13
Le campane di Padova suonavano mezzogiorno. Ai primi rintocchi la Francescona era apparsa ad annunciare: «È pronto».
A passetti brevi e cautelosi attraversò un pianerottolo gelido, aperto sulle scale, oltrepassò una porta, scese due gradini tenendosi a uno stipite e si ritrovò in cucina.
Era uno stanzone dalle pareti scure di fuliggine, sicché, sebbene avesse due finestre, risultava sempre buio. Quel giorno poi, con il sole coperto da uno spesso strato di nuvole, sembrava immerso in un crepuscolo lattiginoso. Dalle finestre filtrava un lucore grigiastro, ed era mezzogiorno. Da una parete sporgeva la cappa, nera anch’essa, di un grande camino: vi ardeva un fuoco alto e crepitante. Sulla tavola erano ordinate le stoviglie.
Una tazza di brodo di cappone esalava un profumo appetitoso. La prese e tenendola con ambedue le mani si sedette su una seggiolina bassa a uno dei lati del camino. La cappa sporgeva tanto da sovrastarlo; il suo viso era proprio all’altezza della fiamma. Il calore era forte, dalla parte del fuoco, e contrastava con il freddo alla schiena. In testa continuava a tenere la berretta da notte. Cominciò a bere piccoli sorsi saporitissimi. Sentiva la bevanda quasi bollente scendere nel corpo, ne seguiva il percorso interno con un piacere acuto. Fra un sorso e l’altro si concentrava sui cerchiolini di grasso che galleggiavano sulla superficie: era ipnotizzato dal loro farsi e disfarsi. La Francescona si era seduta davanti a lui, all’altro estremo del camino, su una seggiolina ancora più bassa e beveva il brodo aspirando rumorosamente con la bocca.
«È venuto solo il Dondi o anche qualcun altro?» chiese.
«È venuto quel fiorentino, il mercante. Ha detto che parte domattina all’alba e passerà stasera a ritirare la lettera.»
«Gliela porterai tu, subito dopo cena. Devo ancora scriverla.»
«Speriamo che non venga giù il diluvio, stasera» commentò lei, facendogli intendere quanto quell’ordine l’infastidiva. Ma lui fu pronto a ribattere:
«Non sei di qua, tu? Alla tua età dovresti averci fatto l’abitudine». E si concentrò nell’esame della piccola quantità di brodo che rimaneva sul fondo della tazza.
Dopo poco si riscosse, e chiese:
«Da Palazzo è venuto qualcuno?»
«Nessuno.»
«Da Venezia, dal signore di Milano?»
«Nessuno.»
«Ricordati, eh, se viene qualcuno da Palazzo o da qualche signore chiamami subito.»
La Francescona sapeva benissimo che in quei casi avrebbe dovuto chiamarlo subito. Se lo sentiva ripetere un giorno sì e l’altro ancora. Trovò inutile rispondere.
«Nessuna lettera?»
«No. Non hanno portato niente.»
Non ricevere posta lo contrariava. Magari lasciava passare più giorni senza leggerla, ma non avere un nuovo plico da aprire lo incupiva.
Sul tavolo erano posati una caraffa di vino rosso e un bicchiere. Ordinò alla vecchia di riempirgli il bicchiere e bevve quasi d’un fiato. Veniva dalla Borgogna quel vino, omaggio dell’abate di Cluny. Quei babbioni dei francesi, si disse mentre la vecchia gli riempiva di nuovo il bicchiere, sul vino vanno lasciati stare. Bevve ancora e poi addentò una coscia di cappone. Con la bocca piena bofonchiò:
«Mi farà male?»
«Eh?» fece la Francescona, che non aveva capito.
Deglutì e, brandendo la coscia davanti a sé, chiese:
«Pensi che farà male allo stomaco?»
«Ne avessero i poveretti» rispose la vecchia «gli passerebbero tutti i mali.»
«Mai conosciuto un poveretto che soffra di mal di stomaco» fu la sua risposta.
Quando il suo giovane copista abitava con lui il pranzo era uno dei momenti più belli della giornata. Avevano trascorso l’intera mattinata nella stessa stanza, ai rispettivi tavoli, scambiando poche parole, lo stretto indispensabile. Lui ammoniva: «Fai questo, sta’ attento a questo punto, non dimenticare di controllare quest’altro»; Giovanni annuiva ed eseguiva. Mentre mangiavano, l’uno di fronte all’altro, si risarcivano dei silenzi mattutini dialogando serenamente. Parlavano dei casi del giorno, degli amici e, soprattutto, delle pagine che Giovanni aveva copiato nelle ore precedenti. Lui chiedeva un parere e Giovanni, con grande discrezione, esponeva il suo giudizio, sempre acuto e penetrante. Mai aveva criticato un verso o una pagina, ma si poteva essere certi che, se gli fosse capitato di doverlo fare, avrebbe parlato con un tatto e una modestia da rendere bene accette le sue critiche. Lui amava ascoltare il parere di Giovanni. Lo condivideva sempre, e non perché era favorevole e lusinghiero, ma perché Giovanni pensava esattamente ciò che lui pensava. Giovanni aveva assorbito il suo pensiero fin quasi al punto da identificarsi con lui stesso. Non lo aveva addestrato, non era stato lui a instillargli quella consonanza di vedute. Era stata la vita in comune: il rimanere seduto in silenzio nello stesso studio, il leggere e copiare i suoi scritti, il sentirlo parlare con gli ospiti. Dovessi morire, si era detto più di una volta, Giovanni potrebbe portare a termine le opere non finite. Non se ne accorgerebbe nessuno. Proprio tutte, no. Per la poesia in volgare non era portato. O forse la riteneva un diversivo, una distrazione che il maestro si concedeva per riposarsi delle fatiche latine. Fatto sta che, per quanto ne avesse ricopiati a migliaia, non aveva mai manifestato interesse alcuno per quei versi. La reticenza di Giovanni lo infastidiva. Possibile che un ragazzo tanto colto e sensibile non cogliesse la novità della sua poesia d’amore? Per carpirgli almeno una reazione, era stato lui a provocarlo, durante una delle pause per il pranzo. Lo aveva apostrofato all’improvviso, con l’aria di chi scherza:
«A forza di copiare, anche tu ti sarai innamorato di Laura».
Quella era stata l’unica volta che le parole di Giovanni avevano assunto una sfumatura risentita, quasi irrispettosa.
«Non mi innamoro mica tanto facilmente, io.»
E nella pronuncia di quell’«io», lui aveva colto un indefinito rimprovero.
Parlavano delle opere latine, dunque. E a ogni conversazione lui ammirava la sua straordinaria conoscenza della lingua, pari alla sua bravura di scriba. Giovanni non era un copista come gli altri, quelli che trascrivono meccanicamente senza capire. Oh no. Giovanni copiava e nello stesso tempo mentalmente analizzava le pieghe più riposte del testo. Che nel fare ciò non commettesse alcun errore e conservasse un rispetto assoluto dell’originale aveva del portentoso.
E adesso non gli rimaneva che la Francescona. Ebbe un moto di stizza, accennò un movimento del corpo: voleva alzarsi, perdio, andarsene. Cercò di sollevarsi dalla seggiolina, ma recedette subito. Troppo faticoso. Lo avessero saputo i suoi ammiratori che il grande Petrarca, avvezzo a dialogare con le Muse, era ridotto a parlare di merda e di ulcera allo stomaco con una vecchia deforme e analfabeta! Sospirò, chiedendosi se mai avrebbe trovato requie. Era sempre stato così, da quando ricordava: cercava la solitudine, si immaginava la gioia di un ritiro in campagna o in un piccolo studio di città, ignoto a tutti, e poi non resisteva più di due giorni senza la compagnia di un amico o di una persona di riguardo. Era fatto così, lui. Non poteva farci niente. Era una delle sue condanne. Viveva in Provenza e voleva essere in Italia, stava a Parma e desiderava Pavia. Avrebbe voluto essere ovunque nello stesso tempo. Quando lo assaliva la paura di essere dimenticato provava una penosa sensazione di vuoto allo stomaco.
Bevve un altro bicchiere di vino e sprofondò di nuovo nei pensieri.
Perdio, si disse, alla mia età avrò diritto a qualcosa di meglio della Francescona. Avrò diritto anch’io a una famiglia che mi assista. E subito pensò a Francesca. Poteva chiederle di ritornare a vivere con lui. Francesca non gli avrebbe detto di no, non lo aveva mai fatto. Era la remissività in persona quella ragazza. Forse perché non era bella. Anche Francescuolo era servizievole. Un po’ insignificante, ma un brav’uomo. In casa nemmeno se ne avvertiva la presenza. Li avrebbe invitati a trasferirsi a Padova. Franceschino non c’era più. Il suo Franceschino se l’erano preso gli angeli. Certo, quel frugolo sarebbe stato un ostacolo insormontabile. Lo amava molto, ma sapeva che mai avrebbe potuto convivere con gli schiamazzi, le corse per casa, le imposizioni giulive di quel demonietto scatenato. Era troppo vecchio, lui, per rinunciare alla sua quiete e alle sue abitudini. Non era riuscito a sopportare nemmeno Giovannino, e a quel tempo non aveva più di sessant’anni! Giovannino, poi, era taciturno, quasi muto. Ma era pur sempre un ragazzetto e i ragazzetti non conoscono le regole. Più di una volta, per salvaguardare la sua pace e il suo lavoro, si era visto costretto ad affidarlo alle cure di amici. Franceschino se l’erano preso gli angeli. A Francesca avrebbe fatto bene avere un padre da assistere, le avrebbe riempito un grande vuoto. Decise di mandare al più presto il suo messaggio. Questa decisione lo risollevò e lo mise di buon umore.