19
L’inchiostro si era addensato, andava diluito. A questo scopo conservava nell’armadio dei libri una fiala d’acqua purissima. Si appoggiò sui braccioli dello scranno per alzarsi, e non ci riuscì. Per quanto puntasse i piedi sul pavimento, le gambe non rispondevano, sembravano prive di sensibilità. Si disse subito che era colpa del troppo vino, ma questa spiegazione del tutto verosimile non riuscì a scacciare il terrore di morire da cui, immediatamente, era stato afferrato. Quando quel terrore lo assaliva, non c’era rimedio alcuno. Gli si stringeva la bocca dello stomaco. A volte vomitava, e faceva anche di peggio. Si convinse, con assoluta certezza, che non avrebbe rivisto il giorno dopo, che quelle erano le sue ultime ore. La solitudine lo spaventò. Aveva bisogno di vedere un essere vivente, di esercitare ancora le sue facoltà vitali.
«Francescona!» chiamò con quanta voce aveva in petto.
La vecchia accorse, ma non aveva l’aria preoccupata. Alle intemperanze del padrone aveva fatto l’abitudine da un pezzo. Lui la guardò senza sapere che dirle. Si vergognava di rivelare il motivo per cui l’aveva chiamata con tanta veemenza. Dopo qualche istante di silenzio le disse:
«Mi sento meglio. Questa sera mangerò di magro. Prepara un po’ di formaggio».
La Francescona si limitò a un «Va bene» privo di commenti.
«E da bere solo acqua.»
Colse nello sguardo della vecchia, che era corso alla caraffa vuota, una sfumatura di sarcasmo. Ma non gliene importava. Pensasse quello che voleva, sparlasse pure di lui, domani, con i vicini, quando le avrebbero chiesto com’era, in casa, il grande poeta defunto.
Avrebbero composto la salma sul tavolone da pranzo, fra quattro candele, in attesa di portarla a Palazzo per esporla. La casa sarebbe stata invasa da amici e da semplici curiosi. Sarebbero entrati nello studio, avrebbero sfogliato i suoi libri. Giovanni Dondi e Lombardo della Seta avrebbero frugato tra le carte. Erano amici, loro, e nel caso avrebbero provveduto a salvaguardare la sua memoria. Ma chiunque avrebbe potuto leggere quella maledetta canzone, squadernata sul tavolo come una puttana adescante. Un pettegolo invidioso avrebbe potuto distruggere con un solo sguardo la sua reputazione. Sessant’anni di fatica, di lavoro, di sopportazione, una vita passata a sgusciare tra cardinali, signorotti, papi e imperatori, essere diventato Francesco Petrarca, conte Palatino per merito dell’ingegno, e poi distruggere tutto così, stupidamente, per quattro versi nati dalla fantasia di un ubriaco. Francesco da Carrara sarebbe stato informato subito, figuriamoci, e che faccia avrebbe fatto! Si sarebbe ricordato delle loro conversazioni sul bene eterno e sulla felicità che procura la fede e avrebbe concluso che il suo protetto lo ingannava. Che si era speso per un volgare impostore, se non per un messo del demonio. E lui, disteso sul tavolo, non avrebbe potuto difendersi. Il suo nome sarebbe stato in balìa del volgo. Maledetto spiritaccio, tu e la tua sincerità. Pur tra i sudori freddi che l’immagine di sé giacente sul catafalco gli procurava, ragionava con ferrea consequenzialità. Aveva dimenticato i Giovanni e i Franceschini; il problema, adesso, era salvare Petrarca. E in fretta, ché la megera poteva irrompere da un momento all’altro. Salviamo la gloria, che è l’unica via per sopravvivere.
Buttò da un lato del tavolo il foglio su cui stava per scrivere la lettera a Giovanni e afferrò quello della canzone. La rilesse avidamente, con la penna pronta in mano. Il pensiero di stracciarla o di buttarla nel fuoco non l’aveva nemmeno sfiorato. Mai aveva distrutto qualcosa scritto da lui: sarebbe stato come perdere un arto. Rileggeva per correggere, per trasformarne il senso. Ci voleva mestiere, e lui ne aveva da vendere. Tanto più che nel rileggerla l’aveva trovata più innocua di quanto pensasse.
La fenice che si uccide come il pellicano, Cristo che si sacrifica vanamente: non se ne sarebbe accorto nessuno, poteva restare. Solo la faccenda di Euridice era compromettente. Che non ci fosse Orfeo a riportarla in vita era una variante della favola e pertanto non faceva problema, ma che a quella morta non si schiudessero le porte del paradiso era una mancanza pericolosa. Andava assolutamente colmata.
In terra cadde ove star pur sicura
credeasi.
Erano questi i versi che avrebbero fatto scandalo. Laura muore come una pagana, ignara di salvezza e di vita eterna; come se la morte fosse una fine e non un trapasso.
«Guarda guarda cosa pensava Francesco Petrarca!» si sarebbero detti, e i più falsi si sarebbero perfino segnati.
Per la sua Euridice ci voleva una bella morte cristiana, da santa. Una dichiarazione di speranza che rimettesse la peste al suo posto, la qualificasse per quello che era: uno strumento, un terribile strumento della imperscrutabile giustizia divina. Di cui nessuno può dubitare. Un buon cristiano, dalla coscienza monda e dalla fede salda, guarda la morte in faccia, con serenità e sicurezza. «Sicura», ecco su cosa avrebbe potuto lavorare. Sicura di cosa? Ma di salvarsi, perdio, sicura di salire al cielo. Laura non è Euridice, che le importa di rivivere negli scritti dei poeti se la nuova vita che l’attende è incomparabilmente più bella di quella a cui Orfeo l’avrebbe ricondotta?
Fu percorso da un guizzo di purissima felicità. Aveva trovato la soluzione. Il verso gli veniva a meraviglia.
Sarà anche stato mestiere, ma da grande poeta:
lieta si dipartio, nonché secura.
Ahi, nulla, altro che pianto, al mondo dura!
Avesse avuto ancora del vino, avrebbe brindato alla sua santa eroina, alla faccia del venerdì. Per sua fortuna la caraffa era vuota: un altro bicchiere avrebbe peggiorato l’ulcera, che, dopo essersi calmata durante il giorno, ora ritornava a bruciare nello stomaco. Anche lo stimolo alla vescica era diventato insostenibile. Non aveva orinato per tutto il pomeriggio, e con il vino che ci aveva messo sopra... Ma prima voleva concludere.
Mancava ancora il congedo. Breve, solo tre versi, giusto per segnalare che era finita. Attaccò con leggerezza, seguendo un modello sperimentato:
Canzon, tu puoi ben dire:
– Queste sei visioni al signor mio
àn fatto
E qui si bloccò. Cosa può dire la canzone? Ma che diavolo mi avranno mai fatto, queste sei visioni?, si chiese irritato per l’intoppo che lo fermava proprio alla fine. Sarà così difficile trovare una cosetta da fargli fare? Evidentemente lo era, perché la cosetta non veniva. Se avesse dato retta allo spiritaccio, ne avrebbe avute di cose da ficcare in quel verso, ma la questione era troppo seria per dargliela vinta. Quando c’era di mezzo l’interesse supremo, nemmeno lo spiritello riusciva a deviarlo. Una idea gli si era formata, ma riluttava a scriverla. Gli sembrava una menzogna troppo grossa. Non voleva confessare che era proprio l’idea in sé a farlo inorridire. Rimase incerto a lungo e poi alla fine si decise. Ma via, che t’importa, si disse, è solo letteratura, e buttò giù:
àn fatto un dolce di morir desio.