CAPITOLO 16
L’ULTIMA VITTORIA
Giovedì, 12 marzo 1981
La comunicazione di presentarsi in Questura le era stata trasmessa per il primo pomeriggio del 12 marzo.
Olimpia non si era stupita troppo quando l’aveva ricevuta. Aveva capito che erano sulle sue tracce ma non immaginava quali carte il commissario avesse in mano. Era decisa a difendersi, sopra a ogni cosa teneva alla sua reputazione.
C’era la speranza che dopo sei mesi volessero risentirla per chiudere come irrisolto il caso di Pina Accorsi. Tuttavia la tormentava il dubbio di chi aveva potuto vederla arrivare la sera del delitto, e temeva di avere lasciato in giro qualche prova.
Doveva tastare il terreno prima di qualsiasi innocente ammissione, cercare di capire che cosa la Polizia avesse scoperto. Però si sentiva debole, sempre più debole, non sapeva se sarebbe stata in grado di giocare di astuzia, come in passato aveva fatto magistralmente, in tante circostanze.
Per l’occasione Pisani aveva sparpagliato davanti a sé sulla scrivania foto e documenti delle criminose imprese della contessa per intimorirla. Era palesemente nervoso. I suoi uomini, nella stanza vicina, tacevano.
Quando Improta introdusse la donna, Marco, alzatosi per salutarla, rimase di stucco.
L’Aldrovandi era sempre elegantissima, avvolta in una pelliccia di visone scuro e perfettamente truccata, ma dall’ultima volta che l’aveva vista pareva aver subito un tracollo. Camminava a fatica, appoggiata a un bastone, era smagrita, i lineamenti tirati, pallida, come spenta. Appariva gravemente ammalata.
Improta dovette aiutarla a liberarsi della pelliccia e a sedersi, prima di ritirarsi chiudendo la porta dietro di sé.
«Non credevo che ci saremmo rivisti» attaccò la donna a voce bassa.
«Non ha qualcosa da dirmi?» chiese Pisani pronto alla battaglia.
«No» fu la risposta. «Ma se sono qui significa che è lei ad avere qualcosa da chiedermi.»
La schermaglia era cominciata.
«Questo non è un interrogatorio ufficiale» esordì Pisani. «E ciò che dirà non potrà essere usato contro di lei. Lei è qui, signora, come persona informata del delitto Accorsi, del delitto Serra e della strage di Desenzano.»
Sanno ogni cosa, pensò, ma ormai che importanza ha?
«E perché dovrei essere informata su questi delitti?» chiese tuttavia ad alta voce.
«Perché li ha commessi lei.» Pisani le indirizzò un’occhiata tagliente.
«Mi sta accusando senza prove» ribatté Olimpia. «E senza il mio avvocato.»
Le prese un accesso di tosse convulsa. Aveva scelto di non confidarsi con un legale e ignorava le scappatoie che la legge poteva consentirle. Ma non importava: un processo l’avrebbe esposta in ogni modo alla vergogna.
«Le ripeto che non è un interrogatorio, siamo solo io e lei.» E Marco le versò un bicchiere d’acqua.
Mentre la donna beveva a piccoli sorsi, come per guadagnare tempo, le sciorinò davanti le foto di lei e Gualtiero a Venezia, le immagini della strage di Desenzano e la bustina delle paillettes ritrovate in casa Accorsi.
Sconcertata, Olimpia riuscì solo a replicare: «E lei ha il coraggio di disturbarmi per quattro foto? Queste lei le chiama prove?».
Con studiata lentezza Marco aprì il cassetto delle scrivania, ne estrasse un vecchio astuccio, lo aprì e le mise davanti la famosa collana del maharajah. «E questa lei come la chiama?» ringhiò.
Olimpia trasalì, fu presa da un violento capogiro ma non voleva ancora arrendersi. «È una collana come tante» replicò. «Cosa significa? Dovrei conoscerla?» Tuttavia aveva accusato il colpo ed era diventata livida.
«No, non è come tante» affermò Pisani senza toglierle gli occhi di dosso. «Abbiamo verificato la matricola telefonando alla casa produttrice. Questa collana fu venduta nel 1932 al ministro del Tesoro di uno stato indiano il cui maharajah la regalò alla cantante Anita Serra. Era scomparsa dalla cassaforte della donna quando questa fu uccisa, insieme agli altri gioielli e a una consistente somma di denaro.»
«E io che c’entro?» ribatté Olimpia.
«Eccome se c’entra. Lei dopo la guerra ha portato questa collana, come molti altri gioielli, al suo orafo di Bologna, il signor Longiani, perché ne ricavasse le pietre preziose e la fondesse. Ma il suo artigiano non ha avuto il coraggio di distruggere questo capolavoro e ha sostituito le gemme con pietre sintetiche lasciando la collana intatta. Eccola qui. Il nipote è pronto a testimoniare.»
Il maledetto, pensò Olimpia.
«Che relazione c’è tra la collana e la morte di Pina?» chiese sfrontatamente. Ancora non voleva cedere.
«A quello arriveremo» rispose Pisani con voce sorda. «Perché prima bisogna parlare della morte di sette persone a Desenzano nell’ottobre del ’44. Anzi, non dobbiamo affatto parlarne, perché di quell’episodio c’è un testimone oculare disposto a illustrarlo in tribunale.»
Aquila, di nuovo lui. Olimpia si sentì gelare.
«Ora basta!» sibilò col volto contratto dall’ira. «Non sono obbligata ad ascoltare queste sciocchezze. Me ne vado.» Fece per alzarsi, ma un capogiro la obbligò a sedersi di nuovo.
Era chiaro che la donna stava male, Marco però non riusciva a provare pietà. Implacabile, le mise sotto gli occhi le paillettes.
«Le abbiamo trovate in casa di Pina Accorsi, e sono diverse da quelle della stoffa che lei ha mostrato a me e al maresciallo e che ha detto di avere comperato da Galbiati. Lei ha mentito. Abbiamo pensato che sia stata costretta a sostituire la stoffa che si era macchiata di sangue. Lei ci aveva raccontato di essere andata a Torino il giorno dopo il delitto, e i miei uomini hanno visitato i negozi di Torino finché non hanno trovato quello di via Madama Cristina, dove la commessa si ricordava di lei, rammentava perfino che aveva pagato in contanti.»
Sapevano tutto! Non c’era margine per inquinare le prove. Olimpia tacque e abbassò la testa. «Mi lasci sola per mezz’ora» mormorò.
Improta l’accompagnò in sala d’attesa rimanendo dietro il vetro a controllarla. Olimpia pareva immersa in profondi pensieri, fumava a lunghe boccate e ogni tanto veniva presa da un accesso di tosse.
Quando tornò nell’ufficio del commissario (gli uomini della squadra la guardarono passare in silenzio dalle loro scrivanie), trovò un vassoio con due caffè sul tavolo.
«E ora mi racconti» la invitò Marco servendole la bevanda.
«So perdere, commissario» ribatté lei. «Ma non perdo mai la testa…»
«Questo lo so.»
«L’avevo sottovalutata. Come ha fatto a scavare così lontano nel tempo?»
«Anch’io uso la testa, signora. Nel nostro mestiere si tratta di saper interpretare le carte, sfogliarle, metterle a confronto, cogliere le discrepanze. Si tratta di far parlare le fotografie. Inoltre lei non immagina quanto prodigiosa sia la memoria dei vecchi… In viale Col di Lana 12 c’è chi rammenta ancora la sua gioventù, e a Cinecittà c’è chi si ricorda dei suoi incontri segreti con il colonnello Morlacchi. Abbiamo prove di tutti i suoi delitti.»
Olimpia tacque ancora, a lungo. «Bene» sospirò infine. «Facciamo un patto.»
«E perché mai?»
«Glielo spiego: questo, lo ha premesso lei, è un colloquio informale. Posso sempre assumere una schiera di avvocati, negare tutto e darvi del filo da torcere. Ma in tal modo, fin da domani, tra l’istruttoria e il processo, la mia reputazione sarebbe rovinata, si parlerebbe di me su tutti i giornali, diventerei lo zimbello della stampa, non mi sarebbe risparmiato nulla. Anche se… al processo probabilmente non arriverò mai.» Marco si chiese che cosa volesse dire. «E in quanto alla Polizia, sarebbe impegnata ancora mesi a raccogliere prove, a scovare testimoni, a perdere tempo. Tutto per niente.»
«Perché per niente?»
«Perché, caro il mio giovane commissario, io al processo, le ripeto, non ci arriverò. Ora le racconto una storia che non ha ancora scoperto: pochi giorni dopo la morte di Pina andai a farmi visitare dal ginecologo che non vedevo da qualche anno. C’era qualcosa che non andava e il medico se ne accorse subito e mi sottopose ad analisi accurate. Scoprì che avevo un tumore alle ovaie, ormai in fase avanzata. Sono stata operata alla Madonnina in un estremo tentativo di fermare il male, ma non c’è stato nulla da fare. Il tumore era già in metastasi e si era esteso alle ossa. Sono condannata, e per questa condanna non sono previsti né Appello né Cassazione. Mi restano al massimo tre mesi di vita. Non è un trucco, è la verità. Se ne può accertare telefonando al professor Mampieri, che mi ha in cura.»
Marco la fissava trasecolato. Parlava della propria morte con gli occhi asciutti, ne stava facendo oggetto di contrattazione.
«E allora?» la sollecitò.
«Vede, per tutta la vita ho sempre protetto la mia reputazione. Sono nata povera, come lei sa, e per una ragazza come me la reputazione era l’unica dote. Ora che sono una donna nota e importante non me la sento di essere fatta oggetto di chiacchiere nel mio ambiente e fuori.»
«Quindi?»
«A giorni dovrò essere di nuovo ricoverata, e sarà per l’ultima volta, perché l’unica cosa che i medici possono fare per me è alleviare il dolore. Lei può fermare le indagini fino alla mia morte, può mettere un agente a sorvegliare la mia stanza, anzi posso disporre di una suite per alloggiarlo comodamente. Non c’è pericolo che fugga, in queste condizioni. Come potrei fuggire alla condanna che mi porto addosso?»
«E in cambio che cosa mi offre?»
«La mia confessione integrale, firmata e circostanziata. Dopo la mia morte la potrete usare per chiudere i casi rimasti insoluti, ma vorrei, e questa è una preghiera, che anche dopo la stampa non fosse messa al corrente delle mie vicende. Vorrei che la mia reputazione rimanesse intatta.»
Anche dopo morta, pensò Marco. Si preoccupa della sua immagine anche dopo morta.
«Vedrò cosa posso fare» rispose. «Mi aspetti qui.»
«Dove vuole che vada?» mormorò Olimpia mentre Pisani si allontanava.
Un quarto d’ora dopo Marco era di nuovo in ufficio accompagnato da Calisti e da Cotunno, che si mise alla macchina per scrivere.
«Il vicequestore dà il suo consenso» esordì presentandolo.
«Però lei deve procedere subito alla deposizione» precisò Calisti. «Quindi un agente la accompagnerà a casa e da lì si recherà subito in clinica, agli arresti domiciliari.»
Fu solo in quel momento che Olimpia silenziosamente pianse, due grosse lacrime le rotolarono dagli occhi lungo le guance scarne.
«Sono pronta.»
«Hai capito, Lauretta? Ha ucciso la povera Pina così, d’impulso, per evitare un pericolo del tutto ipotetico! Quando la sarta l’ha riconosciuta dall’angioma a forma di cuore, lei ha temuto che raccontasse la sua storia per tutta Milano e che si scoprisse la fine di Gualtiero. C’erano le forbici a portata di mano, e così…»
Pisani e Laura erano nel solito ristorante e Marco aveva appena finito di ripercorrere la confessione di Olimpia.
«In questo momento è già in clinica, piantonata da un agente, e ci resterà fino alla fine» concluse.
«Ma non ti spiace che tutto passi sotto silenzio e che alla Polizia non venga attribuito alcun merito? Il delitto Accorsi verrà presto dimenticato, e passerà per la solita rapina di balordi…»
«Cosa vuoi che me ne importi? I miei uomini sono stati bravi e in Questura lo sanno. Della gloria dei giornali non so che farmene.»
«Come ti senti, adesso che è tutto finito?» gli chiese Laura accarezzandogli una mano.
«Mi sento svuotato; per sei mesi il mio pensiero è stato fisso su quel caso, e ora più niente.»
«Non temere» ironizzò la ragazza. «I milanesi ti troveranno altro da fare. Furti, delitti, rapine non si fermano mai. Ma se tu dovessi fare un bilancio, cosa è uscito di buono da questo sconvolgimento di tante vite?»
«Senza dubbio Giorgio Mantovani! È venuto a trovarci questa sera e gli abbiamo raccontato tutto. Ne era fiero, perché anche lui ha contribuito alle indagini. Lo sai che si è proprio messo sulla buona strada?»
«L’hai salvato.»
«E poi c’è dell’altro…»
Laura si fece attenta.
«Sai cos’ha fatto l’Aldrovandi appena arrivata in clinica? Me l’ha raccontato il piantone. Si è procurata il numero e ha telefonato a sua sorella. Pensa, dopo più di quarant’anni che non la cercava. E la sorella andrà a trovarla in clinica. Carminati darà di sicuro il permesso.»
«Non vuole morire sola» commentò Laura.
Marco assentì versando nei bicchieri un bianco frizzante per brindare. «Ma non ho finito. Sembra che riceva frequenti visite anche da parte di don Salvatore Torti, il suo parroco, che, a detta delle infermiere, esce sempre piuttosto soddisfatto. È chiaro che la contessa Aldrovandi si sta comprando il paradiso…»
Olimpia dormiva, intontita dai farmaci, nella sua stanza alla Madonnina, quando fu svegliata da un lieve colpo alla porta. Aprì gli occhi e nella penombra intravide una figura femminile china su di lei.
«Olimpia, come stai? Perché non mi hai informata della tua malattia?»
«Claudia, che piacere vederti!» mormorò la donna riconoscendo la figliastra. «Come hai saputo?»
«Mi ha telefonato la mia amica, la dottoressa Corti, che lavora qui. Sarei venuta prima…»
Meno male, pensò Olimpia. La dottoressa, tenuta al segreto professionale, certamente non aveva raccontato a Claudia i particolari della sua degenza.
«È un piacere vederti. Ma non c’era motivo che ti preoccupassi. Devo solo sottopormi ad alcune cure. Ti trattieni a Milano?»
«No. Sono solo di passaggio perché sto organizzando una mostra a Bergamo. Ma non potevo fare a meno di vederti.»
«Cosa fai di questi tempi, oltre che occuparti d’arte? A Torino ti trovi sempre bene? Hai un fidanzato?»
Claudia si fece seria. «Lo sai, Olimpia, che dopo la disgrazia queste cose non mi interessano più.»
Le due donne si trattennero qualche tempo a parlare di avvenimenti e conoscenze comuni, poi Claudia si alzò dichiarando di dover andare.
«Ma tornerò a trovarti» aggiunse baciandola affettuosamente.
Olimpia la vide uscire con sollievo. Dal momento della morte di Giorgio Franchi, in sua presenza sentiva sempre un certo imbarazzo. Povera Claudia, si trovò a pensare. La vita per lei era finita prima di cominciare.
Quel disgraziato 4 aprile in cui aveva avuto la notizia, com’era sua abitudine nei momenti difficili, Olimpia aveva passato la notte in terrazza a rimuginare. Dapprima aveva progettato di fingere un grave malessere il giorno del matrimonio, per non partecipare alla cerimonia e non incontrare Guido Alfieri, ma subito aveva capito che così non avrebbe risolto ma solo posticipato il problema. Ci sarebbero stati battesimi, riunioni di famiglia, mille occasioni per incontrare quel maledetto, e prima o poi tutta la storia di Desenzano sarebbe riemersa, sommergendo di fango non solo lei ma Riccardo e la famiglia Aldrovandi. Non poteva fare questo a suo marito.
L’unica soluzione era impedire il matrimonio. Ma come?
Aveva meno di due mesi per escogitare qualcosa; e nel frattempo si ritrovava a pregare che a Giorgio capitasse un incidente. Già, un incidente… Si fermò a pensare. A volte capitano. C’è chi li sa far capitare in modo che sembrino disgrazie… Ci voleva un professionista.
Un professionista… C’era una sola persona che l’avrebbe fatto per lei, Tonino Novelli, rapinatore e assassino. Lui era nel giro giusto.
Non a Milano, piuttosto in una strada di campagna, anzi di montagna. Giorgio diceva da tempo che sarebbe andato a controllare la baita di Morterone in vista del viaggio di nozze, e la strada per arrivare era tutta curve e burroni. Quello sarebbe stato il posto adatto, bastava sapere con un po’ di anticipo quando sarebbe partito.
Strano come i ricordi le tornassero limpidi. La visita di Claudia l’aveva riportata indietro, a quell’episodio che aveva preferito dimenticare.
Organizzare l’incidente (nemmeno tra sé osava chiamarlo delitto) non era stato facile, e se aveva trovato il coraggio di farlo era stato solo per il bene della famiglia.
Sperava che tutto fosse ancora come le aveva spiegato anni prima Tonino.
Si recò col tram in via Palmieri, al bar Granada, che aveva resistito alla guerra e al dopoguerra. Era una specie di osteria, con uomini anziani che giocavano a carte e un antiquato jukebox in un angolo. Ordinò un caffè e si rivolse al grassone dietro il banco.
«Lei è Gigliotto?» chiese a bassa voce. E al cenno di assenso dell’uomo, continuò: «Vuole recapitare per favore questo messaggio? Farfallina cerca Adamo».
Gigliotto la guardò con attenzione. «E?» disse soltanto.
Olimpia gli porse un biglietto. «Questo è l’indirizzo e l’ora.» E se ne andò.
L’incontro con Tonino era stato una dura prova. Nel suo letto d’ospedale rabbrividì al ricordo. La sera dopo era in attesa su una panchina buia del Parco Sempione. Non lo sentì avvicinarsi. Trasalì al tocco della sua mano sulla spalla. Tonino si sedette, indossava un distinto completo blu e sembrava un uomo d’affari. «Dio, sei ancora bella come una volta.» Sorrise. «Perché hai bisogno di me?»
Non poteva raccontargli la verità e si era inventata una storia. Gli disse che era ricattata da un uomo più giovane con cui aveva avuto una relazione. Non la lasciava vivere. Ci voleva un incidente che sembrasse una disgrazia per toglierlo di mezzo.
«Mia cara Olimpia» sospirò Tonino dopo che la ebbe ascoltata con attenzione, «mi dai un grande dolore, un dolore doppio: prima di tutto perché vedo che mi consideri un assassino, e per giunta su commissione.»
«Ma hai ucciso due persone» lo interruppe Olimpia. «C’era sul giornale…»
«È stato come in guerra, si uccide per non essere uccisi. Io non sono un assassino a sangue freddo. Tu invece sei diventata una donna senza scrupoli, e questo mi addolora la seconda volta.»
«Ma Tonino, quello mi vuole rovinare!» si difese Olimpia.
«C’è sempre un’altra soluzione.»
«No, Tonino, le ho pensate tutte. E poi si tratta di un delinquente… Se non mi aiuti tu, dimmi almeno a chi posso rivolgermi.»
Tonino glielo disse. «Ma non venire più a cercarmi» concluse.
Olimpia rimase sola nel buio, più addolorata per aver perso il suo vecchio amico che per l’impresa che si disponeva a commissionare.
Olimpia si girò di nuovo nel letto per cercare una posizione più comoda. Povera Claudia, pensò. Ma non ho avuto scelta, dovevo evitare lo scandalo. E poi chissà se con lui sarebbe stata felice, con quella differenza d’età… Sono tanti oggi i matrimoni che vanno all’aria.
E forse si è trattato davvero di un incidente… Hanno trovato poco lontano il TIR rubato, ripulito dalle impronte. Poteva essere di chiunque. Nemmeno quel commissario impiccione, quel Marco Pisani, ha sospettato qualcosa di diverso.
Si affacciò una giovane infermiera. «Contessa, serve qualcosa?»
«No, cara, grazie, sto per addormentarmi.»
E negli ultimi barlumi di coscienza, prima che i farmaci l’avessero vinta sui ricordi, considerò soddisfatta che la sua reputazione era ancora immacolata. Le restava poco da vivere, ma sarebbe rimasta fino alla fine la contessa Aldrovandi. La sua vita aveva avuto un senso.
E sull’incidente del Mortarone, ridacchiò, era riuscita a farla franca.