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Si fermò e rilesse i tre versi che aveva scritto:
In un boschetto novo, a l’un de’ canti
vidi un giovene lauro verde e schietto,
ch’un delli arbor’ parea di paradiso.
Strani, quei versi. Qualcosa non gli tornava. Provò a mutare qua e là. Se è un albero del paradiso, sia almeno santo. Dunque,
In un boschetto novo, i rami santi
fiorian d’un lauro giovenetto e schietto.
Anche così, però, permaneva quella sensazione inquietante. Non poteva dipendere dal lauro. Su quel simbolo stava costruendo l’intero libro delle rime. Laura, lauro: era quasi un passo obbligato. Laurea, in latino, e lui era il poeta laureato. Si fosse chiamata Giovanna, quali strade avrebbe preso la sua poesia? Forse l’avrebbe ribattezzata Laura e avrebbe percorso la stessa identica via. Ma il caso gli aveva fatto risparmiare quella fatica: la bionda di Avignone si chiamava Laura per davvero. E per davvero si era rifiutata. E anche questo si era rivelato una vera manna. Ovviamente per uno come lui, uno che conosceva Ovidio a memoria. Apollo inseguiva la ninfa Dafne per farla sua; la ninfa fuggiva disperata; Peneo, il padre, la sottrasse al dio trasformandola in lauro, e Apollo, allora, fece una corona di quelle fronde amate. Neanche l’avesse scritta lui quella favola! Le carni della donna desiderata si erano fatte materia della pianta dei poeti; l’amore non goduto, del canto. La sua Laura-Dafne si era identificata con la poesia stessa. Se c’era un emblema che quella canzone non avrebbe potuto tralasciare era proprio il lauro. Se lo avesse fatto, avrebbe pianto la morte di una sconosciuta.
Eppure, rileggeva i versi appena scritti e quelli lo rimandavano ad altro. Quel lauro giovinetto sembrava appartenere a una specie diversa. Leggeva, e invece di immaginare una donna, anche la poesia è donna, sentiva una confusa presenza maschile. Ti stai rimbambendo, Francesco, si disse. Quante storie, per un lauro al maschile! Non poteva nascondersi, però, che quell’albero lui lo aveva sempre pensato alla latina, la laurea, una pianta di genere gentile. «Arbor vittoriosa» aveva cura di scrivere, non «vittorioso». Mentre adesso gli era venuto spontaneo, e per ben due volte, insistere sulla mascolinità. Ubbie, fisime da vecchio, si ridisse, e riprese la penna per continuare.
Ci aveva preso gusto. Facciamolo morire questo lauro giovinetto, facciamo entrare madama Peste. Forse per quel «madama» pronunciato mentalmente, forse perché la Peste è donna pure lei, fatto sta che nella sua immaginazione quel flagello assunse subito i tratti di una megera. Una vecchia crudele, avida di sangue, ecco cos’era la Peste. Una Furia, una di quelle Furie di cui aveva letto in Ovidio, in Claudiano. Una Furia si avvicina al lauro popolato di uccelli canori con in mano una torcia infuocata, impugna la falce e l’abbatte al suolo. Sì, così agiva la Peste, massacrando senza pietà:
poi, mirandol più fiso,
giunse un’antica donna e fera in vista,
con ardente compagna, e da radice
quella pianta felice
svelse in un punto: onde mia vita è trista.
Boccaccio avrebbe avuto un bel po’ di filo da torcere per trovarvi traccia delle sue novelle. Ma non aveva voglia di riderci sopra. Anche quei versi non andavano. Il finale suonava falso. «Mia vita è trista?» Come se a lui importasse qualcosa se, quindici anni prima, ad Avignone, era morta di peste una matrona per la quale, già allora, non provava sentimento alcuno. Non era mica Giovannino, quella morta. Giovannino, reciso a venticinque anni, lontano da casa, solo. E lui, che aveva giurato di proteggerlo, non aveva potuto neanche metterlo in guardia. La Peste aveva aspettato che fosse isolato e senza difese. Lei mieteva, e lui lì a piangere.
«A piangere, non a fare letteratura»: il suono della sua voce echeggiò nella stanza silenziosa. Ebbe paura di sé stesso. Parlo da solo come gli allucinati, si disse.
La sua vita era triste, sì, ma non per quel lauro sradicato. Che, a rigore, non sarebbe neppure morto. Era la poesia, quel lauro, e la poesia non muore, tanto è vero che lui era lì a scriverla, una poesia. Una poesia sulla morte della poesia: gran mestiere quello del poeta, senza rischi! Quanto ci aveva ricamato sopra! Il lauro sempreverde non teme il passare delle stagioni, lo scorrere del tempo. Il lauro è immutabile, sempre uguale a sé stesso. Il lauro è rispettato dalla Natura per ordine di Giove in persona: è immune dalla folgore. Che si scatenasse la tempesta: lui, al più, avrebbe squassato le verdi chiome al vento, ridendo dell’ira celeste che inceneriva le altre piante intorno. Dio lo preservava. Quanti bei ricami, quante belle favole, quante fandonie! Aveva forse ridato la vita a quella poveraccia di Avignone, la poesia? Gli aveva forse restituito Giovannino, l’eterna poesia? Sincerità, Francesco, sincerità, che la vita è merda.
Intinse di nuovo la penna, cancellò i versi della Furia e di getto, quasi con furore, scrisse:
e mirandol io fiso,
cangiossi ’l ciel intorno, e tinto in vista,
folgorando ’l percosse, e da radice
quella pianta felice
subito svelse.
Così, un volgare colpo di fulmine, alla faccia di Giove e della poesia immortale. Quattro versi, anche se ben levigati, non fanno nemmeno il solletico alla Grande Peste.