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Il 13 ottobre del 1368 Francesco Petrarca si era dunque svegliato di pessimo umore. Da molti anni i suoi risvegli si erano fatti difficili. Non era sempre stato così. Anzi. Fin verso i quaranta, puntualmente, apriva gli occhi due ore prima dell’alba e si buttava di slancio giù dal letto: alacre e voglioso si precipitava al tavolo di lavoro. Allora il tempo non gli bastava mai. Lo divorava un desiderio bruciante di gloria. Era capace, in quegli anni, di restare seduto al tavolo da una notte all’altra. Leggeva e rileggeva le opere dei grandi latini fino a sentirle sue. Cicerone, si diceva, mi ha salato il sangue. Il sangue, in quegli anni felici, gli fluiva cantando nelle vene: la poesia ne sgorgava copiosa, fresca, originale... Di quel fervore di un tempo da alcuni anni ormai gli era rimasta solamente l’abitudine di svegliarsi prima che sorgesse il sole. E quel risveglio nel cuore delle tenebre gli costava sempre più fatica. Eppure non desisteva. Era un cordone che lo legava a una giovinezza carica di aspettativa, a una maturità felicemente operosa, e a cui ancora si aggrappava. Reciderlo sarebbe stata l’ultima resa. Sarebbe rimasto sommerso dal gorgo lento, dalla polla di indolenza che, anno dopo anno, lo stavano risucchiando. Per questo si ostinava ad aprire gli occhi nel buio di una stanza, nel silenzio sinistro di una notte disabitata, dominata dal vento, dalla pioggia, dalle nebbie. I suoi servi avevano l’ordine tassativo di alzarsi prima di lui e di coricarsi dopo di lui. Non sopportava di perdersi nel sonno se una presenza umana non teneva in vita la casa, e non avrebbe retto all’impatto del risveglio se altri esseri umani non lo avessero preceduto e non fossero lì, testimoni muti ma non silenziosi, a certificare che quella nuova vita era la stessa temporaneamente sospesa.

Sì, i risvegli si erano fatti difficili. Un torpore animalesco gli impediva di aprire gli occhi; la mente, vuota di stimoli, non lo contrastava. Restava nel letto immobile e in attesa. Non provava avversione per la vita attiva, sentiva però un incoercibile desiderio di avvoltolarsi nel dormiveglia, di riannodare il filo dei sogni appena spezzato. E a volte ci riusciva ad afferrare il sogno, giusto in tempo perché non svanisse, e così a intervalli, sempre più brevi e confusi, scacciava la coscienza che reclamava i suoi diritti. In quei primi momenti non riusciva a immaginare altra forma di vita che non fosse quella della spugna. Assorbiva le sensazioni del corpo e si imbeveva delle fantasie che trascorrevano labili tra gli occhi e la mente. La corrente dei ricordi lo trascinava in una deriva nella quale si amalgamavano immagini, suoni, parole provenienti da epoche diverse della sua vita passata.

Intorno a lui era un coro ammirato e stupito: tutti lodavano la sua straordinaria capacità lavorativa. Il numero delle opere poetiche, storiche, morali, enciclopediche, delle lettere, delle invettive, delle orazioni – per sé, per i prìncipi, per le repubbliche –, quello dei consigli e delle assemblee ai quali aveva preso parte, delle ambascerie presso papi, imperatori o semplici signorotti, delle mediazioni diplomatiche che aveva tessuto, in una parola, l’insieme delle sue attività pratiche e intellettuali non poteva che suscitare invidia. E lui non poteva fare a meno di chiedersi cosa mai avrebbero pensato e detto i suoi tanti ammiratori se avessero saputo quante ore del giorno trascorreva indolente, seduto a guardare nel vuoto, a inseguire fantasmi.

Si compiaceva di questo suo segreto.

Con il passare degli anni la pigrizia del risveglio si era dilatata fino a coprire l’intero arco del giorno. Ne misurava il progredire come se fosse una grande chiazza di alghe morte che i flussi subacquei pazientemente allargano sulla superficie di un mare in bonaccia. Eppure la sua produttività non era diminuita, anzi, era addirittura cresciuta. Ogni sua pagina incontrava un grande favore, i suoi scritti venivano accolti come avvenimenti da commentare, discutere, elogiare in pubblico e in privato. Gli era venuto il sospetto che i suoi estimatori non fossero del tutto sinceri, o quanto meno, che nelle nuove opere applaudissero ancora le vecchie. Per deferenza, forse, ma più probabilmente perché lui ormai poteva essere considerato un uomo potente. Troppi indizi, però, confermavano la loro buona fede. Del resto, c’era da stupirsi se quanto usciva dalla penna di Francesco Petrarca era apprezzato fin quasi alla venerazione? Gli uomini sono un gregge privo di discernimento, guidato per lo più dalla campanella della fama e del sentito dire, un gregge belante dietro ai valori consacrati. Meglio così, si diceva, molto, molto meglio così. Perché lui sapeva che le sue pagine non erano più toccate dalla grazia di un tempo, era consapevole dei piccoli trucchi e dei veri e propri sotterfugi a cui ricorreva: frasi ritrite, con abilità, certo, ma pur sempre ritrite, ritmi e inarcature talmente suoi che gli venivano da soli: senza sforzo, ma senza originalità. Non provava più la voglia di esplorare strade nuove, rifuggiva dalle fatiche dell’invenzione. Riscriveva e riscriveva... Ma quel ruminio era un sostituto della creatività, un vizio che lo lasciava insoddisfatto. Il getto di idee e di immagini che un tempo gli sprizzava dal cuore si era lentamente, ma inesorabilmente, assottigliato. «Caro Francesco» si diceva ridacchiando, «tu petrarcheggi, sei la scimmia di te stesso.» Se lo diceva senza amarezza, piuttosto con un fondo di compiaciuto disincanto. Era bravo anche a barare, lui, e il barare era un buon mezzo, se non per conquistare la fama, almeno per conservarla.

Quanto alla pigrizia, non la contrastava. Non che la cullasse, ma l’accettava come uno dei tanti aspetti della realtà con i quali bisogna pur venire a patti. Aveva finito per convincersi che quelle ore di passività, quel lasciarsi sprofondare nella noia vuota di pensieri e di propositi, quel galleggiare tra sogni e ricordi, fossero indispensabili al suo equilibrio e, quel che più conta, al suo lavoro. Nient’altro che una pulizia della mente da cui trarre partito. Solo rare volte si chiedeva se quelle che lui percepiva come temporanee sottrazioni di vita non fossero invece le progressive acquisizioni con le quali la morte stava prendendo possesso di lui. Ma su questo pensiero non si fermava a lungo.

Verso i sessanta, alla neghittosità e all’accidia, già da alcuni anni compagni inseparabili dei suoi quotidiani ritorni alla vita, si era aggiunta una nuova disposizione d’animo, oscillante fra il malumore e l’ira. Alla usuale resistenza nei confronti della vita operosa e degli impegni del giorno nascente si era aggiunto, e acquistava sempre più vigore, il rifiuto di misurarsi con il proprio decadimento fisico. Perfino rivoltolare nel letto quel suo corpo dilatato dalla pinguedine gli provocava dolore. Sollevarlo e rimetterlo in piedi era una pena. Nella carne aveva ancora impresso il ricordo dell’agilità di un tempo. Ogni volta che era costretto a piegarsi, per infilare le scarpe o anche solo per raccogliere un oggetto caduto, i muscoli e le giunture gli sbattevano in faccia il paragone con il passato, e lui era preso da una rabbia impotente. Decideva di rimandare il confronto, di restarsene sdraiato, di sprofondare nuovamente nel sonno. E tuttavia a ogni risveglio prima dell’alba l’inesplicabile legame con il passato finiva per prendere il sopravvento, e lui si rassegnava ad affrontare le operazioni penose e umilianti del ritorno alla vita. Era in quei frangenti che venivano a galla i ricordi cattivi, e allora la sua rabbia esplodeva in imprecazioni o si scioglieva in un pianto silenzioso sulla sorte dei suoi cari, sulla sua nera vecchiaia abbandonata.