio era rotto da esclamazioni di meraviglia, da gridolini gioiosi, da rumorose forme di approvazione da parte di Giovanni. Lui fingeva di non ascoltare, ma era attentissimo ai segnali provenienti dall’altro angolo della stanza. Più che da queste manifestazioni, misurava il grado di apprezzamento dell’amico dalla concentrazione silenziosa con la quale procedeva nella copiatura. Il silenzio totale, esaltato dal graffiare della penna d’oca, gli procurava un piacere fisico.
Una mattina il silenzio fu rotto da un fragore improvviso. Boccaccio si era alzato dalla sedia e quasi correva verso di lui agitando un foglietto che teneva in mano.
«Grazie, grazie, Francesco, grazie amico mio. Lo sapevo, me lo sentivo che non ti saresti dimenticato di me» ripeteva macchinalmente mentre si avvicinava veloce al suo tavolo.
Lui era rimasto muto, interdetto, ma non aveva lasciato trapelare il suo sconcerto. Gli ci era voluto un po’ per capire cosa fosse quel foglietto e perché Giovanni fosse così rumorosamente eccitato. Giovanni indicava con il dito un breve componimento in volgare e tenendo il foglio davanti a lui insisteva a dire:
«Questo è Nastagio, confessalo, è Nastagio, non negarlo».
A quel punto aveva capito. Sul foglietto erano scritte due stanze di una canzone composte più di tre anni prima, a Venezia. Non ne aveva scritte altre, e alla canzone non aveva più pensato. Nella prima stanza si parlava di due cani da caccia, uno bianco e uno nero, che inseguivano e uccidevano a morsi una fiera dal volto di donna. Boccaccio vi aveva scorto una allusione a quella sua novella nella quale raccontava di come Nastagio degli Onesti, innamorato infelice, vedesse una giovane donna inseguita e sbranata da due mastini.
«È un omaggio a me, vero? Questo è Nastagio!» Quel troppo pieno di felicità non accennava a calare.
Lui sorrideva in silenzio, senza confermare né smentire.
«E anche qui», e con il dito indicava la seconda stanza «anche qui pensavi a me. «‘Repente tempesta oriental...’» declamò. «Non è forse la peste del ’48, questa? Confessalo, su, questa è ‘la mortifera pestilenza nelle parti orientali incominciata’, qui citi l’inizio del mio Decameron.»
Lui seguitava a sorridere enigmatico e Giovanni era sempre più convinto che quella canzone fosse un omaggio a lui, alla sua raccolta di novelle. E non la smetteva con i ringraziamenti:
«Grazie, grazie. Tu sai, te l’ho detto una infinità di volte, sai bene quanto ci tenga a essere ricordato nel tuo libro di rime. D’accordo, per te non sono che cosette, bagatelle, ma, credimi, l’originalità di quel libro non cessa di stupirmi. Ma da dove ti è venuta l’idea? Sei un genio, Francesco, un genio e un amico».
La faccenda aveva cominciato a divertirlo. Giovanni non sospettava di poter essere proprio lui l’ispiratore di quel libro di cui magnificava l’originalità. Era stato lui, agli inizi della loro conoscenza, a raccontargli di stare scrivendo un libro strano, ambientato durante la grande peste e composto di novelle legate insieme da una cornice. Però, bella idea, aveva pensato allora. E se facessi altrettanto con le rime? Ovvio che poi ci avesse messo del suo. Come ci aveva messo i classici, gli elegiaci, perfino la Vita Nova. Restava il fatto, però, che lo spunto glielo aveva fornito quell’attempato ragazzone, esuberante e ingenuo. Naturalmente, si era ben guardato dal dirglielo. Questi toscani, si diceva mentre l’amico seguitava a profondersi in ringraziamenti, si credono i più furbi e sono i più balordoni.
Giovanni lo aveva costretto a promettergli che avrebbe completato la canzone e che l’avrebbe inserita nel libro delle rime. Nel congedarsi le sue ultime parole erano state:
«La canzone, Francesco, mi raccomando la canzone. Me lo hai promesso».
E così lui l’aveva battezzata «la canzone di Boccaccio».