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Verso la fine di settembre era venuto a trovarlo Giovanni Boccaccio. Era ripartito pochi giorni prima, dopo un paio di settimane trascorse nella sua casa. La visita dell’amico gli aveva fatto molto piacere. Giovanni era più che un amico. E poi, dopo quell’estate terribile, lui aveva proprio bisogno di una presenza fraterna.

 

Nel maggio, all’improvviso, era morto Franceschino. Aveva appena messo piede nella casa di Pavia e senza darsi il tempo di bere un bicchier d’acqua aveva chiesto del suo frugolo. Pur con mille cautele, Francesca aveva dovuto dargli subito la notizia. Le parole della figlia lo avevano trafitto al cuore come una lama di coltello. Era stato un dolore lancinante, di quelli che tolgono il fiato. Muto, si era chiuso nello studio. Vi era rimasto fino all’indomani, senza piangere, inebetito. Per alcuni giorni non era uscito di casa. A chi avrebbe potuto reclamare i diritti di cui era stato defraudato? Perché lui era stato defraudato. Alla disperazione fredda era subentrato un sentimento di rivalsa nei confronti della vita, del mondo, dei conoscenti, della sua stessa figlia: tutto e tutti lo avevano tradito, lo avevano derubato del suo futuro... Non era bastato il sacrificio dei Giovanni, entrambi perduti per sempre, no, adesso anche Franceschino: perché lui poteva affidare al futuro solo poesie, storie e trattati, ma nessuna continuità di sangue gli era permessa. Aveva fatto voto di castità, lui, e il garante dei voti, inesorabile, implacabile, preciso, imponeva il rispetto di quell’impegno. Scrivere era la sua condanna: dannato a una eternità cartacea.

In quei giorni non avrebbe voluto vedere nessuno, avrebbe voluto rinchiudersi in quella sua solitudine fatta di inutilità, di frustrazione, di nulla, magari in un convento su un monte o, a Dio fosse piaciuto, a Valchiusa. E lì assaporare goccia a goccia l’amaro della sua condizione, contemplare con occhi asciutti la fragilità dei castelli di parole che aveva eretto intorno a sé. Gli era balenata l’idea di un trattatello, scarno, sincero, sulla vanità della gloria.

Ma nemmeno questo gli fu concesso. Pochi giorni dopo il Visconti sposava la figlia Violante e lui dovette trasferirsi da Pavia a Milano. Non poteva esimersi dal presenziare alle nozze. Il suo nome dava lustro alla corte. Era obbligato a esibire la sua persona, la sua brillante conversazione, le sue maniere, il suo sorriso... E questo aveva fatto, nella generale indifferenza per il suo dolore. Che lui si teneva dentro, senza neppure provare a palesarlo. Non avrebbe retto a lungo, ma per fortuna – anche le disgrazie possono rivelarsi una fortuna – appena terminati i festeggiamenti una ferita a una gamba lo aveva costretto a mettersi a letto. Niente di grave, ma lui aveva volutamente prolungato la degenza per sottrarsi agli obblighi di società. Sapeva, comunque, che la sua assenza a Palazzo non sarebbe passata inosservata. Ogni giorno venivano a riferirgli i commenti dei cortigiani; lo stesso Galeazzo Visconti chiedeva notizie della sua salute. Lui, però, trovava requie solo in quella solitudine, della quale si sarebbe ammantato ancora per chissà quanto, se non ci fossero stati quelle benedette trattative con l’Imperatore, e quello scontro fra i Carraresi e i Visconti che non voleva placarsi, e lui, pover’uomo, nel mezzo, a barcamenarsi fra i vecchi e i nuovi signori. Lui non aveva diritto a un solo momento di pace vera! E non uno, nemmeno uno che avesse intuito quale mutilazione la morte di Franceschino gli aveva inferto. Non aveva ancora due anni, quel bambino, era un essere insignificante. Tutte le chiese erano circondate da decine di tombe di piccoli angeli. Anche della fuga di Giovanni nessuno si era accorto. Tranne Donato, ovviamente, ma Donato sapeva.

Era stata davvero terribile quell’estate, da dimenticare!

Soltanto del ritorno a Padova conservava un piacevole ricordo. Francesco da Carrara non si era limitato ad andargli incontro con seguito di armati alla porta della città, ma quella sera stessa si era recato nella sua abitazione. Aveva lasciato in strada la scorta e il seguito e si era intrattenuto con lui da solo: erano rimasti seduti in quello stesso studio dove sedeva adesso fino all’ora di coricarsi. Un onore che nessun altro privato cittadino aveva mai avuto in Padova. Prima avevano parlato di politica, degli strascichi della discesa di Carlo IV poi erano passati a discorrere degli studi umanistici e della gloria, ma anche del trionfo del tempo e dell’inanità delle umane ambizioni. Il Signore di Padova era un filosofo morale per natura, assai pensoso della vita eterna, l’unico bene stabile e sicuro a cui l’uomo può aspirare. Avevano colloquiato come due vecchi saggi, distaccati dalle miserie terrene e preoccupati dei soli valori che danno la felicità: la cura dell’anima e la fede nel suo creatore. La mattina successiva, mentre percorreva la strada verso il palazzo, i vicini lo indicavano a dito e dicevano l’uno all’altro: «Quello è l’amico più stretto del signore». Ecco quanto poteva salvare di quella estate obbrobriosa.

 

Aveva salutato l’amico di Certaldo con un calore e una affettuosità del tutto particolari. La sua presenza sarebbe stata un balsamo per le ferite della sua anima.

Sebbene lo avesse incontrato poche volte, era profondamente legato a Boccaccio. Loro due si intendevano al volo: l’uno capiva lo stato d’animo dell’altro senza bisogno di spiegazioni. Così, almeno, a lui sembrava. Fin dal primo incontro aveva avuto l’impressione che i silenzi imbarazzati di quell’uomo dall’umore balzano, a volte allegramente sfrenato, ma più spesso intristito da cupa melanconia, fossero i silenzi di chi sa e rispetta ciò che ha capito. E gli sembrava che pure Giovanni, sotto i modi ossequiosi nei quali costringeva le sue manifestazioni di amicizia, pensasse la stessa cosa di lui.

Non lo vedeva da quasi cinque anni. Lo aveva trovato invecchiato nel viso e imbolsito nel fisico: aveva proprio l’aria di un prete. Benché fosse più giovane di quasi dieci anni, dimostrava la sua stessa età. Povero Giovanni, si era detto, invecchi in fretta. E tuttavia aveva provato una certa soddisfazione nel vederlo così ridotto.

Boccaccio era reduce da una ambasceria a Roma per conto della Repubblica. Aveva portato il saluto del popolo fiorentino a papa Urbano da poco trasferitosi da Avignone nella sede naturale di Pietro. Era impaziente di raccontare gli incontri romani, le nuove conoscenze, gli ambienti curiali, l’accoglienza e le parole del Pontefice. A Giovanni non era capitato spesso di ascendere ai cieli dell’alta politica. Era comprensibile che riferisse quella sua avventura con toni accesi, esaltati. Lui l’ascoltava sorridendo, e dentro di sé era divertito dall’ingenuità dell’amico, dal suo trovare tutto bello, anzi, bellissimo, anzi, eccezionale. Giovanni era fatto così, aveva aspetti fanciulleschi. La tirava un po’ per le lunghe con le meraviglie romane e sicuramente esagerava il suo ruolo in quell’occasione che, in fondo, tanto storica non era, ma lui non voleva guastargli la festa. Gli bastava un tocco, una piccola affermazione buttata lì senza dargli importanza, del tipo: «Sì, hai ragione, papa Urbano è davvero una persona squisita. Ha avuto la benevolenza di scrivermi poco dopo il suo arrivo», bastava una frasetta così per ristabilire la gerarchia.

La voglia di fare bella figura, di darsi un po’ di importanza, Boccaccio l’aveva dipinta sulla faccia. Si vedeva benissimo che il desiderio di raccontare l’ambasceria gli urgeva dentro, che di quello voleva parlare. Eppure all’inizio non ne aveva fatto che un rapido cenno, come a cosa di poca rilevanza. Invece si era intrattenuto a lungo sulla sventura dell’amico: aveva espresso sincero rammarico per il lutto che lo aveva colpito e aveva cercato di lenirne il dolore con considerazioni, ovvie ma sincere, sulla beatitudine riservata in cielo a quell’angioletto terreno. Era quella delicatezza d’animo, quella premura gratuita, dettata da vera amicizia, che gli faceva apprezzare Boccaccio più di ogni altro amico. Incoraggiato dal constatare fino a che punto egli condividesse i suoi sentimenti, era stato lui, allora, a deviare il discorso sul copista Giovanni.

«Il destino mi perseguita, mio caro amico» gli aveva detto con una sincerità totale. «Vedi? Anche Franceschino mi è stato tolto. Non bastava la fuga di Giovanni.»

E aveva proseguito manifestandogli tutta la sua apprensione per il futuro del Malpaghini. Cosa avrebbe fatto? Chi lo avrebbe consigliato, guidato? Quel giovane non era ancora pronto per affrontare la vita da solo.

«Sai, nella sua ultima lettera mi scrive che è stanco di girovagare e che intende trasferirsi a Firenze e lì fermarsi. Secondo te perché ha scelto proprio Firenze?»

Boccaccio non sapeva che dire. Per la verità, lui non voleva una risposta. Voleva solo saggiare le reazioni dell’amico, scoprire da un improvviso mutamento della sua fisionomia o da qualche altro segnale se quella decisione di Giovanni gli rivelasse qualcosa. Ma il volto di Boccaccio non aveva tradito alcuna emozione particolare.

«Mi fa piacere che voglia andare a Firenze» aveva continuato lui «almeno potremo contare su di te. Il ragazzo ha bisogno di un occhio paterno.»

Aveva messo nelle sue parole una affettuosità, una preoccupazione ansiosa che mai aveva rivelato ad altri, tranne che a Donato. Sperava che l’amico capisse.

«Ma via, Francesco», era stata però la sua risposta «ti preoccupi ancora per quel ragazzo! Non avrà problemi, stanne certo. Figurati se non trova una buona sistemazione un giovane raccomandato da Francesco Petrarca. Proprio non capisco perché ti agiti. Comunque, se verrà davvero a Firenze, fai pure affidamento su di me.» E aveva proseguito: «Ti manca un segretario? Ma saranno dozzine i bravi giovani disposti a battersi pur di entrare al tuo servizio! Prega piuttosto per l’anima del tuo Giovannino, e cerca di abbreviare le pene del purgatorio a quello spirito disgraziato».

Sotto sotto, aveva pensato, Boccaccio resta un prete. Un prete, per di più, che non doveva aver dimenticato quanto fosse umiliante la condizione di bastardo. Aveva cambiato discorso e l’amico ne aveva approfittato per dare la stura ai racconti romani.