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Si ritirò in camera da letto. In Provenza aveva contratto l’abitudine di schiacciare un pisolino dopo mangiato. Il letto era stato rifatto. Si allungò vestito sotto le coperte. La Francescona venne a chiudere gli scuri della finestra. Bene, si sentiva nelle condizioni giuste per addormentarsi. «Una figlia e un cappone lessato rallegrano la vita» ridacchiò nel buio. «E sia reso onore al vino di Borgogna.» E invece non riusciva a prendere sonno. Nella mente si affollavano le immagini della canzone. Gli era entrata dentro più di quanto avesse creduto.
Gli capitava spesso di non riuscire a staccarsi da un testo che avesse iniziato a comporre da poco. Soprattutto se si trattava di una poesia. Anche a letto seguitava mentalmente a scrivere versi su versi, a cercare soluzioni, a cancellare ipotesi appena formulate. A volte si assopiva e quel rimuginio continuava nel sonno e si prolungava in incerti dormiveglia. Ne uscivano associazioni fantastiche, percorsi bizzarri di cui solamente da sveglio riusciva a misurare tutta l’illogicità.
Quel pomeriggio era invaso dai fantasmi di una nave che scivola lentamente sul mare tranquillo, e che poi accelera la corsa per sfuggire all’inseguimento di una coppia di cani famelici. Un colpo di fulmine improvviso. Per un attimo il cielo buio si illumina a giorno, ma poi precipita nell’oscurità di una caverna senza fondo. La sua mente correva da una immagine all’altra e lui se ne stava immobile sul letto. Non si rigirava, non cambiava posizione, perché sarebbe stata una manovra penosa; lasciava fluttuare i pensieri nella speranza che la mente si sgombrasse. E invece quelle immagini seguitavano a intrecciarsi fra loro e ne nascevano sviluppi sempre più complicati e contorti. Forme vaghe e apparenti sillogismi si incatenavano in mobili trafile che conducevano tutte a un unico punto, a un gancio che arpionava il cervello con una fitta dolorosa. Il volto di Giovannino era la meta di tutti quei fantastici girovagari. Giovannino riappariva con l’ostinazione che gli era stata propria da vivo e a ogni riapparizione lui si riscuoteva e recuperava la lucidità.
Era stato la sua croce, quel figlio, e pure da morto gli toglieva la pace. Boccaccio aveva detto di pregare per quell’anima del purgatorio. Boccaccio era un prete, ma prima ancora un amico. Anche lui, in cuor suo, doveva essere convinto che quell’anima era all’inferno. Per chi doveva pregare un padre? Per il figlio all’inferno o per sé stesso, perché Dio lo perdonasse di averne consentito la dannazione? Lui, poi, aveva giurato solennemente di proteggerlo. In coscienza poteva affermare di averci provato, di avercela messa tutta. E tuttavia non poteva snidare quel tarlo. E anche quel giorno il tarlo rodeva i pochi scampoli di sonno che calavano sui suoi occhi. Io Giovanni l’ho amato, si diceva. Ed era vero. Lo aveva amato subito, al solo annuncio della sua esistenza, senza nemmeno averlo visto.