15
Un bizzarro personaggio dalla pelle olivastra, il naso aquilino, le orecchie ornate di due grandi cerchi d’argento, la bocca carnosa tirata in un sorriso untuoso, aveva chiesto di lui nel palazzo dei Colonna. Era un gitano. Con una cerimoniosità imbarazzante, gli aveva comunicato che una delle sue sorelle, una signora che lui ben conosceva, avendo dato alla luce un maschietto sano e vitale e volendolo battezzare, mandava a chiedere al padre quale nome volesse imporgli. Si era sentito mancare. Per poco non era caduto a terra. E sottoterra avrebbe voluto sprofondare. Il primo pensiero era stato per il cardinale: alla notizia che il cappellano di casa generava bastardi la sua ira sarebbe stata terribile. L’avrebbe scacciato. E scacciato dai Colonna, nessuno l’avrebbe più protetto. Avrebbe perduto tutto, così, senza avere fatto alcunché per provocare la propria rovina. Ma il secondo pensiero lo rassicurò: quella donna era conosciutissima ad Avignone. Con quale credibilità avrebbe potuto sostenere che il padre era proprio lui? Gli sarebbe bastato negare e la faccenda sarebbe finita lì. E tuttavia non si era aggrappato a questo pensiero, anzi, lo aveva appena formulato che già lo aveva allontanato da sé. Dentro di lui si faceva strada, gradualmente, senza incontrare resistenze, un sentimento strano. Al terrore di pochi istanti prima era subentrato uno stato di pienezza molto simile alla felicità. Sapere di essere padre lo appagava. Insomma, aveva deciso, così su due piedi, che voleva esserlo. Era stato dunque con molta calma e con un vago sorriso sul volto, come se avesse trovato del tutto normale e scontata quella richiesta, che aveva risposto a quell’imbarazzante visitatore:
«Ditele di chiamarlo Giovanni».
E lo aveva congedato.
Nel corso degli anni, ripensando a come quel nome gli si fosse affacciato spontaneamente, quasi che lui avesse sempre saputo che quello era il nome da dare a suo figlio, si era chiesto se il suo fosse stato un gesto di sfida nei confronti del cardinale Giovanni. Aveva finito per convincersi che proprio questo era stato il motivo, e se ne compiaceva. È vero, però, che qualche volta gli era nato il dubbio di essersi lasciato guidare dal ricordo sbiadito di un fratellastro, rinchiuso già da piccolo in convento e del quale nessuno in casa faceva parola, ma ogni volta aveva prontamente allontanato l’idea che per lui Giovanni fosse il nome dei bastardi.
Ovviamente, non lo aveva preso subito con sé. Dove lo avrebbe alloggiato? Nel palazzo dei Colonna? O avrebbe chiesto il permesso di affittare una casetta per accudire il suo bastardino? E poi lui, allora, aveva altro da fare che crescere un figlio. Era il ’37, aveva trentatré anni, la giovinezza era passata da un bel po’ e ancora non aveva prodotto niente di notevole. Se entro un anno o due non fosse riuscito a dare alla luce un’opera significativa tutti avrebbero irriso alla grande promessa delle umane lettere. Non aspettavano altro, quegli invidiosi che attorniavano il cardinale. Era tempo di tirare fuori risultati, e corposi. E lui sapeva che in quell’anno i risultati sarebbero arrivati. Aveva appena concepito un paio di progetti ambiziosissimi: una grande rassegna degli uomini più illustri della storia e, soprattutto, un grande poema epico in latino. Aveva deciso di sfondare una volta per tutte: quei due libri avrebbero fatto rumore, eccome. Con una sola mossa si sarebbe candidato a raccogliere l’eredità di Livio e di Virgilio. Non c’era spazio per cure paterne. Ma alcuni anni dopo onorò l’impegno che aveva preso con sé stesso e con quella donna, e accolse Giovannino nella sua casa. Nelle sue case, perché quei libri non erano finiti, ma il rumore dell’annuncio era stato tale che adesso lui poteva fregiarsi del titolo di poeta laureato, avere case in Provenza e in Italia, vivere senza sottostare agli ordini del cardinale. Adesso lui era Petrarca. E si era pure ficcato in testa di legittimarlo al più presto, quel bambino, affinché nessuna ombra turbasse il loro rapporto. C’erano voluti degli anni, ma nel ’48 papa Clemente aveva ceduto e Giovanni era stato integrato nella pienezza dei diritti filiali.
Nessun’altra data avrebbe potuto essere più infausta. La Grande Peste scorrazzava per l’Europa intera e spopolava città, paesi, campagne. Torme di orfani si aggiravano per le strade, migliaia di capifamiglia, a cui la Peste non aveva risparmiato nemmeno un figlio, sedevano inebetiti davanti alla porta di casa, in attesa. La Vita aveva abdicato e la Morte dettava ovunque le sue leggi. E nel mezzo di quel carnaio lui si era acquistato il diritto a sopravvivere e a tramandarsi in una sua creatura. In Cielo, o all’Inferno, quel gesto era sicuramente apparso superbo e tracotante. Dovunque avesse sede, il guardiano dei voti si era segnato il nome di Giovannino e lo aveva, lui che poteva, votato alla Peste.
Da tempo aveva capito che il destino di Giovanni era stato decretato in quei giorni. E non se ne dava pace. Lo aveva condannato lui. Il suo gesto non era dettato da arroganza o da orgoglio: era un atto d’amore. Di un amore cieco. La sua felicità gli aveva fatto chiudere gli occhi sulla miseria che lo circondava. Quello spettacolo avrebbe dovuto renderlo umile, e invece lo aveva reso solamente ansioso di proteggere la sua creatura. All’atto della legittimazione aveva giurato davanti alla croce che avrebbe vegliato su quel figlio con tutte le sue forze e con tutta l’attenzione di cui era capace, che lo avrebbe difeso nelle avversità della vita, che ne avrebbe fatto un uomo di successo. Sotto l’ala del grande Petrarca, Giovannino sarebbe cresciuto in armonia e perfezione, immune dalle minacce del mondo. Ogni volta che ci pensava, era sopraffatto dai rimorsi. Si accusava, piangeva. Aveva un bel dirsi che lui ci aveva provato. I risultati lo smentivano. Il fallimento era evidente.
Quando aveva stipulato quel patto con sé stesso, i segni del fallimento già si erano mostrati. Ma lui, sicuro di sé e delle sue capacità, aveva chiuso gli occhi.
Giovannino aveva quattro anni e alcuni mesi la prima volta che era entrato nella sua casa. Era anche la prima volta che lo vedeva. Davanti a quel bambino scuro di pelle e crespo di capelli, per un attimo, niente più di un attimo, era rimasto sconcertato. Ma non aveva receduto dal progetto che cullava dal giorno in cui sapeva della sua esistenza: farne un secondo Petrarca. Un Petrarca crespo e dai tratti orientali. Anche meglio, si era detto, sarà ancor più esaltante vederlo salire le scale del Campidoglio. Non aveva resistito alla voglia di manifestargli la sua aspettativa, e le sue prime parole erano state:
«Benvenuto Giovanni. Un giorno tu sarai l’erede della mia gloria».
E il bambino, con aria di sfida, guardandolo dritto negli occhi, aveva risposto:
«Voglio tornare a casa mia».
Lui aveva compreso e perdonato. A quell’età si ha ancora desiderio di una madre.
Siccome, adesso che era famoso, il tempo gli mancava ancor più di quando lavorava giorno e notte per diventarlo, non poteva assumersi il compito di educarlo personalmente. Decise che lo avrebbe affidato ai maestri più rinomati di Provenza e d’Italia.
Si era commosso il giorno in cui lo aveva accompagnato nella casa del suo primo precettore. In Giovannino, che osservava intimorito quell’uomo dal sorriso affabile e dal gesto pacato, aveva rivisto sé stesso davanti al vecchio Convenevole, il suo primo maestro, quello che gli aveva insegnato a leggere e a scrivere, e aveva intensamente desiderato di ritornare a quei giorni. Giovannino era fortunato: cominciava la sua scuola a meno di cinque anni, mentre lui ne aveva già otto. Era un bell’anticipo, che lo sfruttasse a dovere.
E invece fu una delusione dopo l’altra. Nella sua vita Giovannino aveva ricevuto gli insegnamenti dei più bei nomi delle lettere e della filosofia – Giberto da Parma, Rinaldo Cavalchini, Guglielmo da Pastrengo, Moggio Moggi – e ciononostante era giunto alla maturità sapendo leggere e scrivere a stento e compitando poche parole di latino. La sua avversione per gli studi, per la cultura, per le arti era invincibile. Lo attiravano solamente le corse a cavallo e gli esercizi fisici, i più spericolati.
Quando era ancora un ragazzo, durante i periodi di tempo che trascorreva nella sua casa, dopo la siesta gli permetteva di entrare nello studio. Lo faceva sedere accanto a sé e gli leggeva una sua pagina. Alla fine gli chiedeva:
«Ti è piaciuto?»
Senza attendere la risposta, proseguiva:
«Un giorno anche tu scriverai così. Ne sono certo. Il sangue non è acqua».
Che di quelle complesse frasi latine Giovannino non avesse capito una sola parola sembrava non importargli nulla. Del resto, lui non gli impartiva lezioni, e nemmeno gli raccontava le storie degli eroi antichi e le favole degli dèi: era troppo sicuro che sarebbe bastato l’esempio del padre. Con il passare degli anni dovette ricredersi. E allora cambiò atteggiamento, cominciò a pungolarlo:
«Ricordati che sei mio figlio, tu sei il figlio di Petrarca».
Finì per spazientirsi:
«Perdio, sei mio figlio e non capisci un accidente!»
Giovannino restava muto. Lo guardava come se osservasse un estraneo. Apriva la bocca solo raramente e sempre per chiedere:
«Dov’è mia madre?» e nient’altro.
Fattosi adulto, la sua indifferenza si era tramutata in ostilità. Dura e cattiva. Ai rimbrotti rispondeva con aperta sfida:
«A me leggere non piace».
E se per caso lui insisteva: «Ricordati di chi sei figlio», quello, con aria sfrontata, gli sbatteva sul muso: «Chi è mia madre?»
Ma lui sopportava con pazienza, fedele al suo voto. Era perfino riuscito a ottenergli un canonicato a Verona. E solo lui sapeva quanto gli era costato. I canonici di quella cattedrale non avevano mai avuto un collega più rozzo e indisciplinato. Ma, perdio, era il figlio di Petrarca e si sentissero onorati! E ci facessero l’abitudine, perché lui di quel figlio avrebbe fatto un vescovo. Ben presto questo sogno si rivelò irrealizzabile. Giovanni era diventato un frequentatore di taverne e di bordelli, perennemente a caccia di soldi, da spendere in brigata con puttane e giocolieri. Era un canonico dissoluto. Lui pagava i debiti e cercava di soffocare lo scandalo. Era disposto a tutto per quel figlio che da più di vent’anni non lo chiamava padre. Perché l’amava. Gli era capitato di perdere la pazienza, ma quando la misura era proprio colma. Una volta lo aveva perfino cacciato di casa. Ma era stato più un gesto simbolico che un vero ripudio. Per punizione lo aveva mandato ad Avignone, dall’amico Nelli; dopo poco Giovannino era tornato con lui. Sulle prime quella lezione sembrava essergli servita. Ben presto, però, tutto era ritornato come prima.
E poi arrivò il giorno maledetto che gli aveva rovinato la vita. Era l’inizio dell’estate, quella del ’61. Abitava a Milano, ma stava per trasferirsi nella sua casa di canonico a Padova. La tragedia si consumò la sera prima della partenza.
Da alcuni mesi gli capitava di cercare tra le carte e di non ritrovare il foglio di cui aveva bisogno. Eppure era certo di averlo lasciato in quel posto. Il fenomeno si ripeteva con una frequenza inquietante. Gli era pure arrivato all’orecchio che certe sue poesie e certe sue lettere, di cui era sicuro di non avere licenziato copia, circolavano fra il pubblico. Sospettava dei servi. Ma poi, quella sera, nella penombra del crepuscolo, sorprese Giovannino che stava rovistando sul suo tavolo e capì. Fu una pugnalata alla schiena. Avrebbe preferito morire. Giovannino lo tradiva in ciò che lui aveva di più caro e prezioso. Fu preso da una collera spaventosa, il sangue gli salì alla testa, gli iniettò gli occhi, e con quanta voce aveva si mise a urlare:
«Bastardo, allora sei tu, bastardo!»
Giovannino non si era spaventato. Lo guardava con la sua aria di sfida, con un sorriso arrogante:
«Ma non sono il tuo figlio diletto in cui ti sei compiaciuto?»
«Taci, figlio di puttana, stai zitto.»
Ma Giovannino non taceva:
«Belle parole da dire a un figlio, al tuo erede spirituale».
E lui ripeteva:
«Taci, bastardo, taci».
«Bastardo io, bastarda Francesca, solo bastardi sa generare il sommo poeta.»
Non ci vide più. Se avesse avuto un coltello in mano lo avrebbe colpito. Cominciò a gridare fuori di sé:
«Vattene, fuori da questa casa, vai da quella baldracca di tua madre».
Giovanni rideva cattivo.
«Tu che frequenti i bordelli non faticherai a ritrovarla.»
Giovanni rideva ancora.
«Se non te la sei già chiavata.»
Giovanni aveva smesso di ridere. Lo aveva guardato con odio e poi era fuggito.
Lui si era pentito subito. Lo aveva rincorso, ma Giovannino aveva già lasciato la casa. Era notte, dove cercarlo? Al mattino non era rientrato. Lui doveva partire per Padova. I muli erano carichi e aspettavano. Tornerà, si era detto, tornerà come sempre. E poi l’offeso era lui, la prima mossa spettava a Giovannino. Ed era partito.
Pochi giorni dopo gli comunicarono che il figlio era morto. La Peste lo aveva adocchiato, sbandato, per le vie della città e con un colpo solo lo aveva abbattuto.