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Sulla pila delle poesie d’amore era adagiato, bene in vista, il foglio bianco con il quale rispondere all’altro Giovanni, il fuggitivo. Il mercante aspettava la lettera per portarla a Firenze, non poteva più dilazionarne la stesura. Del resto, non aveva motivo per ritardare ancora. Si sentiva nella disposizione di spirito giusta per scriverla. Non era più angosciato da quella necessità. Che senso aveva continuare in quell’inutile contrasto. Avrebbe detto di sì alla richiesta del ragazzo. In quel breve mattino che è la vita, perché preoccuparsi di sciocchezze come quelle. Giovanni sarebbe ritornato e insieme avrebbero atteso che la peste di turno si decidesse, una buona volta, a troncare anche lui, l’intoccabile. Con il ritorno di Giovanni sarebbe finalmente cessata quell’ansia assurda nella quale viveva da quasi due anni, in perenne attesa di un messaggio che gli comunicasse che la peste o i briganti o un fiume in piena si erano portati via quel giovane lontano. Era fermamente convinto che prima o poi quel messaggio sarebbe arrivato: la Francescona non sapeva perché lui chiedesse continuamente se c’era posta. Nella morte di Giovanni non voleva essere coinvolto. Questa volta la responsabilità sarebbe stata solamente sua, di Giovanni, della sua ambizione. Lui non era più in debito con la morte. Non le avrebbe dato più niente di suo. Ma adesso era tutto cambiato. Adesso poteva scrivere «basta».

 

Quattro o cinque anni prima della morte di Giovannino, Donato Albanzani, che allora insegnava grammatica a Ravenna, in una lettera gli aveva magnificato le straordinarie qualità di un ragazzetto di circa dieci anni che un certo Malpaghini gli aveva affidato perché l’educasse negli studi di umanità. Ne aveva elogiato l’indole e, soprattutto, la capacità fuori del comune di apprendere il latino e l’arte della scrittura. Un po’ di tempo dopo, a Venezia, durante uno dei loro frequenti colloqui, gli aveva confidato che quel bravo ragazzo, di nome Giovanni, non era un Malpaghini, ma che a quella famiglia era stato consegnato in fasce, munito di consistente donativo, da una nobildonna di Parma di cui il Malpaghini non aveva svelato l’identità. Aveva però riferito di voci secondo le quali il padre sarebbe stato un noto letterato. Donato aveva anche scherzato sul fatto che il buon Giberto, il precettore di Giovannino, aveva forse cercato tra le braccia di dame sensibili alla poesia sollievo dalle pene che gli procurava quell’iradiddio di allievo. Al che, ricordava bene, lui aveva ribattuto che solo una dama insensibile come pietra avrebbe potuto concedersi a un grammatico. Ci aveva scherzato sopra, sì, eppure un dubbio, quasi un rimorso, gli si era infilato dentro. Quel ragazzo, stando al racconto dell’amico, sarebbe nato a Parma nel ’48 o ’49, e in quegli anni lui, letterato più che noto, a Parma aveva fatto la fugace ma intima conoscenza di una svagata damigella giunta in città al seguito dei milanesi. Aveva controllato sui margini del libro dove segnava le date dei suoi cedimenti alla carne: i conti tornavano. Benché non avesse alcuna certezza, in cuor suo aveva cominciato a pensare a quel giovane sconosciuto come a un figlio. E lo aveva pure confessato a Donato. Ma si era rifiutato di conoscerlo. Aveva seguito da lontano, senza mai apparire, i progressi che egli compiva sotto la guida del maestro. Era ben deciso a non immischiarsi, a restare uno spettatore. Giovannino aveva bisogno di lui, il suo cuore non poteva essere distratto, doveva battere solo per quel figlio ribelle e sconoscente. Dopo la sua morte, aveva resistito ben tre anni prima di chiedere a Donato di portargli a casa il suo pupillo. E in seguito si era illuso di aver preso la decisione giusta.

Il secondo Giovanni era l’esatto opposto del primo. In lui aveva trovato in abbondanza quelle qualità di cui l’altro era stato del tutto sprovvisto. Il loro rapporto era dolce, sereno e distaccato. Proprio come lui desiderava. Se anche gli fosse venuta la tentazione di farlo, non avrebbe mai potuto dire a un suo servo: «Tu sarai il mio erede». Pur trattandolo da copista, gli dimostrava affetto e sollecitudine. Mai una volta aveva dovuto riprenderlo, mai una volta Giovanni si era lamentato. Un maestro dell’antichità e il suo giovane allievo: ecco, così lui vedeva il loro rapporto. Finché, quel giorno di aprile dell’anno passato, era accaduto l’impensabile, il mondo si era improvvisamente capovolto.

 

Quel 21 aprile – non avrebbe mai più dimenticato quella data – entrando nello studio si era meravigliato di non trovare Giovanni al suo tavolo di lavoro. Non aveva dato peso all’assenza e si era seduto al proprio posto. Poco dopo, in effetti, Giovanni era entrato nella stanza, ma anziché andare a mettersi nel suo angolo, si era diretto con passo deciso verso di lui.

Lui lo guardò in faccia e rimase allibito. Non era il solito Giovanni: i capelli erano arruffati, gli occhi febbricitanti, muoveva le braccia a scatti, irrequieto come un tarantolato. Pensò che stesse male e gli chiese preoccupato cosa si sentisse.

«Niente, sto benissimo» fu la risposta, ma la voce era alterata, quasi irriconoscibile.

Era evidente che mentiva. E allora lui, con pazienza, aveva cominciato a interrogarlo: se gli fosse successo qualche incidente, se avesse litigato con un servo, se qualcuno della casa lo avesse offeso. A ogni domanda Giovanni rispondeva no, un semplice monosillabo. Gli sembrò di rivivere i dialoghi con Giovannino. La stessa cupa ostinazione, e, quel che era peggio, gli stessi lampi ostili negli occhi. E allora si spazientì:

«Perdio, parla. Dimmi cos’hai».

«Visto che insistete, ve lo dico subito. Avevo deciso di aspettare ancora, ma siccome lo volete, ve lo dico. Voglio andarmene.»

Fece finta di non avere capito:

«Come?»

«Voglio andarmene» ripeté Giovanni con tono duro, cattivo.

Lui era sgomento. E atterrito. Rinunciò a ogni asprezza. Assunse un atteggiamento paterno:

«Per favore, spiegami i motivi di questa tua decisione. Lo sai che mi addolora».

Giovanni accennò a una risata, ma si trattenne.

«È presto detto» rispose, «mi sono stufato di copiare.»

Lui si sentì sollevato. Si era immaginato chissà cosa, ma se il motivo era questo, pensava, avrebbe trovato la soluzione.

«Non mi sembra una decisione felice. Copiando i miei scritti ti stai facendo una grande cultura, ti sarà utile nella vita» azzardò. E aggiunse: «Le tue conoscenze delle lettere sono molto cresciute da quando sei al mio servizio».

Non l’avesse mai detto. Dalla bocca di Giovanni uscì un torrente di parole: astiose, perfino insultanti. Lo accusò di essere un vecchio egoista, uno spudorato, un vanesio incapace di vedere al di là della propria pancia. Gli chiese con che faccia poteva affermare di avergli insegnato alcunché, sostenne che tutto quanto lui sapeva gli veniva da Donato, perché Donato era un maestro vero, non come lui, che profittava, e basta, di chi gli stava vicino. No, non gli aveva insegnato niente, perché lui era geloso, geloso della sua bravura, della sua conoscenza del latino.

«Il mio latino è migliore del vostro» ripeteva, «e voi lo sapete.»

Era un fiume in piena che lo travolse e lo lasciò, lui, il principe dell’eloquenza, senza parole. Mentre Giovanni gli rovesciava addosso le sue accuse, con l’evidente intenzione di ferirlo, si era chiuso in un assoluto mutismo. Lo guardava senza proferire motto, con aria interrogativa. Ma chi sei? gli chiedeva con lo sguardo. Ma chi sei tu, in realtà? Era uno sguardo di circostanza, il suo, artefatto, l’estrema difesa di un vecchio sorpreso in peccato infamante. Lui sapeva bene chi era quel ragazzo. Ma si lasciava passare sopra quel diluvio di immondizia restando immobile. Tu non riesci a sporcarmi, gli diceva il suo immoto silenzio. Giovanni aveva capito, e perciò si arrabbiava ancora di più. Si sentiva impotente di fronte a quel monumento offeso.

Quando Giovanni tacque, lui parlò con un tono calmo e suadente, come se nulla avesse udito:

«E va bene, figliolo, se il problema è il copiare, non copierai più. Io ti sono affezionato, resterai nella mia casa senza obblighi, come se tu fossi mio figlio».

L’urlo che uscì dalla bocca di Giovanni si propagò per tutta la casa:

«Come se fossi tuo figlio!...»

Quando l’eco del suo grido si spense, Giovanni scoppiò a piangere. Lui sentiva di avere vinto, e seguitava a mantenersi nella sua posa solenne e insieme paterna. Giovanni piangeva a dirotto e di tanto in tanto ripeteva: «Come tuo figlio!» Una volta calmatosi, lo guardò fisso negli occhi. Nei suoi bruciava un odio intenso, da fare paura. E poi, sommessamente, disse:

«Ma io sono tuo figlio».

Si fece un grande silenzio. Si fissavano muti. L’odio era caduto dagli occhi di Giovanni. Adesso erano come quelli di un bambino terrorizzato.

Fu lui a rompere il silenzio:

«Tu sei figlio di Matteo Malpaghini di Ravenna. Il troppo scrivere deve averti dato alla testa. Hai ragione di voler smettere».

«Io sono tuo figlio, e lo sai.»

Aveva una voce supplichevole.

«Non ti chiedo di riconoscerlo pubblicamente. Mi basta che tu mi dica di sì, e il segreto resterà fra noi due. Dimmi di sì, ti scongiuro.»

Lui si era chiuso in un mutismo impenetrabile. Lo guardava come si guarda l’ultimo degli estranei.

«Dimmi di sì» seguitava a invocare Giovanni. «Dimmi di sì e io resto, ti farò da servo per tutta la vita.»

Ma dalla sua bocca non uscì suono alcuno. Giovanni piangeva silenziosamente e sempre più di rado ripeteva: «Dimmi di sì». Alla fine la sua impassibilità ebbe la meglio: Giovanni uscì dalla stanza e lasciò la casa.

 

Nei primi mesi aveva seguito il girovagare di Giovanni per l’Italia chiedendo notizie agli amici e raccomandandolo ai suoi numerosi conoscenti. Poi cominciarono ad arrivare, con regolarità, le lettere. Il giovane si era diretto in un primo tempo verso Avignone, poi era andato a Pavia e di lì a Milano; in seguito era sceso a Parma, per fermarsi infine a Firenze. Mai aveva mostrato l’intenzione di recarsi a Ravenna o in Romagna. Quell’itinerario lo turbava. I viaggi di Giovanni disegnavano una mappa solo apparentemente casuale: quelle erano le sue città. Gli stava forse inviando un messaggio non scritto? Visitare quei luoghi era un modo per ribadire il legame con il padre o, più semplicemente, per giovarsi dei vantaggi che in quelle città il nome di Petrarca gli poteva assicurare? Chi era Giovanni? Un profittatore o un figlio leale fino all’abnegazione? Più di ogni altra, lo sconcertava la scelta di Firenze. A volte la interpretava come una scelta polemica nei suoi confronti, come se Giovanni avesse voluto riannodare i fili con le origini familiari che lui aveva reciso; più spesso gli appariva il gesto cinico di un impostore deciso ad ammantarsi del nome di un padre non suo proprio là dove questo risuonava più alto. Nella solitudine dello studio si macerava fra tali dubbi, e si puniva facendo il copista di se stesso. Quale che fosse la verità, il rimorso, simile a un grumo che ottura il respiro, si era incistato nel suo animo. E tuttavia mai aveva risposto positivamente alla richiesta che Giovanni gli ripeteva in ogni sua lettera. Aspettava un sì per ritornare. Lui, invece, non aveva vissuto quel periodo di separazione nell’attesa del suo ritorno, ma in quella della sua morte.

 

Quel 13 ottobre aveva deciso di accoglierne la richiesta. Gli avrebbe scritto di ritornare a vivere con lui, non come un figlio, ma da figlio. Entro due giorni il mercante sarebbe arrivato a Firenze. Giovanni sarebbe stato il suo erede, colui che avrebbe portato a termine le sue opere.

Distese il foglio sul tavolo e intinse la penna nell’inchiostro.